Tra le tante anomalie della politica italiana di questi giorni ce n’è una più «anomala» delle altre. Di fronte a una maggioranza parlamentare spaccata, che non si sa neppure se esista ancora come tale, che cosa fa l’opposizione, che cosa chiede la sua stampa più autorevole? Tutto tranne la sola cosa a cui in qualunque sistema parlamentare si penserebbe subito, e cioè il ritorno alle urne. Elezioni anticipate? Per carità, si dice: inutili, pericolose, un’autentica sciagura per il Paese. Piuttosto, invece, al posto della vecchia, una nuova grande maggioranza «chi ci sta ci sta», un governo «tecnico» ma non proprio, comunque «larghe intese», le più larghe possibili, in cui alla fine potrebbero entrare tutti, da Bossi, a Fini, a Tremonti, a Casini, a Rutelli, a Bersani, a Vendola, in teoria anche Di Pietro e Beppe Grillo se volessero. Purché ovviamente ne stia fuori uno solo: Lui, l’Orco.
E’ nota la ragione di questa bizzarria: il principale partito d’opposizione, il Pd, non si sente pronto per una competizione elettorale, anzi la teme. Lo stesso vale più o meno per l’intero schieramento di centrosinistra (esclusa forse l’Italia dei Valori). Ma se questa è l’apparenza, dietro di essa si cela un dato ben più importante. Si cela il vero dato di fondo del quadro politico italiano nel momento in cui esso è costretto a prescindere da Berlusconi, in cui esso si pensa e si proietta oltre Berlusconi. Il dato di fondo è l’evanescenza, la virtuale dissoluzione di tutte le forze che compongono lo schieramento che sta tra Bossi e Di Pietro. Dopo Berlusconi, e senza di lui, in questo grande spazio non rimane più alcuna vera distinzione, alcuna appartenenza legata realmente a un passato, alcuna solida identità politica, alcun vero legame con referenti sociali. Oggi, in Italia, senza Berlusconi non ci sono più partiti, non c’è più nulla. C’è solo una grande palude parlamentare. Ed è perciò che a quel punto il solo governo a cui si riesca a pensare è, come accade oggi, quello dentro il quale ci siano tutti o quasi.
In questo modo la società italiana ritorna a un suo carattere originario dei tempi normali: la propensione a produrre un sistema politico-parlamentare in cui la tendenza a confluire, a convergere, la tendenza all’amalgama, se si vuole al trasformismo, prevale di gran lunga sulla tendenza alla divisione per parti nettamente contrapposte. Le cose sono andate in modo davvero diverso solo quando sul sistema si sono abbattute le conseguenze di grandiosi sconvolgimenti esterni, in particolare le due guerre mondiali. La prima delle quali ha voluto dire la dittatura fascista e dunque la nascita inevitabile nel nostro universo politico della contrapposizione fascismo/ antifascismo; la seconda l’introduzione obbligatoria nel sistema della contrapposizione est-ovest, nella figurazione comunismo/anticomunismo.
Ma vale la pena di notare come anche in queste due condizioni di antagonismo estremo le tendenze inclusivo-amalgamatrici siano sempre rimaste forti. Facendo del fascismo una dittatura largamente aperta all'accesso di forze e personalità d'origine diversa, e nel secondo caso creando con il «cattocomunismo » e il «consociativismo » due contrappesi importanti alla divisione radicale del sistema.
In Italia, insomma, i due totalitarismi del Novecento hanno subìto, non a caso, una particolarissima declinazione «nazionale» che ha fatto dell'uno un totalitarismo «imperfetto », e dell'altro un partito comunista «liberale». Così rimettendo a nuovo, in qualche modo, quel modello che potrebbe dirsi di «giolittismo inclusivo»—prodotto dall’incontro tra notabilato tradizionale e nuove identità cattolica e socialista — che è stato storicamente, ed è, la vera forma originale che ha preso la nostra autoctona modernità politica. È questo il modello che ogni volta tende a riproporsi. E che per l'appunto si stava riproponendo anche all’indomani di «Mani Pulite», nel 1993-94, cioè nel momento in cui venivano finalmente cancellate le conseguenze prodotte nel nostro sistema politico da fascismo e comunismo, e perciò si poteva tornare al consueto. Se solo, però, non ci fosse stato Berlusconi. Cioè, di nuovo, se non ci fosse stato qualcosa di radicalmente estraneo alla dimensione politica nostrana, così estraneo da essere addirittura proclamato sul campo come il simbolo vivente dell'antipolitica.
Solo grazie all’anomalia berlusconiana il sistema politico italiano fu costretto allora a organizzarsi in due schieramenti contrapposti, e così è rimasto per quindici anni. E' la presenza di Berlusconi che ha tracciato la linea dell’«o di qua o di là». E in tal modo ha neutralizzato il «centro». «Centro» che nella nostra tradizione politica può essere luogo di effettiva consistenza politica, di vera, autonoma identità, solo se si contrappone alla sinistra, e cioè inglobando e in un certo senso surrogando la destra. O altrimenti è destinato a divenire il semplice luogo «tecnico» dell'amalgama trasformistico, dove si incontrano le burocrazie dei partiti e le grandi oligarchie della società. E proprio questa, forse, è oggi l'alternativa che sta di fronte al Paese. (Corriere della Sera)
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