L’anniversario della strage di Bologna - il trentesimo - è ancora occasione di polemiche e scontri politici. Dopo tre decenni la verità non è stata accertata e molti come in questi giorni ritengono a causa del "segreto di Stato". Quasi un ritornello. In realtà il “segreto di Stato” non è mai stato posto e non ve n’è traccia negli atti dei processi. A chiarire l’equivoco sul “segreto” fu per primo, nel 2001, il ministro Franco Frattini. Alla Camera dei deputati era stata presentata una interrogazione parlamentare di tre deputati del gruppo dei Verdi, Mauro Bulgarelli, Paolo Cento e Marco Boato, con la quale si chiedeva “se il presidente del Consiglio e i ministri interpellati non reputino necessario mettere in atto, ognuno per la propria competenza, ogni iniziativa anche di carattere normativo, volta a promuovere e sostenere l’abrogazione del segreto di Stato nelle indagini sulle stragi e i delitti di terrorismo". Frattini, allora alla Funzione pubblica, rispose sciogliendo ogni dubbio: “Posso senz’altro dire che nel procedimento penale relativo alla strage di Bologna, in nessuna fase dell’indagine, è stato opposto il segreto di Stato; infatti, esiste già una norma processuale che stabilisce che non possono essere oggetto del segreto fatti, notizie e documenti concernenti reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale. Quindi, in realtà, spetta al giudice, nelle sue attribuzioni, definire la natura eversiva del reato per cui si procede secondo quanto stabilito dal codice di procedura. In sostanza, l’opposizione del segreto di Stato in base alle norme vigenti - mi riferisco in particolare all’articolo 204 del codice di procedura penale - è già esclusa in tutti i processi in materia di stragi, delitti di terrorismo e di eversione dell’ordine costituzionale, e quindi anche in quello relativo alla strage di Bologna”. Frattini aggiunse: “Se atti segreti sono stati rinvenuti, si tratta certamente di segretazioni dovute ad interventi della magistratura e non dei governi che dal 1980 in poi si sono succeduti”.
Sul segreto di Stato anche Cossiga (il 2 agosto del 1980 ricopriva l’incarico di presidente del Consiglio, il ministro dell’Interno era Virginio Rognoni e quello degli Esteri Emilio Colombo), ha ribadito più volte di non averlo mai posto, semmai, ha consigliato di indagare "politicamente" più a fondo sul “lodo Moro”. “Lo dico perché di terrorismo me ne intendo. La strage di Bologna - ha sostenuto più volte il senatore a vita - è un incidente accaduto agli amici della ‘resistenza palestinese’ che, autorizzata dal ‘lodo Moro’ a fare in Italia quel che voleva purché non contro il nostro Paese, si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo. Quanto agli innocenti condannati, in Italia i magistrati, salvo qualcuno, non sono mai stati eroi. E nella rossa Bologna la strage doveva essere fascista. In un primo tempo, gli imputati vennero assolti. Seguirono le manifestazioni politiche, e le sentenze politiche”. Fatto sta che i magistrati bolognesi ritennero responsabili due neofascisti, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, che si sono sempre proclamati innocenti, pur avendo ammesso le loro gravi responsabilità per altri attentati neofascisti. In realtà le indagini sulla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 dovrebbero ripartire da zero. Troppe le omissioni riscontrate, prima dalla commissione d’inchiesta sulle stragi, presieduta dal senatore diessino Giovanni Pellegrino, e poi dalla Mitrokhin guidata due legislature fa da Paolo Guzzanti di FI. A confermare che sul fronte delle inchieste giudiziarie ci sia qualcosa che non va è stato perfino il senatore a vita Giulio Andreotti, quando era componente della commissione Mitrokhin: “Mi domando se non si debba riflettere sull’opportunità di dare al prestigio della magistratura un colpo come questo”. Dalla lettura di migliaia di documenti relativi all’operato della procura di Bologna, infatti, si evinceva che agli atti della magistratura c’erano già sin troppi elementi che avrebbero dovuto determinare un indirizzo diverso dell’inchiesta giudiziaria che, invece, percorse soltanto la pista del neofascismo".
Basti pensare a una delle lettere inviate da Aldo Moro durante il suo sequestro a Erminio Pennacchini, presidente del Comitato parlamentare per il controllo sui servizi segreti; nel ricordargli come non fosse vero che lo Stato non aveva mai trattato con i terroristi, Moro si riferiva agli “accordi”, ancora oggi sottoposti al segreto di Stato, fra il governo italiano dell’epoca e i palestinesi. Accordo che da una parte garantiva all’Italia che non ci sarebbero stati attentati terroristici da parte di mediorientali; dall’altra assicurava i palestinesi che avrebbero potuto godere nel nostro Paese di una certa libertà di spostamento. Una ipotesi accreditata anche da Rosario Priore nel libro scritto recentemente con il giornalista Giovanni Fasanella. Tutto, comunque, si trova già negli archivi del Parlamento, perché era già stato ricostruito da due consulenti della commissione Mitrokhin, il magistrato Lorenzo Matassa e il giornalista Giampaolo Pellizzaro, che in 180 pagine hanno monitorato “la rete Separat e il contesto dell’attentato del 2 agosto del 1980”. La direttiva del governo italiano era di “non trattenere” terroristi palestinesi anche in presenza di gravi reati. Non sono soltanto le analisi sull'attività di Separat a giustificare una nuova inchiesta giudiziaria sull’attentato alla stazione, ma la relazione di Guzzanti si soffermava anche sulla risposta data ad alcune interrogazioni parlamentari dall’ex sottosegretario alla Giustizia Giuseppe Valentino di An. Al ministro della Giustizia era stato chiesto perché il terrorista Tomas Kram, braccio destro di Carlos lo Sciacallo, non fosse stato indagato per ben due volte dalla procura della Repubblica di Bologna. La magistratura bolognese, a tal proposito, ha sempre sostenuto che sul terrorista tedesco, presente a Bologna nei giorni e nelle ore immediatamente precedenti la strage alla stazione, la Digos - ministro dell’Interno era Virginio Rognoni, molto vicino a Romano Prodi - non fornì elementi tali da insospettire. In realtà il sottosegretario alla Giustizia sconfessò la procura, accusandola di aver iscritto Kram a “modello 45”, con la dizione “indagini sull’eversione di destra e sui reati di strage commessi in Bologna e nel Distretto nel 1980”; e non visto le “già conosciute generalità nel registro cosiddetto modello 21, ossia dei soggetti sottoposti a indagine per il reato di strage. L’iscrizione era resa ancor più necessaria a causa dell’esistenza di provvedimenti custodiali internazionali, emessi da autorità giudiziaria di altro stato, da eseguirsi in Italia e che, nei predetti atti giudiziari, veniva sottolineata l’estrema pericolosità del Kram, qualificato, in particolare, esperto di armi ed esplosivi”. “La mancata iscrizione costituisce - sosteneva Valentino - una grave violazione delle norme. Il fascicolo iscritto a modello 45, sulla base della pronuncia della suprema Corte di Cassazione a sezioni riunite resa il 15 gennaio 2001 con il n. 34, doveva essere sottoposto al vaglio del giudice per le indagini preliminari che, solo, avrebbe potuto decidere la fondatezza della mancata iscrizione a modello 21 ed, eventualmente, rigettare l’archiviazione amministrativa, dare comunicazione della procedura al procuratore generale e delegare al pubblico ministero temi di nuova indagine da svolgere”.
Chi si occupò di Kram e delle indagini italiane sul tedesco furono anche i magistrati francesi. Il giudice istruttore Jean-Louis Bruguière lo aveva inserito tra gli organizzatori di un gruppo terrorista filopalestinese che faceva capo a Carlos “lo sciacallo”. Nell’inchiesta parigina fu inserita fra i tanti documenti anche una lettera firmata dall’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, datata 8 marzo 2001, destinata alla magistratura tedesca. Scriveva De Gennaro: “Risulta (Kram, ndr) essere arrivato a Bologna l’1 agosto 1980, aver preso alloggio presso l’Albergo Centrale, stanza 21, ed essere ripartito il 2 agosto”. De Gennaro dispose pure che la copia della lettera fosse trasmessa anche alla Procura di Bologna, per verificare eventuali collegamenti con la strage. Nella risposta ai tedeschi, De Gennaro inserì anche le segnalazioni, pervenute al Viminale proprio dalla Germania tra il 1979 e il 1980, perché gli italiani controllassero da vicino Thomas Kram, definito pure portaordini del terrorismo filopalestinese. De Gennaro li informò, inoltre, che Kram era stato individuato al momento del suo ingresso, in treno, in Italia il 31 luglio 1980: fu pedinato, fermato e perquisito. Un dettaglio singolare di un “compagno”, infatti, aveva parlato Carlos in una intervista dal carcere francese, dove è detenuto dal ‘94 con un ergastolo sulle spalle: “Un nostro compagno si accorse di essere pedinato, uscì dalla stazione di Bologna di corsa, e pochi istanti dopo ci fu l’esplosione”. Insomma Carlos e De Gennaro hanno raccontato la stessa cosa: quel giorno, a Bologna, alla stazione, c’era un “compagno”. “La strage di Bologna opera degli americani”. “Lo sciacallo” recentemente nel corso di una intervista ha parlato anche della strage di Bologna, ma non furono né i fascisti né i comunisti. “È opera dei servizi yankee, dei sionisti e delle strutture della Gladio”, ha detto Carlos. L’ipotesi dell’ex terrorista a 28 anni di distanza, è che siano stati agenti occidentali a far saltare, con un piccolo ordigno, un più rilevante carico di esplosivo trasportato da palestinesi o uomini legati all’Flp e destinato alla sua rete terroristica. L’intento sarebbe stato quello di far ricadere la responsabilità della strage sui palestinesi.
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