Un tempo la televisione era il futuro che entrava nelle case degli italiani. Poi è divenuta una finestra sul presente. Ora è un viaggio nel passato. Le polemiche sulla Rai, come sul duopolio, sono retrodatate, ignare della realtà presente. Anche la diffida dell’Autorità delle comunicazioni, impancata a giudice dei contenuti editoriali dei telegiornali, è un residuato del passato. Considerato che i network statunitensi hanno da tempo scoperto che è lo schierarsi dei commentatori a portare audience, visto che all’imparzialità e all’obiettività credono solo gli allocchi.
I guasti del format commerciale, della televisione generalista e sorretta dalla pubblicità, erano già stati visti da Woody Allen e Federico Fellini. Il nostro mondo televisivo è andato oltre. Un tempo i “mostri” popolari erano descritti da registi ironici, ora vanno in onda al naturale, senza orrore per se stessi. Un tempo i bambini cantavano da bambini, con canzoni da bambini, presentati dal mago Zurlì, ora s’esibiscono scimmiottando gli adulti, con mamme commosse nel vedere la figlioletta che ha l’aria lasciva nel mentre suggerisce all’immaginario partner di prenderla per ogni dove. Un tempo la tv indagava la realtà, ora è la realtà ad esibirsi. Compreso il grottesco delirio d’onnipotenza di conduttori strapagati per far finta d’essere “contro”, che se ti permetti di dire che sono trasformisti, voltagabbana, imbroglioni e profittatori ti senti dire che sei nemico del pluralismo. Se, invece, parla un direttore di telegiornale, che, per mestiere, dovrebbe produrre chiavi di lettura e opinioni, allora interviene il garante e gli dice di smetterla. Almeno in questo, la televisione fa veramente ridere.
Che la Rai vada privatizzata lo dico da troppi anni. Che non sia più un servizio pubblico, se ne sono accorti tutti. E’ un servizio a chi ci si arricchisce, compresi parenti, amanti e sodali. Il pluralismo c’era, una volta, ma si chiamava lottizzazione. Poi la si descrisse come una porcheria, invece funzionava. Ricordate un giornalista come Andrea Barbato: di sinistra, garbato, efficace, piacevole. Lo pagavano il giusto e diceva quel che riteneva giusto. Ecco, quella era la Rai lottizzata. Venderla, dunque, sarebbe stato l’unico serio rimedio alla spartizione, restituendo libertà al mercato e soldi del canone agli italiani. Si opponevano tutti: la sinistra, perché aveva trovato il suo strumento di comunicazione, il centro democristiano, perché aveva creato quel mondo (Ettore Bernabei e Biagio Agnes ne erano i sacerdoti), gli altri perché inzuppavano il pane. Si opponevano anche i concorrenti privati, che apprezzavano il fatto di avere un competitore finanziato con le tasse.
Poi fu il governo di centro destra a varare una legge che prevedeva la privatizzazione. Ma solo a pezzi e nella misura massima dell’1% per ciascun investitore. Una barzelletta. Non se ne fece nulla, ovviamente. Sicché siamo alla commedia di sempre: vertici aziendali nominati dalla politica, ma sempre meno autorevoli e capaci, impossibilitati a governare un’azienda in cui ciascuno fa quello che gli pare, compreso l’insultarli in diretta. Tutto questo, però, è solo una radiazione fossile. Guardate come si comportano i più giovani: il tempo che passano davanti a uno schermo è solo in piccola parte dedicato alla televisione. Al piccolo schermo restano ancorate le povertà, mentre chi ha a disposizione strumenti diversi già gioca con partner che si trovano dall’altra parte del mondo, già costruisce non solo palinsesti, ma contenuti propri, che poi offre in rete. La televisione generalista campa d’analfabetismo digitale, di arretratezza. Sicché, in queste condizioni, anche parlare di privatizzazione rischia d’essere un residuato del passato.
Intendiamoci, la comunicazione digitale porta con sé non pochi problemi, a cominciare dalla necessità di non potere considerare il mondo come un sommarsi di tanti frammenti, con il rischio di perdere un filo conduttore comune. Ma è, comunque, un altro mondo. Migliore.
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