Bisogna evitare la confusione tra diritto, religione ed etica.
Il diritto si occupa dei rapporti fra gli uomini. Ciò implica l’alterità (il diritto non dà norme per come un uomo deve comportarsi con sé stesso) e l’esteriorità (cioè il disinteresse per il pensiero e le convinzioni del singolo). All’ordinamento giuridico basta che il cittadino non danneggi gli altri, osservi le leggi e paghi le tasse.
Viceversa la religione cristiana si interessa più delle convinzioni del credente che dei suoi comportamenti. Come disse Lutero, «Pecca fortiter sed fortius fide et gaude in Christo», pecca fortemente ma più fortemente abbi fede e godi in Cristo. La dottrina bada più all’intimo che all’esterno, infatti tiene più conto delle intenzioni che dei risultati e condanna il filisteo che compie i riti richiesti senza che ad essi corrisponda il sentimento del vero devoto. Non chiede di violare le leggi – date a Cesare quel che è di Cesare – ma apprezza più chi ha l’intenzione di agir bene che chi rispetta la norma, perfino religiosa: «Il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato», Marco 2, 27.
La morale in sé è laica: condivide tuttavia con la religione – che spesso ne sacralizza i principi – il fatto di indirizzarsi all’intimo, a partire dal quale impone regole comportamentali sia per la loro utilità sociale, sia perché sentite come imperative per loro natura (Kant). In Italia la confusione fra morale cristiana e morale tout court è pressoché totale.
Lo Stato dovrebbe occuparsi dei cittadini come un arbitro giuridico che non prende parte al gioco; purtroppo invece, con la Rivoluzione Francese, e in particolare con i giacobini, è nata l’idea che la Repubblica debba essere Garante del Bene. Non è più sembrato sufficiente che lo Stato garantisse un’ordinata e armonica vita sociale: si è voluto che guidasse la società nella “direzione giusta”; che fosse “la realtà dell’idea etica”, per dirla con Hegel: cioè un padre, un maestro, un educatore e all’occasione – se il cittadino è un po’ discolo – un carceriere.
Questa tendenza ha dato luogo al vano desiderio di cambiare la società con la legislazione. I rivoluzionari sovietici pensavano che la religione fosse una forma di superstizione che danneggiava la razionalità dell’uomo e per questo oppressero la Chiesa Ortodossa. Offesero la sensibilità dei credenti per oltre settant’anni e non conclusero nulla: dopo la caduta del regime, i loro nipoti hanno visto la religione tornare in auge esattamente come prima.
La morale e la religione guardano all’interiorità dell’uomo e proprio per questo non devono essere inglobate nello Stato. Mentre alla religione si aderisce volontariamente, nell’ambito civile si passa facilmente dall’invito all’imposizione: infatti nel mondo moderno la legge tende a regolare ogni aspetto della vita e a divenire la regola fondamentale della società. Nell’epoca arcaica si dava al pater familias il diritto di vita e di morte sui propri figli; in seguito – molto opportunamente – è nato il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 570 C.p.), ma la tendenza ha proseguito ed è andata troppo oltre. Oggi non solo un padre non può più dare uno schiaffo al proprio figlio, ma un maestro rischia grosso se umilia uno scolaro chiamandolo asino. Col risultato che oggi i giovani sono contemporaneamente fragili e ignoranti.
Ma queste sono minuzie che riguardano i Paesi democratici. Per farsi un’idea dell’orrore cui può condurre l’oppressione totalitaria, cioè una legislazione straripante che riguarda sia l’esteriorità sia l’interiorità dell’uomo, bisogna riferirsi a quel Leviatano onnicomprensivo che è stato l’incubo staliniano. Lo Stato come “realtà dell’idea etica” mira infatti ad obbligare tutti ad adorare l’idea che esso ha di sé. Tende ad instaurare una sorta di teocrazia, la Statolatria: infatti non si limita ad imporre dei comportamenti, enuncia una fede cui è dovuta totale obbedienza. Nei Paesi musulmani integralisti la teocrazia condanna a morte chi abbandona l’Islàm, Stalin condannava a morte, o almeno al Gulag, chi abbandonava il comunismo. La Statolatria è una religione crudele.
Al riguardo Kant, per una volta, arriva ad una forma di estremismo: «Un governo che venisse costituito in base al principio della benevolenza verso il popolo [...] cioè un governo paternalistico (imperium paternale) [...] è il più grande dispotismo pensabile» (citato da Karl Popper in La lezione di questo secolo, pag. 70, Marsilio, 1992).
Ecco perché bisogna evitare di inserire enunciazioni morali nelle Costituzioni. Quelle enunciazioni i liberali le disprezzano come aria fritta se non applicate e le considerano attentati alla libertà se applicate. Oscar Wilde fu giudicato e messo in galera per motivi che oggi si reputerebbero assurdi.
Lo Stato liberale è quello che meglio garantisce la libertà. In esso i cittadini, se non danneggiano nessuno, hanno la facoltà di dire e fare tutto quello che vogliono. Le leggi non richiedono nessuna adesione morale e il loro principio essenziale è quello, romanistico, del “neminem laedere”: non far male agli altri. Anche se per questa sua estraneità alla morale la Chiesa gli è stata violentemente ostile.
Una Costituzione piena di buone intenzioni è pericolosa ed è meglio che lo Stato si occupi il meno possibile della felicità e della santità dei suoi cittadini. Per questo la Costituzione inglese è la migliore. Perché non esiste. (il Legno storto)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento