Nell’ultimo anno sono morte 14mila imprese artigiane. Ovviamente esse sono
fatte dall’artigiano, spesso dalla sua famiglia, e dai collaboratori.
Converrebbe moltiplicare il numero delle chiusure almeno per tre, per dare una
dimensione occupazionale. Nel primo trimestre sempre del 2012 hanno chiuso più
o meno lo stesso numero (13.300) di imprese agricole. L’anno scorso il saldo
tra nuove imprese e cessazioni di vecchie nel mondo del commercio (come notava
sempre bene Dario Di Vico ieri sul Corriere della Sera) è stato negativo:
30.000 esercizi commerciali hanno tirato giù la saracinesca. Si noti bene, i
numeri che abbiamo fornito sono quelli ufficiali e rappresentano il saldo netto
(chiusure meno aperture di nuove imprese) e per di più soltanto di comparti ben
censiti dalle nostre Camere di commercio.
Si tratta di un fenomeno impressionante. Ma per pochi. In realtà la politica (e non solo da oggi) si impressiona poco per emergenze invisibili come queste.
Perché i minatori del Sulcis (non ce ne vogliano, ma è l’ultimo caso di industria assistita e improduttiva che viene salvata pro-tempore dai governi) vale più di bar, falegnami o contadini che saltano?
1. La piccola impresa in Italia, sarebbe meglio dire quella micro, è stata bombardata negli ultimi trent’anni da cattiva fama. Un commerciante che chiude (si perdoni la rozzezza dell’analisi, ma si capirà solo tra poco il senso) è un evasore in meno. Un artigiano che fallisce è un vecchio mestiere che non ha saputo innovarsi. E l’agricoltura poi? Con quella tassazione forfettaria che ha come pretende una sia pur minima compassione? Dunque il primo aspetto dell’invisibilità nasce dalla scarsa considerazione etica (verrebbe da dire) che la cultura dominante ha avuto nei confronti della piccola impresa.
2. Un interesse piccolo ma concentrato (i minatori, gli operai della fabbrica tal dei tali) ha più capacità di influenza sulla politica e sull’opinione pubblica di quanta ne eserciti un interesse molto più vasto (migliaia di commercianti che chiudono bottega) ma diffuso sul territorio e parcellizzato.
3. È di tutta evidenza che per la politica sia molto più interessante soddisfare la richiesta relativamente piccola di un gruppo ben identificato di persone che le micro richieste diffuse in una categoria. Alle elezioni si va sostenendo di aver salvato una fabbrica, non di aver messo nelle condizioni gli artigiani di non fallire. Per un politico, di qualsiasi gruppo esso sia, è più spendibile aver salvato 500 posti di lavoro che aver fatto riforme che hanno permesso la sopravvivenza di 50mila piccole imprese.
4. La piccola impresa paga il conto di questo paradosso. Citiamo appunto il caso del Sulcis. L’ipotesi di spalmare i 250 milioni di euro di costo annui per la sopravvivenza della miniera sulla bolletta elettrica è la lampante dimostrazione di quanto detto prima. Ogni artigiano, diciamo a caso, pagherà un centesimo in più l’elettricità necessaria per la sua attività. Grazie a quel centesimo i 500 del Sulcis potranno continuare a scendere in miniera. A forza di operazioni simili a questa l’artigiano paga una bolletta elettrica che lo mette fuori mercato e crepa. Il caso degli incentivi al fotovoltaico e all’eolico (ben superiori a quelli del Sulcis) porteranno esattamente a tutto ciò. Soddisfo un’esigenza ben circoscritta ora e distruggo il futuro di molti domani.
5. La classe dirigente non conosce la piccola impresa: si è formata sulla Luna, rispetto alla bottega. Quando una bomba scoppia senza fare una strage, la si definisce artigianale. Se davvero lo fosse sarebbe stata perfetta nel suo potenziale omicida. La classe dirigente ha un’idea nel contempo romantica e arcaica della piccola impresa. Pensa che le grandi città si possano nutrire a chilometri zero, e non capisce che la fatica di un piccolo proprietario terriero non ha nulla a che vedere (sempre con tutto il rispetto) con gli orti maneggiati dai pensionati alla periferia delle città.
6. La microimpresa si ritiene che possa comunque farcela. Insomma è vittima della sua presunta forza. È condannata dalla sua flessibilità e dalla sua capacità di attutire i colpi. Un quarto dei dipendenti italiani (parliamo di tre milioni di persone) lavorano per imprese con meno di nove addetti. Ebbene, sapete quali sono le imprese che nell’ultimo anno hanno licenziato di meno? Proprio queste ultime. Sono il vero ammortizzatore sociale dell’Italia: pur di non licenziare in una congiuntura come questa stringono la cinghia. (il Giornale)
Si tratta di un fenomeno impressionante. Ma per pochi. In realtà la politica (e non solo da oggi) si impressiona poco per emergenze invisibili come queste.
Perché i minatori del Sulcis (non ce ne vogliano, ma è l’ultimo caso di industria assistita e improduttiva che viene salvata pro-tempore dai governi) vale più di bar, falegnami o contadini che saltano?
1. La piccola impresa in Italia, sarebbe meglio dire quella micro, è stata bombardata negli ultimi trent’anni da cattiva fama. Un commerciante che chiude (si perdoni la rozzezza dell’analisi, ma si capirà solo tra poco il senso) è un evasore in meno. Un artigiano che fallisce è un vecchio mestiere che non ha saputo innovarsi. E l’agricoltura poi? Con quella tassazione forfettaria che ha come pretende una sia pur minima compassione? Dunque il primo aspetto dell’invisibilità nasce dalla scarsa considerazione etica (verrebbe da dire) che la cultura dominante ha avuto nei confronti della piccola impresa.
2. Un interesse piccolo ma concentrato (i minatori, gli operai della fabbrica tal dei tali) ha più capacità di influenza sulla politica e sull’opinione pubblica di quanta ne eserciti un interesse molto più vasto (migliaia di commercianti che chiudono bottega) ma diffuso sul territorio e parcellizzato.
3. È di tutta evidenza che per la politica sia molto più interessante soddisfare la richiesta relativamente piccola di un gruppo ben identificato di persone che le micro richieste diffuse in una categoria. Alle elezioni si va sostenendo di aver salvato una fabbrica, non di aver messo nelle condizioni gli artigiani di non fallire. Per un politico, di qualsiasi gruppo esso sia, è più spendibile aver salvato 500 posti di lavoro che aver fatto riforme che hanno permesso la sopravvivenza di 50mila piccole imprese.
4. La piccola impresa paga il conto di questo paradosso. Citiamo appunto il caso del Sulcis. L’ipotesi di spalmare i 250 milioni di euro di costo annui per la sopravvivenza della miniera sulla bolletta elettrica è la lampante dimostrazione di quanto detto prima. Ogni artigiano, diciamo a caso, pagherà un centesimo in più l’elettricità necessaria per la sua attività. Grazie a quel centesimo i 500 del Sulcis potranno continuare a scendere in miniera. A forza di operazioni simili a questa l’artigiano paga una bolletta elettrica che lo mette fuori mercato e crepa. Il caso degli incentivi al fotovoltaico e all’eolico (ben superiori a quelli del Sulcis) porteranno esattamente a tutto ciò. Soddisfo un’esigenza ben circoscritta ora e distruggo il futuro di molti domani.
5. La classe dirigente non conosce la piccola impresa: si è formata sulla Luna, rispetto alla bottega. Quando una bomba scoppia senza fare una strage, la si definisce artigianale. Se davvero lo fosse sarebbe stata perfetta nel suo potenziale omicida. La classe dirigente ha un’idea nel contempo romantica e arcaica della piccola impresa. Pensa che le grandi città si possano nutrire a chilometri zero, e non capisce che la fatica di un piccolo proprietario terriero non ha nulla a che vedere (sempre con tutto il rispetto) con gli orti maneggiati dai pensionati alla periferia delle città.
6. La microimpresa si ritiene che possa comunque farcela. Insomma è vittima della sua presunta forza. È condannata dalla sua flessibilità e dalla sua capacità di attutire i colpi. Un quarto dei dipendenti italiani (parliamo di tre milioni di persone) lavorano per imprese con meno di nove addetti. Ebbene, sapete quali sono le imprese che nell’ultimo anno hanno licenziato di meno? Proprio queste ultime. Sono il vero ammortizzatore sociale dell’Italia: pur di non licenziare in una congiuntura come questa stringono la cinghia. (il Giornale)
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