Negli Stati Uniti la Fiat riceve i ringraziamenti e gli incoraggiamenti del Presidente, Barak Obama, e la visita, in uno stabilimento, del vice Presidente, Joe Biden. In Italia tutti pretendono di darle lezioni di diritto, il Presidente della Repubblica l’ammonisce severamente e non manca nemmeno la predica della Conferenza Episcopale. Negli Usa ha appena messo piede, cercando di rilanciare nello sviluppo quello che, altrimenti, era un fallimento annunciato, mentre in Italia rischia di trovarselo in qualche trappola, il piede. La differenza è, prevalentemente, questa: gli americani ragionano avendo in mente le regole della competizione in un mercato globale, molti italiani, invece, hanno la testa inceppata sui classici della lotta di classe, discettando ancora di “operai” e “padronato”.
Colpisce, inoltre, quanto l’assenza di cultura del diritto sia capace d’invadere la vita civile. “Le sentenze si rispettano”, è stato autorevolmente detto. Per esprimere questo concetto Giorgio Napolitano ricorre anche ad una forma espressiva cui i costituenti non avevano immaginato: la risposta alle lettere dei cittadini, in questo caso dei tre interessati al giudizio. Subito plaudente la stampa che non ha il coraggio di descrivere l’evidenza, ovvero che il Presidente della Repubblica è, ancora una volta, uscito dal seminato. Immediatamente presente anche il monsignore di complemento che, per la verità, inguaia Napolitano, visto che manifesta la sua gioia per il fatto che dei tre operai si tuteli non solo il reddito (come stabilisce la legge ed è loro diritto), ma anche la funzione interna alla fabbrica, supponendo questa abbia a che vedere con la “persona” e con “l’ambiente” (accidenti, il sociologismo esonda anche nei seminari). E in tanto tripudio sfuggono due cosette: a. la sentenza definita non c’è, semmai è in corso un processo; b. nessuno, ma guarda un po’, si pone il problema dell’indirizzo politico fornito al giudice di secondo grado, la cui autonomia di giudizio si dovrà, eventualmente, solo al suo personale coraggio.
Il presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, ha dovuto far osservare che la Fiat ha già rispettato la sentenza di primo grado, eseguendo il reintegro. Ma non può essere un giudice, né un politico, né una carica istituzionale a dire chi deve fare cosa dentro una fabbrica. Se questa fosse la dottrina nazionale la conseguenza sarebbe una sola: chiudere le fabbriche italiane e riaprirle in Polonia, Serbia, o altrove.
Osservammo qui che, con il referendum a Pomigliano d’Arco, non si poteva scaricare sulle spalle di quegli operai l’onere di rispondere alle conseguenze della globalizzazione. E scrissi che il licenziamento dei tre operai di Melfi era troppo vicino a quel referendum per non essere la risposta di una direzione aziendale che intendeva riaffermare la propria sovranità sugli stabilimenti. Era tutto chiaro, fin da principio. Proprio per questo, però, è scioccamente ipocrita questa specie di giostra anti Fiat, animata da gente che è rimasta alla prima metà del secolo scorso e non ha capito un accidente di quel che accade e di quel che può accadere. Qui non si tratta di parteggiare per il “padrone”, né di schierarsi con il sindacato (cosa oltre tutto impossibile, visto che è spaccato e poco rappresentativo degli operai), si tratta di prendere atto che i termini della discussione sono diversi, riguardano l’insieme delle relazioni industriali, la natura e la forza di chi rappresenta i lavoratori, così come l’atteggiamento da tenersi nei confronti d’industriali che non intendiamo più mantenere a spese della collettività.Un tempo si diceva alla Fiat come comportarsi con il sindacato e dove impiantare gli stabilimenti, in cambio della perdita di competitività si regalavano soldi pubblici (buona parte dei quali finivano nei conti esteri della proprietà). Avendo smesso, più per bisogno che per virtù, di praticare quell’andazzo, si devono creare le condizioni affinché un’azienda prosperi in Italia. Oggi non ci sono. Una di queste è la certezza del diritto, che è l’esatto contrario dell’ingerenza politica e istituzionale nel fare la ola ad una sentenza di primo grado, ipotecando quella di secondo. Chi dice, prima che un procedimento sia concluso, che “le sentenze si rispettano” o dice una gran banalità o s’ingerisce nel procedimento, in modo niente affatto neutrale.
Tutto ciò è folcloristico, perché non sfiora neanche il centro del problema: la perdita di competitività che ci affligge da quindici anni.
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