La legislatura è al capolinea. Può restarci settimane, mesi, o addirittura (il cielo non voglia) anni, ma è al capolinea. Prima di riprendere la corsa, prima di rifare il concorso per chi deve guidarla, sarà bene interrogarsi sul tragitto assegnato. Fin qui, da anni, si va avanti e indietro in un vicolo cieco. Le elezioni anticipate sono necessarie, ma non sufficienti. Non si può evitarle, ma non saranno risolutive. Di ciò deve rendersi conto il Presidente della Repubblica, che dovrebbe impegnarsi ad accorciare l’agonia, non ad allungarla. Come devono capirlo anche le forze politiche, perché un altro giro a vuoto sarebbe esiziale, sfiancante, capace di aprire la strada alla disaffezione elettorale o all’avventura.
Per curare un male occorre prima conoscerlo, diagnosticarlo con precisione, altrimenti si leniscono, inutilmente, solo i sintomi. Il primo fatto da cui partire è il seguente: il governo è finito in minoranza, ma sul niente. Tutta la storia di Giacomo Caliendo e della mozione di sfiducia, a sua volta originata dalla presunta P3, è fuffa, è il nulla, sono solo sintomi. Attenti, allora, a non confondere la tubercolosi con la bronchite. Il quadro clinico non è imperscrutabile, anzi è talmente chiaro che noi ne scriviamo dall’autunno scorso. Non eravamo matti a sostenere che sarebbe stato saggio immaginare le elezioni politiche assieme alle regionali (prospettiva cui il Quirinale si sarebbe opposto, sbagliando), perché già vedevamo quel che sarebbe successo. Non eravamo disfattisti, ma semplicemente realisti.
Guardavamo e guardiamo in faccia la realtà: a. la legislatura è cominciata con la più vasta maggioranza parlamentare (non elettorale, attenti a non confondere) della storia repubblicana; b. le elezioni intermedie hanno confermato quella maggioranza, al contrario di quel che è avvento nel resto delle democrazie occidentali; c. il nostro debito pubblico non è finito sotto gli attacchi speculativi, segno che la politica del governo non lasciava spazi a equivoci ed era considerata forte; d. la crisi ci ha colpiti, naturalmente, ma i suoi effetti sono stati ritardati e attutiti dagli ammortizzatori sociali. Non eravamo nel migliore dei mondi possibili, ma eravamo in condizioni di forza ed equilibrio. Eppure tutto era destinato a venire giù. Perché?
Perché la debolezza era ed è interna al sistema. Osserviamo come i fatti economici, strutturali e quelli politici si tengono: 1. la nostra debolezza non è la disoccupazione, ma il calo, che continua da molti anni, della produttività; 2. quel che allarma non è la recessione, che è stata dura, ma la lentezza della ripresa; 3. l’instabilità politica non deriva dall’indecisione o mobilità dell’elettorato, che, al contrario, è determinato e stabile, ma dallo sgusciare delle forze e componenti politiche; 4. il governo non è debole nella sua maggioranza parlamentare (ha cominciato con la più vasta, come appena ricordato), ma nella sua determinazione politica e nella sua consistenza istituzionale, tanto che, ancora una volta, come già accadde nel 2001, i mesi decisivi della legislatura, i primi, sono passati con il governo dell’esistente e senza l’impostazione del futuro.
Mettete assieme gli elementi del primo elenco con quelli del secondo e avrete la prima conclusione utile: il nostro è un Paese ancora forte e stabile, roso da arretratezze strutturali e depotenziato da un sistema politico che non ingrana la marcia del cambiamento, avendo serie difficoltà anche solo a controllare sé stesso. In queste condizioni possiamo votare anche ogni sei mesi, assegnare al vincitore maggioranze parlamentari sempre più ampie, comporle con soldatini sempre meno adeguati e, quindi, sempre più rissosamente acritici, ma il risultato non cambierà. Quindi le elezioni anticipate sono necessarie, ma non sufficienti.
Ne volete la controprova, come si faceva a scuola per controllare l’esattezza del risultato? Guardate l’opposizione: in tutte le democrazie al venir meno del governo gli oppositori chiedono che gli elettori gli diano il colpo di grazia, in modo da sostituire la vecchia maggioranza con una nuova, da noi, invece, sono pronti a tutto pur di non passare la palla agli italiani. In questa condotta, che di suo racconta la storia di un tragico fallimento politico, c’è del razionale, c’è del metodo, in questa follia, perché così ragionano: noi non vinceremmo, se vincessimo non saremmo capaci di governare, quindi, meglio giocare in eterno la stessa partita piuttosto che cambiare campionato, con il rischio di finire nella serie inferiore.
Il capolinea, pertanto, non è solo quello di questa legislatura, ma di tutta intera la seconda Repubblica. Basta, non ha altro da dare. L’ultima cosa utile che può fare consiste nel lasciare spazio alla terza Repubblica. Non tornare alla prima, che è impossibile, non tornare al proporzionalismo, che è inutile, ma spezzare le catene di una faziosità senza contenuti, nata dal colpo allo Stato con il quale siamo usciti, rovinosamente e come peggio non si poteva, dagli anni della guerra fredda. Silvio Berlusconi seppe deviare quel colpo, ora deve saper interrompere una gara elettorale che non porta alla governabilità. Ha i numeri per vincere ancora, li abbia per dare un senso alla vittoria, impostando non un governo eguale agli altri e come gli altri condannato, ma rendendo possibili le riforme costituzionali fin qui mancate, indispensabili per far nascere una nuova Repubblica. Non un passo indietro, come si dice in modo scontato e quasi offensivo, ma un serio e decisivo passo in avanti.
Si voti, al più presto, ma sapendo che occorre avviare una rifondazione istituzionale. Senza la quale non solo il voto sarà inutile, ma inutile verrà considerato tutto intero il mondo politico che calca la scena: i capi incapaci di parlare il linguaggio della realtà, le comparse sempre più debosciate, i cortigiani tutti, insopportabili come sempre, ma oramai giunti ad una miserabilità che sollecita i forconi.
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