venerdì 22 ottobre 2010

I niet della Fiom e l'Italia dei contratti firmati. Giuliano Cazzola

È la regola di un giornalismo un po’ cialtrone: per “fare notizia” bisogna raccontare che a mordere il cane è stato un uomo. Così, da mesi gli italiani sono ossessionati dalle prodezze della Fiom e del suo leader, Maurizio Landini. Si direbbe quasi che la federazione dei metalmeccanici della Cgil sia ormai il solo sindacato esistente in Italia, al punto da scalzare, nell’attenzione dei media e nell’iniziativa politica, persino la confederazione di Corso d’Italia. Durante l’ultima manifestazione a San Giovanni (non deve stupire la presenza di qualche decina di migliaia di persone, dal momento che la Fiom è divenuta il punto di riferimento della sinistra radicale e “reazionaria” in Italia) il segretario Guglielmo Epifani, sul palco in mezzo a Giorgio Cremaschi e allo stesso Landini, si è fatto addirittura strappare dalla piazza la promessa di uno sciopero generale.
Quello dello sciopero generale è un impegno temerario e opportunista lasciato in eredità da Epifani a Susanna Camusso.
Agli italiani raccontano che è in atto un disegno perverso - di cui sono protagonisti il governo, la Cisl e la Uil, Sergio Marchionne - per cancellare il contratto nazionale di lavoro e violare i diritti fondamentali dei lavoratori. Quanti non condividono questa analisi sono servi dei padroni, pronti a discriminare la Fiom, che da sola si erge a paladina della purezza della linea. Fior di intellettuali, già “cattivi maestri”, si precipitano a sottoscrivere appelli e a marciare con le valorose “tute blu”, a prova del fatto che la madre dei “pifferai della rivoluzione” è sempre incinta.
Ma è davvero questa la realtà sindacale del nostro Paese? Nessuno racconta agli italiani che, dopo l’accordo quadro del 22 gennaio 2009 (sottoscritto, come in tutte le altre occasioni, da dozzine di parti sociali, ma non dalla Cgil) sono stati stipulati - praticamente senza scioperi - ben 29 contratti nazionali che hanno coperto una platea di 4 milioni di lavoratori, soltanto nei settori confindustriali. In tutto i contratti rinnovati sono stati una sessantina. Questi accordi sono stati sottoscritti da tutti i sindacati, incluse le federazioni della Cgil. Eppure, a monte, stava un sistema di regole non condiviso. Ciò significa che i gruppi dirigenti delle categorie sindacali e quelli delle controparti datoriali si sono ingegnati a trovare delle soluzioni diplomatiche in grado di fare salve le rispettive posizioni di principio e di accontentare i lavoratori. Esiste forse un altro paese in Europa che - in un periodo di crisi economica violenta, mentre veniva autorizzato poco meno di un miliardo di ore di cassa integrazione - possa vantare un clima di “collaborazione di classe” come quello che si è realizzato da noi? Se nel 2010 il Pil tedesco crescerà in misura pari a tre volte il nostro, lo si deve anche a una disponibilità della DGB a far lavorare di più a parità di retribuzione. E il tormentone di Pomigliano? Quante sono in Italia - dove sulla vicenda dello stabilimento campano si è detto di tutto (persino del ritorno allo schiavismo, della violazione della Costituzione e altre tragiche amenità) e per lunghi mesi - le persone informate che dall’applicazione dell’accordo tanto vituperato perverranno ai lavoratori incrementi retributivi di circa 250 euro mensili, tassati con una aliquota del 10% (perché questo è il trattamento fiscale riservato al salario collegato a una migliore produttività)?
Proprio così: esiste un’Italia migliore di quella minoritaria degli “sfasciacarrozze”. Un’Italia, fatta di padroni e di operai, che ha ripreso a lavorare; un tessuto produttivo composto di tante piccole imprese capaci di esportare gran parte dei loro prodotti e di delocalizzare pezzi di lavorazione nei paesi in via di sviluppo. Imprese che hanno un solo cruccio: non intendono crescere al punto da mettersi in casa il sindacato, lo Statuto dei lavoratori e quant’altro. Se più del 90% della nostra struttura produttiva è costituita da micro e piccole imprese non è colpa di un’epidemia di nanismo. Sono gli handicap connessi al regime burocratico-sindacale che inducono le aziende a mantenere organici al di sotto dei limiti numerici oltre i quali scattano particolari vincoli legislativi (a partire dai 16 dipendenti di cui all’articolo 18 dello Statuto). Eppure, quando un sindacalista coraggioso, come Raffaele Bonanni, grida dal palco «Uno, cento, mille Pomigliano» la polizia è costretta a mandare i blindati in via Po, davanti alla sede della Cisl e tante “anime belle” rifanno la solita tiritera dei diritti violati.
Strano paese il nostro! La Fiat investe e consolida la sua presenza in Italia. Chiede solo, negoziando con i sindacati, che si lavori, non come in Polonia, ma come negli Usa. E viene subissata di improperi. Mentre tutto questo accade, prima Telecom, poi Unicredit compiono - tutti d’accordo - alcune operazioni di ristrutturazione, da cui deriveranno, nel giro di qualche anno, 10mila esuberi (ovviamente coperti da forme di assistenza e dal ricorso a prepensionamenti). Vi risulta che ne abbiano parlato a Ballarò? (il Riformista)

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