Il cumulo di corbellerie che si leggono, circa la libertà di stampa, le inchieste giornalistiche e la vita politica, è ridicolo e pericoloso. C’è, in giro, tanta cattiveria, alimentata da dosi esagerate di falsità e vagonate d’ignoranza. Provo a immaginare, con sconsiderato ottimismo, che sia possibile e utile ragionare, sicché segnalo il dato di fondo: quello cui assistiamo è il trionfo dello scalfarismo e l’inabissarsi della politica. Due facce della stessa cattiva moneta.
Le inchieste giornalistiche non c’entrano niente e, in un Paese normale, l’unico scandalo consisterebbe nel fatto che dei giornalisti siano intercettati nel mentre fanno il loro mestiere. Anzi, scusate, non dei “giornalisti”, ma dei cittadini. Le intercettazioni dovrebbero essere strumenti d’indagine, motivate da una precisa supposizione e a quella legate, mentre qui s’intercetta tutto e tutti, pronti a ricattare. Le regole del gioco, quelle vere, sono chiarissime: un giornalista raccoglie notizie e scrive articoli, se le persone citate si sentono diffamate querelano, se le notizie diffuse turbano i mercati o mettono a rischio la sicurezza di taluno se ne risponde al giudice. Nelle regole sovvertite, invece, il giudice ti segue per prevenire il supposto reato. Come nei film fanta-horror, o nelle dittature.
Questa storia attorno alla presunta violenza subita da Emma Marcegaglia è grottesca. Ma è preoccupante la facilità con cui si diffondono le panzane: il presidente di Confindustria ha attaccato il governo, quindi i servi del padrone organizzano il dossier. Fermatevi a pensarci, perché questa tesi è la quintessenza del falso. Marcegaglia ha attaccato il governo? A me è sfuggito. Ha detto e ripetuto cose giuste, ma, con rispetto parlando, ovvie: la ripresa è lenta, si deve fare di più, le riforme sono ferme, il governo è in ritardo sulle liberalizzazioni. Questi sono attacchi? Allora vuol dire che lo attacco assai di più io (che non conto una cippa, ma scrivo su un quotidiano considerato al bovino servizio del governo). Ammesso che questi siano attacchi, c’è qualcuno disposto a credere che verrebbero meno se un quotidiano schierato pubblicasse inchieste pepate? A lume di naso direi il contrario: lo scontro salirebbe di tono. Come, difatti, è puntualmente successo.
Allora, per chiudere sul punto, proviamo a dire la verità: nei confronti dei potentati economici i giornali italiani sono a dir poco proni, con storie che tutti conoscono e nessuno pubblica. L’inchiesta sul malaffare Telecom, ad esempio, ce la siamo suonata e cantata da soli, con gli altri sopraggiunti al seguito delle inchieste giudiziarie. Bravi, il solito coraggio dei coristi. Il dossieraggio e i ricatti possono esistere solo perché i giornali tacciono e nascondono. La violenza privata consiste nel non pubblicare, non nel raccontare.
Affrontiamo ora la questione rilevante: l’insistenza di certe inchieste ha finalità politiche? Sì, certamente. Possono non piacere, ma sono lecite. Personalmente ne avevo le scatole strapiene della casa monegasca. Tutto era così chiaro, le bugie così pinocchiesche, che l’insistenza mi disturbava. Era lecita, piaceva ai lettori, ma rischiava di divenire maniacale. Approfittai della libertà che Libero mi garantisce (grazie, sempre) e scrissi che il problema rilevante era politico e istituzionale. Politico perché il presidente della Camera è espressione della maggioranza, istituzionale perché è una gran minchioneria che non si possa mandarlo via (che vergogna le cattedre, i costituzionalisti a cottimo, i saccenti senza attributi, tutti zittini). Sapete cosa successe? Nulla. Non gliene fregava niente a nessuno. Mentre non c’era politico che non volesse dire la sua su cucine e off shore. E arriviamo al punto: i giornali sono divenuti partiti e i partiti non sono più niente.
Il padre di quest’andazzo è Eugenio Scalfari. Avrebbe voluto far politica, ma fin da piccolo intuì che per parlare con le divinità occorreva essere un singolare. Fece il parlamentare (socialista), poi fondò un giornale, per sostenere la linea di un partito (quello socialista, segretario Francesco De Martino). Ma le vendite andavano male, quindi cambiò rotta e puntò sul mondo comunista. Lì c’erano lettori, ma a lui facevano schifetto, visto che era monarchico e liberista, però intelligente e capì che i rossi erano senza linea politica spendibile. Ve la do io. Nacque il giornale partito. Naturalmente sempre pronto a due cose: a. favorire l’ascesa e la ricchezza personale del suo capo, il fondatore; b. favorire gli interessi del nuovo editore, che rese ricco il dire(ttore)star. Questo schema è risultato vincente, ma in questo Paese di leccapiedi con prosopopea s’è affermato il costume secondo il quale le inchieste politicizzate e le campagne ossessive fatte dal fondatore e dai suoi successori sono perle di liberà, anche quando smentite dai fatti, anche quando rovinano innocenti, mentre quelle pubblicate da altri, che occupano altri mercati, sono escrementi olezzanti. Trattasi, in fondo, della vecchia linea reazionaria: la libertà è buona finché è mia, che sono superiore, se utilizzata da altri è pericolosa.
Tutto questo, però, non potrebbe succedere se la politica fosse ancora in grado di partorire un’idea, una proposta, una visione del futuro. Invece procede per fecondazioni artificiali e un folto pattuglione di anonimi politicastri va a rimorchio dei direstar, sparandole sempre più grosse, nella speranza d’essere ripresi.
In una democrazia i giornali che strillano ci stanno benissimo, anche perché non è obbligatorio comprarli. I guai cominciano quando il collasso della politica consegna la vita pubblica alle leggi del mercato. Le inchieste, puntute e fastidiose, da noi difettano, non abbondano. Ma è nella classe dirigente che risiede il vero e pericoloso vuoto, la debolezza politica, culturale e morale che ci precipita nella rissa rabbiosa.
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