Chi ha avuto la cortesia, la pazienza e l’opportunità di leggere quanto ho scritto dopo la crisi del PdL sa che non ho condiviso affatto la decisione di arrivare al redde rationem con Fini e i finiani.
Nei giorni che hanno seguito la nascita di un nuovo gruppo parlamentare non mi sono piaciute le esibizioni di quanti reclamavano, alla stregua di un’ordalia, le elezioni anticipate il più presto possibile, addirittura durante le feste natalizie.
Allo stesso modo ho trovato esagerata la campagna di stampa condotta contro il presidente della Camera, nei confronti del quale nutro sentimenti di stima e di amicizia, anche perché ero amico di suo padre. Sono pertanto compiaciuto per il prevalere di toni più sereni negli ultimi giorni anche se credo che, nella vicenda del PdL, si giochi una partita molto più complessa, condotta da tanti protagonisti e destinata a nuovi sviluppi fin dai prossimi mesi; una partita che mira ad una sorta di "soluzione finale" dell’esperienza di Silvio Berlusconi.
Tutto ciò premesso, non posso non rimanere allibito di fronte ad una precisa circostanza: a Gianfranco Fini sono stati permessi atti e comportamenti che nel caso di Silvio Berlusconi hanno costituito oggetto di polemiche velenose ed inquietanti.
In sostanza, dall’inizio della legislatura Fini ha ricevuto un "salvacondotto di regime" soltanto perché la sua azione politica entrava quotidianamente in contrasto con quella del Cavaliere. Non si è mai visto un Presidente della Camera gettarsi a gamba tesa nel dibattito politico fino al punto di fondare ed orientare un proprio gruppo parlamentare, avendo così la possibilità di condizionare la maggioranza e il Governo, sia dirigendo i lavori della Camera, sia attraverso il ruolo determinante dei deputati (e dei senatori) che a lui fanno riferimento. Certo, anche nel caso di Berlusconi ci sono delle anomalie (il potenziale conflitto di interessi), ma a lui non si perdona niente di ciò che ad altri si perdona con tanta pelosa generosità.
Nel corso dell’ultimo anno la vita privata del premier è stata saccheggiata da ogni punto di vista dai media. Sono state violate le amicizie, le abitazioni del Cavaliere. Si è promossa una campagna contro le "veline" premiate con un seggio parlamentare, salvo rendersi conto che le deputate elette a Strasburgo nelle liste del PdL erano brave, serie e preparate (oltrechè avvenenti) e capaci di conquistare decine di migliaia di preferenze. Nel Pd è bastato che una suffragetta del "io sono il nuovo che avanza" facesse un bel discorso per trasformarla in una Giovanna D’Arco in sedicesimo.
C’è stato poi lo "scandalo" di Noemi. Un quotidiano scoprì che Berlusconi partecipava ad una festa nel napoletano e subito andò alla ricerca del "gatta ci cova" (Veronica Lario, in verità, ci mise del suo). Per settimane si perseguì ogni possibile ipotesi, si rintracciarono fidanzatini pronti ad ammettere tutto e il suo contrario, si dedicarono al caso migliaia di righe, si sguinzagliarono giornalisti che avevano dei rapporti confidenziali con i servizi segreti, ma alla fine, non si arrivò a capo di nulla. Poi venne il momento delle escort che si facevano fotografare nei bagni di Palazzo Grazioli. E di nuovo pagine e pagine, interviste, memoriali, libri di confessioni. Emersero forse stili di via discutibili, ma niente di più. Anche questa campagna fu presto archiviata. Anzi il suo risvolto giudiziario rischiò di rivolgersi bruscamente contro la sinistra pugliese.
Cominciò allora una nuova strategia. Quella di colpire e banalizzare i maggiori successi del Governo a partire dalla ricostruzione in Abruzzo e dal suo uomo simbolo, Guido Bertolaso, di cui vennero intercettate e copiosamente diffuse alcune conversazioni telefoniche che gettavano un’ombra di dubbio sulla natura dei "massaggi" a cui il sottosegretario si sottoponeva. Sappiamo tutti che, grazie alle intercettazioni, rimase nella rete qualche pesce grosso, di cui Berlusconi chiese ed ottenne subito le dimissioni.
In ogni caso, è bene ricordare che ognuna di queste vicende, nonostante il clamore prodotto, è finita ben presto in un vicolo cieco. Eppure chi poteva parlare (e in altri più recenti casi ha parlato a piena copertura di una personalità sotto il tiro - un po’ sgangherato ma non privo di sostanza - di taluni giornali) si è guardato bene dal profferire una sola parola in difesa del presidente del Consiglio, fino a prova contraria anch’esso riconducibile all’elenco delle istituzioni.
Ma ciò di cui non riusciamo a capacitarci ci riporta alla querela di Silvio Berlusconi nei confronti dei quotidiani che lo avevano attaccato più a lungo, senza prove e con più veemenza. La Fnsi in quella circostanza proclamò una giornata di lotta in difesa della libertà d’informazione e insieme ad altre sigle di regime promosse a Piazza del Popolo a Roma una manifestazione in cui fu oratore un ex presidente della Consulta. L’accusa di intimidire la libera stampa arrivò persino al Parlamento europeo.
In questi giorni Gianfranco Fini ha ritenuto di querelare i giornali che continuavano ad insistere sulla vicenda monegasca. Era suo diritto. Ma nessuno si è sognato di invocare la libertà di stampa. Fini si è dato da solo delle spiegazioni in otto punti molti dei quali erano evidentemente sottoponibili a smentite. Ma non ha subito l’accanimento con cui la Repubblica ha insistito con le dieci domande a Silvio Berlusconi. In ogni caso, meglio così. Due torti non fanno mai una ragione.
E’ ora di finirla con la politica del buco della serratura e con l’uso delle intercettazioni ai fini dello "sputtanamento" della personalità degli avversari. Ma quando il Pd costruisce la sua politica delle alleanze con la rappresentazione di due circonferenze concentriche (quella più larga per abbattere Berlusconi, quella più stretta per governare) c’è da chiedersi in quale Paese viviamo. (l'Occidentale)
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