Nella lunga, estenuante partita fra la giustizia e la politica, il governo ha segnato un punto. Le regole del gioco, però, non prevedono un tempo limite, la fine della partita non è affidata al cronometro (come nel calcio o nel basket), ma la si agguanterà solo quando uno dei due avrà vinto (come nel tennis). Da anni siamo fermi. Prima “vantaggio”, poi “parità”. Anziché avvincente, la disputa, s’è fatta noiosa e lo stile, oramai, lascia a desiderare. In ogni caso, puntando su riforme costituzionali il governo allunga il passo, per diverse ragioni.
Intanto perché la giustizia si può rimetterla a posto anche con riforme ordinarie, se non addirittura con provvedimenti organizzativi, ma sono vicoli ostruiti dallo scontro fra poteri, strade sommerse dallo straripamento delle toghe. Basta che un soggetto o una maggioranza s’avviino in quella direzione che subito echeggia la schioppettata penale. E quando qualche riforma si riesce a farla, provvede poi la Corte Costituzionale a bruciarla, con sentenze assai dubbie, quale quella sull’inappellabilità delle assoluzioni. Quindi: volete che per riformare la giustizia si riformi la Costituzione, così risolvendo il conflitto fra pezzi dello Stato? Eccovi serviti.
Ulteriore vantaggio deriva dal fatto che le riforme proposte non solo sono di buon senso, non solo sono considerate normali nei Paesi civili, ma erano in gran parte condivise da uomini della sinistra, quando le modifiche costituzionali si doveva farle utilizzando la bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Chi cambia idea solo per ragioni di schieramento non ci fa mai una bella figura.
C’è dell’altro: molti già gridano che la Costituzione non deve essere toccata, quasi sia un testo sacro. Peccato che è già stata riformata tante volte, che i Costituenti la scrissero in modo che fosse modificabile, che quanti gridano sono gli stessi che la cambiarono con maggioranza risicatissime e un attimo prima che la legislatura finisse (2001, riforma del titolo quinto), e che, come se non bastasse, se ne stanno buoni e zitti quando la Costituzione la si calpesta anziché cambiarla, come da molti anni avviene ogni volta che si tratta di eleggere il presidente della Corte Costituzionale.
Il vantaggio, per il governo, consiste quindi nel far fare alla sinistra la parte dei conservatori, asserviti alle toghe politicizzate, dei voltagabbana e degli irragionevoli. Ma la partita continua. Perché quelle proposte divengano riforme occorre molta determinazione, una marcia forzata (la fine della legislatura s’avvicina) e il mantenere una condotta simile a quella adottata dalla sinistra (che la ricordata riforma della Costituzione la fece a “colpi di maggioranza”). A questo s’aggiunga che è pur lecito cambiare la Costituzione, ma sarebbe saggio limitare gli ambiti. Se si mette al fuoco la carne giustizia, quella sull’impresa e sul lavoro e nel frattempo si fa il federalismo, allora occorre un braciere chiamato assemblea costituente.
Il tutto senza dimenticare che il capitolo giustizia, dopo i fuochi costituzionali, prevede i roghi giudiziari. Vero è che il presidente del Consiglio veste l’amianto da anni, ma è difficile credere che il tragitto non preveda danni. Se la maggioranza procederà a testa bassa, verso riforme che riguardano tutti, e se l’opposizione s’incanterà nella cantilena imbambolata dell’“ad personam”, forse potrà vedersi la fine della partita. In caso contrario, resteremo inchiodati al tie-break, giocato con palle oramai sgonfie.
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