Nel suo comizio milanese Silvio Berlusconi ha indicato l’obiettivo, velleitario dati i rapporti di forza attuali, di una commissione di inchiesta parlamentare sull’uso politico della giustizia da parte di un gruppo di pubblici ministeri. Anche se lo scopo non sarà raggiunto, proprio perché i legami tra alcuni settori della magistratura e alcune aree politiche sono effettivi e operanti, la denuncia ha un significato politico piuttosto rilevante.
Le manovre che tendono a sostituire l'attuale esecutivo con una maggioranza arcobaleno, con la conseguenza della decadenza dello scudo giudiziario e la programmata condanna (comprensiva di interdizione dalle cariche pubbliche) del leader del partito di maggioranza relativa, ora che sono state di fatto rese pubbliche, saranno più difficili da realizzare. In ogni caso sembra evidente che Berlusconi ha deciso che, se è destinato a cadere, cadrà combattendo a viso aperto il virus antidemocratico del giustizialismo. Lo fa forse nel momento più difficile, quando si sta saldando contro di lui una tenaglia politica, mediatica e giudiziaria davvero imponente.
Sfidare l’impunità dei pubblici ministeri, che ha resistito indenne a tutte le bufere, può apparire rodomontesco, ma ha il pregio di porre al centro del confronto politico, e forse elettorale, una questione irrisolta attorno alla quale si è avvoltolata impotente la vicenda politica dell’ultimo ventennio. Una democrazia che per pavidità o complicità non sa liberarsi di una tutela impropria è destinata a restare una democrazia dimezzata, non solo per Berlusconi ma anche per i suoi avversari.
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