Il bazooka segnala un problema interno ai palazzi della giustizia, in Calabria. Non è un attentato, non un atto di guerra, come non lo fu il bombolone innocuo fatto esplodere lo scorso 3 gennaio. E’ il pezzo di un dialogo. Qualcuno da dentro le cosche, sta parlando con qualcun altro, dentro la procura o nei dintorni. Questi criminali non stanno cercando d’intimidire il capo della procura, Giuseppe Pignatone, e sanno benissimo che i loro gesti pubblici, divenuti numerosi, non fanno che aumentare le misure di sicurezza attorno ai bersagli e ingrossare i fiumi di parole inutili, circa la necessità che la giustizia sia sostenuta e vada avanti. Sono degli assassini, gente meritevole di galera a vita, ma non dei cretini. Agiscono perché c’è chi li sta ad ascoltare, interlocutori che devono essere tenuti sotto pressione, spinti ad agire, se necessario liberando loro il campo, quindi mettendo nel conto che, prima o dopo, un bazooka debba sparare. Non si uccide un magistrato se non perché c’è un collega da preferire.
Il ragionamento che segue è sconsigliato a chi soffra di vertigini, a chi preferisca vivere, magari anche andando ai funerali, senza guardare troppo sotto al velo dell’ipocrisia. Chi prende parte alla vita delle cosche è carne da cannone. In cambio di privilegi e ricchezza mette a rischio la propria vita: sia per mano delle forze dell’ordine, che delle armi d’altre cosche, che dei giustizieri della propria. Andare in galera non è piacevole, ma pur sempre un’ipotesi da considerare. E neanche la peggiore. Dietro le sbarre si ricreano le gerarchie, talché questi invertebrati si accontentano di far da capi ad altra malacarne, nel mentre i colleghi finanziano la famiglia e procurano un violentatore autorizzato e patentato per l’onore delle loro figlie. Quanti non crepano (e non è mai gran perdita) o non soggiornano a vita in cella fanno carriera, accumulando reati, potere e ricchezza. Uno “sbirro” non muore perché mette gli occhi su questa razza, il suo lavoro rientra nelle regole del gioco. Lo sbirro è a rischio se ha approfittato di qualche compiacenza e poi non sta alle regole della complicità. Se, indagando, pretende di uscire dalla cerchia dei macellai per arrivare a quella dei riciclatori. Se, soprattutto, c’è la fondata speranza che al suo posto arrivi un amico dei disonorati.
C’è una storia che Pignatone conosce bene, perché ha vissuto dall’interno i conflitti che dilaniarono la procura di Palermo. Fin quando Giovanni Falcone usava la competenza e l’intelligenza per colpire le cosche mafiose doveva vedersela solo con la durezza della cassazione, dove sedeva Corrado Carnevale. Quella Corte osservava la regolarità dei procedimenti, severamente colpendo il discostarsi dalla forma. Se non volete questo vaglio, diceva Carnevale, non avete che da chiudere la cassazione. Non era un problema facile, ma era fisiologico. Quando Falcone cominciò ad occuparsi del riciclaggio e degli affari mafiosi mise il piede su un terreno minato, che già aveva fatto saltare per aria il maestro: Rocco Chinnici. A quel punto prese corpo l’opposizione interna alla magistratura, di cui furono massimi esponenti i magistrati e i politici della sinistra. Non da soli, assolutamente, ma, di sicuro, Luciano Violante ed Elena Paciotti ci misero la faccia, perdendola. A perdere la partita, però, fu Falcone, costretto ad andare via. Eppure aveva già avviato l’inchiesta più grossa, la “mafia-appalti”, che portava lontano dalla Sicilia, fin nei salotti della finanza e della borsa.
Dopo la strage di Capaci un altro magistrato, con il quale Falcone aveva lungamente lavorato, prese in mano quelle carte: Paolo Borsellino. Lo fece quasi di nascosto, perché non poteva fidarsi dei colleghi. Anche Borsellino fu eliminato, e con lui l’inchiesta, di cui la procura dispose l’archiviazione e lo smembramento. La pietra tombale su quel lavoro investigativo fu posta quando i resti dilaniati di Borsellino non erano ancora stati sepolti. Ed è questo il punto: Falcone e Borsellino non sarebbero morti se chi li ha uccisi non avesse potuto contare su un tale risultato, se altri magistrati non avessero agito in senso opposto a quello che essi credevano giusto.
Non basta: i carabinieri che lavorarono con Falcone e Borsellino finirono sotto processo, incriminati di mafia da altri magistrati. Le cose che il generale Mario Mori ha raccontato a Lino Jannuzzi sarebbero, in un Paese normale, già al centro di una commissione parlamentare d’inchiesta, di un’indagine fulminea, o, se false, elementi per l’immediata condanna penale di chi ha pronunciato quelle parole. Invece, niente. Come se possa essere normale che i complici dei mafiosi vestano la toga.
A Reggio Calabria sta andando in scena qualche cosa di simile. Pignatone ha già pubblicamente detto che ritiene ci sia qualcuno, da dentro i palazzi dello Stato, che passa le informazioni ai criminali (lo ha ricordato ieri Andrea Scaglia). E noi, addestrati all’assurdo di quelle storie siciliane, con l’evidenza degli uomini per bene massacrati per lasciare spazio ai loro colleghi per male, con l’assoluta chiarezza di una trama che grida vendetta al cielo, sappiamo che il pericolo vero non sono gli avvertimenti, i petardoni o i bazooka abbandonati, ma l’ipotesi che senza certe inchieste i denari della ‘ndrangheta possano assicurarsi un “normale” fluire verso impieghi onesti, verso mani che stringono altre mani, come se il profumo del sapone possa celare la sozzura incarnata.
Il governo, allora, mandi pure l’esercito, perché il problema di tanta parte del sud è la riaffermazione della sovranità statale. Ma la cellula tumorale è dentro i palazzi di giustizia, la metastasi deve essere estirpata in quegli uffici. La proteina che la nutre è intrinseca al credere che siano altri, i problemi della giustizia italiana.
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