Il sonno è di quelli profondi. E nonostante le bastonate alla collottola e i ganci sotto la cintura, non c’è verso di svegliare il dormiente centrodestro.
Su altri fronti il Nostro, all’opposto, pare non volersi prendere un attimo di riposo. E’ ipercinetico. Ha fatto e - c’è da scommetterci – continuerà a fare per non sbattere i denti contro il muro delle attese tradite. Tra le più meritevoli, fra le tante, ha varato un pacchetto di norme per la sicurezza di cui taluni ricordano solo i pezzi utili a fare polemica da suburra. E perfino esportabile. Imboccano i corrispondenti dei fogli esteri chiedendo loro di scrivere in vermiglio che l’Italia è preda di invasati governativi che girano per strada, machete tra gli incisivi, a caccia di stranieri da affettare. Che quegli stessi stranieri vengono respinti, e quindi fatti crepare in mare, per “xenofobia” teorizzata e praticata.
Forse che ha qualche fondamento, allora, il travaso di bile del premier che addita le gazzette straniere di sputtanamento sistematico di sé e dell’Italia intera. E ha qualche ragione a inalberarsi non perché sia l’Unto che mai toppa, ma perché i numeri che non temono smentite hanno una faccia troppo diversa dalle ricostruzioni impastate con la demagogia.
Così è se si considera che i respingimenti sono iniziati per normalizzare un apparato di accoglienza in affanno. Così è se si introduce il reato di immigrazione clandestina non per autocompiacimento razzista ma per dare senso ed efficacia al sistema delle espulsioni, prima affidato al cortese invito di lasciare i confini patri.
Così è se le leggi antimafia contenute nel pacchetto sicurezza (l’unico precedente di pari incisività è nel decreto “Scotti-Martelli” del ‘92, ma stavolta si è agito indipendentemente dalle bombe. Non si chiama “volontà politica” di azzoppare i clan?) stringono il cappio attorno al collo della mala.
Le norme che agevolano il sequestro e la confisca dei beni dei mafiosi, che inaspriscono il “carcere duro”, che tengono lontani dagli appalti pubblici gli imprenditori strozzati che hanno “dimenticato” di denunciare gli estorsori, che colpiscono anche l’apparato burocratico (e non solo gli eletti) in caso di scioglimento di un’amministrazione per infiltrazione mafiosa, non sono leggi che a un colluso (come è il Cavaliere per D’Avanzo e compagnia) converrebbe non proporre? O si dirà che sono “coperture costose ma doverose”?
Così è perché dall’insediamento di Berlusconi a oggi sono stati arrestati 270 latitanti, con una media di otto arresti al giorno durante l’anno scorso; sono stati sequestrati alla criminalità organizzata beni per un valore complessivo superiore a cinque miliardi di euro, diecimila miliardi del vecchio conio. Si sta operando nella direzione sperata dai magistrati che fanno e hanno fatto, dilaniati dal tritolo, l’antimafia concreta, non quella dei teoremi. Si sta prosciugando il brodo di denari in cui prosperano i boss, che considerano l’arresto poco più di un “incidente di percorso” ma si spezzano senza i capitali che, in molti casi, li rendono capitani di impresa esemplari, finissimi.
Maroni e Mantovano sembrano due dischi rotti; li ripetono fino allo sfinimento i numeri plastici del successo, ma anche i più grandi primati, se ridotti a trionfo aritmetico, paiono roba da ragionieri. Dovrebbero essere sostenuti da pezzi e servizi “caldi”, che uniscano la matematica ai principi umanamente bollenti (fatti di determinazione, di messianismo civile) che innervano la lotta contro la barbarie mafiosa.
Si è bussato in patria, per allargare il giro dei soliti Feltri, Belpietro e Ferrara, alle porte di Repubblica e di Padellaro, ma non hanno aperto impegnati com’erano a fare pornodomande e a consolidare la fama di picciotto, “a prescindere”, del premier. Si è citofonato all’estero, ma dei 270 latitanti finiti al gabbio non interessa al club dei fogli progressisti, disponibili a ciarlare di feste e baldracche, ma a corto di inchiostro se bisogna illustrare l’Italia, un Paese che – a dispetto del “tanto peggio tanto meglio” dei travagli e dei dipietri nostrani – la schiena dritta ce l’ha.
Il Nostro, il governo tutto, macina chilometri e su parecchi versanti: dalla sicurezza alle emergenze ambientali, dall’economia alla biopolitica (non volendo ascriversi il titolo di governo omicida, che fa morire di fame e di sete i disabili gravi e fa abortire le donne col pesticida domestico). Su un fronte però dorme. Come un sasso.
Se per raccontare i successi reazionari ci si deve affidare sempre e solo ai tre di cui sopra, forse è ora di finirla con l’autocensura preventiva. Il timore è noto: se già ora a Berlusconi danno del duce caraibico, figurarsi cosa accadrebbe se tirasse fuori il suo Floris, la sua Dandini, il suo allegro deejay azzurro. Risposta facile: cosa c’è da perdere? Una palata di letame in più rispetto alla discarica che gli riversano quotidianamente addosso fa la differenza? Non scherziamo. E non si dica che in passato si è tentato di farlo, perché qui si parla di tirare fuori decine di gladiatori con gli attributi, che dettino il dibattito e suscitino - per l’annozero cavalleresco - le stesse aspettative del circo di Santoro.
Basta col complesso di inferiorità perenne, con le gambe che tremano davanti alle scempiaggini sulla libertà di stampa schiacciata. Fanno sanguinare le orecchie con il premier che controllerebbe – coi soldi e col potere - tutto il sistema dei media che contano. Che lo dicano a ragione, allora, visto che finora si è pagato dazio per portare a casa solo briciole e contumelie.
Cacci dalla naftalina i suoi Santoro, Berlusconi; moltiplichi i giornali, gli avamposti della Rete per dare voce e scrivania ai tantissimi ragazzi di talento allergici al sinistrismo; apra le scuole dei cabarettisti, degli attori non allineati; lanci le radio (che siano megafono di tutta la cultura non conformista) sul modello delle antenne che danno linfa al movimento conservatore americano e fanno impazzire i liberal obamiani. E non si dica che non ci sono, sarebbe imperdonabile.
Li tiri fuori, dia loro visibilità. A meno che non ci si voglia suicidare continuando a vincere alle urne e a lasciare nel silenzio quella maggioranza che, stanca di essere additata come antropologicamente inferiore (tra i tanti, il pezzo di Pirani su Repubblica del 28 ottobre docet), ora vuole urlare. (l'Occidentale)
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La grande bufala della nave dei veleni
di Luca fazzo
Magari - e purtroppo - da qualche altra parte sui fondali del Tirreno una nave più o meno carica di veleni ci sarà davvero. Ma ormai tre cose sono sicure. La prima è che non è il relitto che per un mese e dieci giorni ha riempito i giornali, animato dibattiti, turbato i sogni e i bagni della brava gente di Calabria: non è, insomma, la temibile «Cuski» carica di veleni di cui il superpentito Francesco Fonti ha parlato con i magistrati, giurando e stragiurando di averla affondata su ordine dei clan. La seconda certezza è che fino a 300 metri di profondità non c’è traccia di radiazioni. La terza, altrettanto sicura, è che tutta questa agitazione si poteva risparmiare fin dall’inizio se si fosse tenuto conto della fonte da cui arrivava la rivelazione.
Perché Fonti non è un «pentito» qualunque. È uno che le spara grosse (noto nell’ambiente come «l’aggiustatore»). Uno le cui balle hanno infestato per anni i verbali delle procure calabresi, prima che ci si rendesse conto di essere davanti, se non ad un mitomane, almeno a un uomo dalla fantasia disinvolta. Uno che sosteneva che Bernardo Provenzano era stato ucciso dalla camorra, e che la ’ndrangheta trattava con Giulio Andreotti attraverso il suo autista. Tutte robe così. Compresi gli immancabili scoop sui contatti tra la malavita calabrese e Silvio Berlusconi, talmente strampalati da non venire nemmeno tradotti in inchieste.
È per questo, per la sua inaffidabilità pressoché totale, che Francesco Fonti è stato lasciato fuori dal programma di protezione riservato ai collaboratori di giustizia. L’abbandono in cui il «pentito» denunciava di trovarsi, la perdita della scorta e dello stipendio, erano tutte lamentele ben note a chi in Italia si occupa professionalmente del delicato tema dei collaboratori di giustizia. Uno scenario verosimile è che anche le rivelazioni di Fonti sulla «Cuski» (che in realtà potrebbe essere il «Cagliari», un innocuo piroscafo affondato durante l’ultima guerra) costituiscano semplicemente il tentativo di un pentito in disgrazia di tornare in auge.
La prima volta che Fonti proclama la sua volontà di collaborare con lo Stato sono le 16 del 26 gennaio 1994. In una località protetta l’aspirante pentito incontra il sostituto procuratore nazionale antimafia Vincenzo Macrì e quattro funzionari delle Criminalpol di Bologna, Milano e Reggio Calabria. L’inizio è commovente: «Ho conosciuto una ragazza con la quale vorrei vivere insieme e formarmi una famiglia \ Non intendo passare lunghi anni in carcere anche perché non sono più giovane». Da quel momento non smette più di parlare.
In una raffica di interrogatori che si protrae sino al 25 marzo, Fonti racconta agli investigatori storie di ’ndrangheta, di rituali, di organigrammi, di traffici di droga, di ammazzamenti. E condisce le sue rivelazioni con dettagli a volte comici («ho attraversato una grave crisi di coscienza per cui avevo pensato di chiudere col traffico della droga, quindi mi sono chiuso nella villa per una decina di giorni, intanto però i miei venditori mi portavano il provento delle vendite e io lo nascondevo nei doposci») a volte sconvolgenti. «Avevo già dei contatti con il colonnello Baddar dell’Olp il quale mi aveva offerto una sontuosa villa dalla quale avrei potuto avviare un traffico internazionale di stupefacenti». «Vincenzo Casillo, braccio destro di Cutolo, non era l’uomo creduto morto nell'attentato avvenuto a Roma ma era rifugiato in Brasile». «Bernardo Provenzano era stato ucciso dai napoletani ma non so quando né in quali circostanze». «Arrivò un uomo di circa quaranta anni, fui chiamato in disparte e mi fu detto che si trattava dell’autista dell’onorevole Andreotti. Tramite questa persona avevano la possibilità di far pervenire all’onorevole Andreotti delle richieste che venivano esaudite». «Il Papalia mi disse che grazie alla presentazione di Ciulla Salvatore suo fratello Papalia Antonio aveva avuto un incontro con Berlusconi Silvio col quale aveva discusso sia di appalti che di investimenti in grosse società gestite dal gruppo Berlusconi».Aveva accusato uno dei più noti psicanalisti italiani di essere un consumatore in grande stile di cocaina. E, visto che c’era, aveva lanciato fango contro un giudice di sorveglianza di Milano, mandandolo sotto processo: il giudice fu assolto, il pentito sbugiardato. Ma la passione di spararle grosse, evidentemente, non gli è passata.
E ora chi ripaga la Calabria avvelenata da una bufala?
Uno dei più intelligenti e appassionanti articoli dell’attuale periodo italiano porta la firma di Antonio Maria Mira, e sta sulla prima pagina dell’Avvenire (di ieri). Sono spiacente, ma non affronta temi elettrizzanti come i nuovi gusti sessuali della nostra rappresentanza parlamentare. Siamo abbastanza distanti. Si parla di una nave sui fondali tirrenici, di sostanze velenose, di Calabria negletta, di giornalismo moderno. È uno di quei temi, cioè, che l’estetica contemporanea scarta subito per noia e fastidio, ormai disposta a scuotersi soltanto per le porcellate altolocate. Invece. Invece siamo davanti ad un caso che dovrebbe davvero scatenare molte discussioni. E anche qualche sana indignazione.
Come giustamente rileva l’Avvenire, nelle ultime settimane il tam-tam della grande informazione ha di fatto colato a picco un’intera regione, senza mai chiedersi se davvero ci fossero gli elementi per un’operazione così crudele e così cruenta. Nessun dubbio, nessuna esitazione: davanti a Cetraro, sul fondo del mare, ci siamo ritrovati il venefico relitto del Cuski, con il suo famigerato carico di cariche radioattive. A certificare la tremenda verità, le rivelazioni di un pentito alquanto visionario e sgangherato, come rigorosamente spiegato dal nostro Luca Fazzo, che su queste cose la sa lunga. Niente da fare, nessuna precauzione: a colpi di reportage e di rivelazioni, la Calabria è finita nel tritacarne. Come se ce ne fosse bisogno, come se già non bastassero i suoi mali antichi, compresi i rifiuti tossici effettivamente seppelliti dalla ’ndrangheta, qua e là, sotto una terra bellissima e vilipesa. Il risultato, un disastro. I pescatori costretti a buttare il pesce. Il turismo costretto a immaginare la prossima estate di cancellazioni. Intere settimane di giornalismo così, ficcante e inflessibile, per mettere in quarantena un’intera regione. Al di là del cordone sanitario, dentro la zona maledetta, il naufragio disperato delle poche speranze rimaste.
Adesso conosciamo la fine della storia: caspita, ci dev’essere un terribile equivoco, là sotto non c’è il Cuski e tanto meno ci sono i suoi veleni mortali. C’è solo un’innocua nave passeggeri affondata dai tedeschi tanti e tanti anni fa. Oddio, mi si è ristretto lo scandalo. E adesso chi lo va a raccontare, in terra di Calabria, dopo settimane di terrorismo eco-psicologico?
L’effetto è spettacolare, nella sua tristezza. Dopo le pagine e i titoli dinamitardi dedicati al mare avvelenato e alla regione contaminata, una zona da evitare come una grande Seveso balneare, ci si aspetta come minimo il lieto annuncio, altrettanto cubitale, della vera verità. Non è certo un risarcimento adeguato, ma è qualcosa. Un dovere civico, se non vogliamo dire morale. Un bel battage per sancire che davanti a Cetraro non c’è l’inferno: con i toni del lieto fine e del pericolo scampato, tutti insieme compiaciuti nel poter tirare un grande sospiro di sollievo. Invece non è così. Purtroppo non è così. Il lieto fine è frettolosamente rivelato in poche righe, tra le notizie brevi, stessa entità e stesso rilievo riservati al tamponamento sull’A4 o alla sagra delle pesche nettarine. Proprio i giornali più solerti e più zelanti nel denunciare la vicenda, dalla Repubblica all’Unità a Liberazione, sono i più sbrigativi nel relegare la verità tra i meandri nascosti delle proprie pagine. E onestamente è difficile dire se sia semplice imbarazzo oppure rabbia vera, nel vedersi portare via l’osso dalle risolutive perlustrazioni marine.
Giustamente Avvenire si chiede: e ora chi pagherà? Chi pagherà i pescatori che hanno invano scaricato ottimo pesce nei porti? Chi pagherà gli operatori del turismo? Chi pagherà questa Calabria già così martoriata? Non sono domande retoriche. Certo il giornalismo ha il dovere di portare a galla, prima ancora dei relitti, le notizie più allarmanti. Se da Cetraro si apprende che in fondo al mare si nasconde una storia poco chiara, giusto rilevarla. Però poi dovremmo tutti trovare la forza di aspettare qualche riscontro e qualche conferma. Non è prudenza, o peggio ancora fuga dalla notizia: si potrebbe chiamare banalmente serietà. Invece qui scatta subito la corsa per portarsi avanti. Tu intanto sparala, poi vediamo. E la fregola non tocca solo i giornalisti. Come dimenticare Veltroni da Fazio, un paio di domeniche fa, con quel suo tono da Gandhi offeso. Riassumo: «In un altro Paese, davanti a un fatto come quello di Cetraro, con gente che fa sparire una nave carica di veleni sul fondo del mare, non si parlerebbe d’altro, sarebbe una questione nazionale, altro che qui...».
Con un piede in America, dove acquista bilocali, e l’altro in Africa, dove non si decide mai a ritirarsi, Veltroni fatica dannatamente ad accettare questo suo Paese. E da un certo punto di vista non gli si può dare torto. Davvero questa Italia ha un sacco di difetti vergognosi. Uno dei peggiori è quello di distruggere persone, gruppi, intere regioni senza risparmio di aggettivi e di fantasie, salvo poi soprassedere quando la verità risulta diversa e sgradita. In un altro Paese, la scoperta che nel mare di Cetraro non riposa la nave dei veleni, ma un vecchio relitto da collezione, avrebbe pagine e titoli estesi quanto quelli del procurato allarme. Non si parlerebbe d’altro, sarebbe una questione nazionale, altro che qui...
le bufale del corriere della sera :
Ora il Corriere dei professori licenzia il premier
di Marcello Veneziani
I principi regnanti della stampa italiana, Sua Maestà il Corriere della Sera e la regina consorte, la Repubblica, citandosi a vicenda, hanno colpito al cuore il sovrano impostore, Silvio Berlusconi, dimostrando che il popolo non è con lui. La coppia reale ha affidato ai suoi due massimi politologi, il professor Giovanni Sartori e il professor Ilvo Diamanti, la dimostrazione scientifica che Berlusconi imbroglia quando dice che è stato eletto dalla maggioranza degli italiani. Diamanti con più prudenza, Sartori senza ombra di dubbio, hanno smontato la tesi di un premier eletto direttamente dal popolo dimostrando che il voto viene dato ai partiti, che il Pdl ha avuto solo una minoranza dei voti e poi al suo interno c’è chi votava Fini o chi votava contro la sinistra; e la quota scende se si considera chi non è andato a votare. Di conseguenza il referto del Professore è secco: Berlusconi è un imbroglione, matematicamente; cioè senza possibilità di smentita. Questo per dire sulla necessità di abbassare i toni e sulla sobrietà dei professori, degli scienziati... Ora per favore torniamo alla realtà più elementare. È vero o non è vero che tutti coloro che votavano per il Popolo della libertà ma anche per la Lega sapevano e vedevano sulla scheda elettorale che avrebbero mandato Berlusconi a Palazzo Chigi? Come si chiama quella croce messa su quei simboli con quel nome accanto? Si chiama consenso. Nessun prestigiatore e nessun gendarme spingeva nessuno a votare così. E parliamo della stragrande maggioranza degli italiani. Che il sistema elettorale ha reso in Parlamento maggioranza assoluta in seggi, a grande distanza dagli avversari.
Seconda elementare obiezione: se dobbiamo confutare le maggioranze decretate dal voto contando coloro che non vanno a votare, allora non ha legittimazione alcun governo, e magari è finita anche la democrazia. Non solo in Italia ma ovunque, a cominciare dalla beneamata democrazia americana. Risulterebbe in questo caso che tutti i leader eletti democraticamente sono stati in realtà eletti da minoranze. Pensate, persino il Venerabile Obama in un Paese dove vota circa la metà degli elettori, considerando i voti dati al concorrente e i voti dati a lui in odio ai repubblicani o per ripiego, non potendo votare il proprio candidato, magari la Hillary, risulterebbe eletto con il lodo Sartori, solo da una comitiva di abbronzati o poco più. Una minoranza.
Se entriamo poi in tema di qualità del consenso, ovvero le motivazioni che hanno spinto a votare, come fa Sartori ricordando il voto indiretto a Berlusconi, ma dato in realtà a Fini o contro la sinistra, allora possiamo mandare a casa tutti i premier del mondo. Si vota contro, si vota per ripiego, per ignoranza, per voto di scambio... Anzi, per fare un esempio che direttamente lo riguarda. Se il Corriere della Sera è il più venduto quotidiano italiano, andiamo a vedere le motivazioni e la qualità dei lettori per capire quanti leggono Sartori. Scarta chi lo compra per abitudine, chi per lo spettacolo o per l’economia (solo per fare un esempio), chi per i necrologi, per gli inserti o perché ci scrive un amico o un parente, chi perché lo riceve in mazzetta o l’ha gratis in aereo, quanti sono i lettori di Sartori? Una minoranza. Di conseguenza Sartori non scrive sul più diffuso quotidiano italiano ma è come se scrivesse su un giornale di provincia. Vi pare un ragionamento sensato e onesto? A me pare una follia, ma è l’applicazione coerente del sofisma del Professor Protagora Sartori.
Io voglio bene a Vanni Sartori, ha scritto libri importanti, è un big della scienza politica, ho condiviso perfino la sua definizione di Sultano data a Berlusconi, anche se pure lui è stato un Pascià della scienza politica. Ma col passare degli anni si diventa immaturi, e Sartori oggi è un vispo ragazzaccio di ottant’anni, toscanaccio e simpaticamente presuntuoso. Da quando è andato in pensione, da quando è tornato dall’America, da quando si è fatto una nuova vita e vive un giovanilismo di ritorno che lo rende affine all’odiato Berlusca, usa il biglietto da visita del suo omonimo Professore per divertirsi in teppismo intellettuale, più lazzi, frizzi e paradossi. Più di me, per dire quanto esagera. Ma a volte il suo odio per Berlusconi lo porta a perdere il senso della realtà e del comico. E finisce con lo scrivere delle scientifiche boiate. In Italia sta montando un estremismo senile contro Berlusconi da parte di un club di ultraottantenni, i cui soci fondatori furono Biagi e Montanelli. Da Scalfari a Bocca, da Sartori ad Asor Rosa, e svariate vecchie firme e fossili baroni. Nonostante l’apprezzabile invito del direttore De Bortoli alla sobrietà e a non schierarsi, i vecchi scatenati del Corriere scrivono editoriali come quelli di Sartori o di Padoa-Schioppa che parla di democrazia e stato di diritto «gravemente minacciati». Ammazza, che senso della misura...
A Sartori dico solo due cose elementari, perché quando si torna puerili bisogna tornare alle elementari. La prima, ma Berlusconi è o non è il più votato dagli italiani? La seconda, ma incontra mai per strada, nella vita, al bar, al ristorante, questa strana razza degli italiani, li sente mai i loro ragionamenti, butta mai un occhio ai sondaggi e agli ascolti in tv, vede mai cosa accade in Parlamento e nelle piazze, fa mai paragoni con l’altra parte? Accusi pure di populismo Berlusconi, si dichiari contrario all’elezione diretta del premier, critichi aspramente la politica di Berlusconi e pure la sua faccia, detesti gli italiani di oggi. Ma non travesta di numeri e di scienza il disprezzo viscerale che gli fa perdere il senno e la realtà. Non stia troppo in casa Professore; visto che ha recuperato la puerilità, vada un po’ a giocare per strada. Si accorgerà che Berlusconi è il più amato e il più odiato degli italiani, comunque il più votato.
Le bufale di de Benedetti :
A De Benedetti la bufala costa 350 milioni
di Gian Marco Chiocci
Trecentottantaquattro milioni di dollari bruciati in un giorno di contrattazioni in Borsa. Colpa del settimanale L’espresso, denuncia Emanuele «Lino» Saputo, uno degli uomini più ricchi del pianeta che ha querelato, citato in sede civile e fatto rinviare a giudizio il periodico di Carlo De Benedetti che gli aveva dato sostanzialmente del mafioso, quando mafioso non era. E proprio per colpa di quell’articolo dal titolo «Boss connection» andato in stampa il 15 novembre 2007, subito ripreso e rilanciato oltreoceano dai quotidiani canadesi Le Globe and Mail, Le Devoir, Le journal de Montreal, La Presse, che l’imprenditore d’origini siciliane residente a Montreal, già membro del Cda della Banca nazionale canadese, ha visto il titolo della sua «Saputo Inc» precipitare senza freni.
Un danno colossale. Un crac finanziario a mezzo stampa. Per il ristoro del quale il re del caseario del Centro e Nordamerica chiede conto proprio al gruppo editoriale guidato dal padrone di Repubblica e L’espresso che è in attesa di incassare i 750 milioni di euro della sentenza di risarcimento Fininvest-Cir. «A titolo di indennizzo per la bufala», il re della mozzarella americana chiede al tribunale di Roma l’equivalente dei soldi persi più gli interessi: 500 milioni di dollari in tutto, oltre 350 milioni di euro. Al momento si dice soddisfatto di come procede l’iter giudiziario italiano poiché il gip romano Marcello Liotta il 2 ottobre scorso ha rinviato a giudizio gli autori dell’articolo e il direttore Daniela Hamaui che risponderà «in concorso» con i colleghi e non - come avviene di solito - per omesso controllo.
Negli atti depositati dagli avvocati Enzo Fragalà e Francesco Caroleo, difensori di Saputo, si stigmatizza una sorta di «campagna stampa denigratoria» finalizzata ad accostare il nome e le attività dell’imprenditore siculo-canadese a personaggi di mafia, come quel Joe Bonanno, padre e Padrino della cosa nostra newyorkese a cui Mario Puzo si ispirò nel tratteggiare il personaggio di don Vito Corleone, poi magistralmente interpretato da Marlon Brando nel film di Coppola. «Si è accostato il nome di Saputo anche ad ambienti malavitosi e a fatti illeciti - si legge nell’atto di querela di Saputo - senza che mai l’autorità giudiziaria italiana, o quella canadese, abbiano contestato alcuna condotta, men che meno lecita, o abbiano mai svolto indagini sulla sua trasparente attività». A riprova della sua condotta immacolata, i legali di Saputo allegano il lindo certificato dei carichi pendenti, la documentazione delle procure di Roma e Milano che esclude l’iscrizione, passata e presente, sul registro degli indagati, e in ultimo un certificato della commissione canadese sul crimine organizzato che dal ’72 al ’79 indagò sul conto di Saputo salvo poi concludere che nulla si poteva contestare all’immigrato originario di Montelepre, il paese del bandito Giuliano.
Se dunque nulla di penalmente rilevante è addebitabile a Saputo, perché, si chiedono i difensori dell’imprenditore, confezionare un simile articolo con richiamo in copertina accanto all’immagine del capomafia Lo Piccolo? L’Espresso s’è difeso facendo riferimento a un’indagine della Dia che portò all’arresto di sedici affiliati al clan di Vito Rizzuto, lui sì boss conclamato trapiantato in Canada, e poi a un’attività della Gdf di Milano nella quale, sempre a detta del periodico di Carlo De Benedetti, sarebbero emersi collegamenti tra questo Rizzuto e l’imprenditore Saputo interessato a rilevare un’attività commerciale nel settore del lusso, il tutto sullo sfondo di un tentativo di riciclaggio quantificato in 600 milioni di dollari. «Saputo non è indagato - scriveva il settimanale - ma l’operazione ha nuovamente acceso il faro sui suoi rapporti con la criminalità».
Il re del latte sostiene che L’espresso ha mentito anche quando racconta dei rapporti economici con il Padrino italoamericano. Rapporti che il settimanale fa risalire «a un’indagine del governo statunitense che 15 anni dopo dimostrerà che Bonanno è stato socio di Saputo». Tutto ciò, tuona l’interessato, «è completamente falso. Mai sono stato socio del boss». La vicenda, osserva Saputo, «ha origine nel 1964, e vede Giuseppe Saputo, padre del sottoscritto (e non io, dunque) soggetto passivo di una richiesta di acquisto di quote azionarie del caseificio canadese da parte di John Di Bella, amico e compaesano di Giuseppe Saputo». Poi le cose si chiarirono, Bonanno verrà tagliato fuori dalla società e i Saputos diventarono una holding da 10mila dipendenti. La versione dei cronisti dell’Espresso, alla luce del rinvio a giudizio, è la seguente: «Siamo convinti di avere scritto la verità e il rinvio a giudizio non è una condanna. Vuol dire solo che il giudice ha ritenuto utile il dibattimento nel quale dimostreremo che abbiamo ragione. Abbiamo fatto il nostro mestiere di cronisti raccontando quello che emergeva su Saputo negli atti dell’indagine della Procura di Roma. Turrisi (l’uomo di Vito Rizzuto a Roma, ndr) lo tirava in ballo al telefono e, all’epoca, i pm stavano verificando se quello che diceva era vero. Noi abbiamo solo raccontato quello che emergeva dai documenti dei pm aggiungendo altre notizie su Saputo che avevamo scovato in documenti statunitensi e canadesi. Abbiamo precisato sempre che non era indagato. Peraltro le azioni di Saputo sono crollate in borsa a distanza di settimane, quando un giornale canadese ha ripreso un nostro articolo per fare un’autonoma inchiesta dov’è stata sentita anche la finanza». L’appuntamento in aula è per il 27 aprile 2010. Carlo De Benedetti conta i giorni e incrocia le dita.
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