martedì 8 settembre 2009

Al centrodestra servirebbe una Fox news italiana. Daniele Capezzone

Premessa dedicata ai lettori con eventuali tendenze travagliesche (nel senso di Travaglio, l`unico martire mondiale della libertà di informazione dotato di una rubrica fissa e senza contraddittorio in tv, pagata con i soldi dei cittadini): abbandonate subito la lettura dell`edizione di questa settimana del Taccuino, perché potrebbe mettere a dura prova il vostro self-control di - come si dice? ah sì...- “ceto medio riflessivo”.

La quota di elettori selvaggiamente antiberlusconiana è infatti convinta oltre ogni ragionevole dubbio di un assioma: sarebbero state le televisioni, e in particolare le callide e insinuanti emittenti del Biscione, ad aver determinato i successi del Cav. Chi scrive pensa esattamente il contrario: anzi, quanto più la sinistra pensa di aver perso per questa ragione, e tanto più è destinata, a mio avviso, ad incassare altre brucianti sconfitte. Ma c`è dell’altro: contrariamente a chi pensa che le tv berlusconiane siano un fucile perfettamente oliato e carico in funzione politico-elettorale (quando invece, per loro e nostra fortuna, si tratta di testate che vivono - e sbagliano o azzeccano le loro scelte - in base a logiche tutte aziendali), io credo che al centrodestra italiano manchi drammaticamente uno strumento televisivo (e/o radiofonico) da battaglia.

Servirebbe una Fox News italiana, e forse è un triplo scandalo parlarne: perché apparirà oltraggioso, per qualcuno, il solo pensare ad un irrobustimento mediatico del centrodestra; perché i fautori del politically correct ci spiegherebbero che Fox News è più a destra di Gengis Khan; e perché - vi dirà qualche berlusconiano ortodosso - la Fox appartiene a Rupert Murdoch, il cui gruppo appare oggi globalmente orientato in modo ostile rispetto alla maggioranza politica affermatasi in Italia.

Eppure il caso Fox andrebbe studiato e vivisezionato, e invece non sorprende che, con l`unica consueta eccezione rappresentata da un`attenta analisi di Christian Rocca, gli osservatori italiani sembrino così distratti rispetto a quel “paradigma”. In sintesi, Fox News è una tv americana all news, tutta dedicata all`informazione politica, che non ha alcun imbarazzo nel condurre campagne politiche popolari e martellanti. Se l`accendete in questo periodo, troverete a qualunque ora del giorno e della notte confronti e approfondimenti sulla riforma sanitaria obamiana, che Fox detesta (sia la riforma sia Obama), con servizi durissimi, commenti ultraschierati, ma anche con molti esponenti democratici invitati e interpellati, e tutti ben consapevoli di doversi misurare con domande incalzanti e obiezioni puntigliose, senza alcuno sconto. Risultato? Ascolti alle stelle, con la Cnn strabattuta, e una incidenza profonda nei processi politici e nel decision-making americano.

L`Italia televisiva si è invece abituata da anni a un copione opposto: esponenti di centrodestra sempre costretti a “giocare in trasferta”, e conduttori assolutamente “opinionated” (tendenza sinistra, ovviamente) a cominciare dal servizio pubblico, ma quasi senza eccezioni nell`intera offerta tv nazionale.

Se è possibile fare un paragone transmediatico, cioè spostandoci dal medium televisivo alla carta stampata, dovrebbe essere proprio il fenomeno-Feltri ad indurre il centrodestra ad una riflessione. Nel panorama stagnante dell`editoria italiana, gli unici successi di questi anni (di lettori e di entrate) sono quelli dei quotidiani diretti da Vittorio Feltri, e condotti con forza su una linea marcatissima, popolare, aggressiva. Come Fox news, mutatis mutandis. E allora perché non ritentare anche in tv e alla radio? (il Velino)

Cattocomunismo e politica: equivoco che dura da 50 anni. Giordano Bruno Guerri

A volergli cercare una madre nobile (anche le idee peggiori ce l’hanno), quella del cattocomunismo fu la Sinistra Cristiana, che si batté durante la Resistenza, più in funzione antifascista che filocomunista. Ne facevano parte Felice Balbo, Adriano Ossicini, Claudio Napoleoni, Franco Rodano. Oggi, però, i cattocomunisti evocati dal presidente del Consiglio riconoscono il loro padre nobile in don Giuseppe Dossetti, il prete-politico che rischiò - per la sua apertura a sinistra - di diventare l’alternativa a De Gasperi. Un cattolico di destra come Formigoni, usando un concetto di Paolo VI, lo definisce «l’emblema del complesso di inferiorità del cattolicesimo politico nei confronti del marxismo».

Nei cattocomunisti c’è la convinzione che non si possa fare politica, e tantomeno una buona politica cristiana, senza l’appoggio della sinistra: la quale sarebbe più vicina al messaggio evangelico, se non ai valori cristiani. Si tratta - ancora! - dell’antica convinzione popolare che Gesù era un rivoluzionario socialista, e che la rivoluzione cristiana non si possa fare senza la sinistra.

Più piattamente, il cattocomunismo applicato nacque da un progetto politico di forze fino ad allora contrapposte, ma che avevano bisogno l’una dell’altra per «garantire stabilità al Paese», ovvero per governare a lungo senza possibili alternative. Il cattocomunismo nacque in quel confuso marasma di ideali e necessità, espresso alla perfezione da espressioni politiche contorte e surreali: «convergenze parallele» e «compromesso storico». Concetti e parole partoriti, negli anni Settanta, da Aldo Moro e da Enrico Berlinguer. Parole e concetti tradotti nel più immediato «cattocomunismo», che individuò subito l’avversario principale nei cosiddetti «clericofascisti», i quali erano - più semplicemente - cattolici di destra. (Oggi io preferisco parlare di ghibelliniguelfi e di guelfighibellini, essendo quasi scomparsi - sia a destra sia a sinistra - i veri guelfi, i veri ghibellini, ma questa è un’altra faccenda.) Il bello è che sia i cattolici di destra sia i cattolici di sinistra credono di fare l’interesse della loro fede e della Chiesa. A destra, perché difendono i valori della famiglia tradizionale contro i Dico, la procreazione naturale contro quella assistita, l’obbligo di scegliere la vita contro la libertà di scegliere la morte, eccetera eccetera. Per fortuna (pardon) io non sono né cattolico né osservante, se no mi troverei in grave imbarazzo, essendo per i Dico, la procreazione assistita quando i mezzi naturali non funzionino, la libertà di scrivere un testamento biologico dove lo Stato non metta il naso. E, per fortuna, si può stare a destra e combattere per quelle idee, che non sono solo di sinistra. Ma come fanno, i cattolici, a far convivere l’obbedienza alla Chiesa con l’appartenenza a un gruppo politico che di quelle idee fa una bandiera?

Indifferenti all’insegnamento di una decina di papi, nonché alla scomunica di Pio XII ai marxisti, i cattocomunisti vollero sempre ignorare che il comunismo era, prima di tutto, un’ideologia sostitutiva della religione. E così si ebbero effetti che per un laico possono essere benigni e graditi, come le vittorie nei referendum sul divorzio e sull’aborto. Ma neppure un laico può fare a meno di chiedersi come un cattolico abbia potuto appoggiare quei referendum nel nome di Cristo e di una maggiore giustizia sociale.

Intanto, il cattocomunismo politico/economico provocava danni che stiamo ancora pagando, e chi sa per quanto tempo. Dal 1974 al 1985 le tasse aumentarono paurosamente, soprattutto per costruire quello Stato assistenziale che - per i cattocomunisti - è la versione più attuale del socialismo. Democristiani, socialisti e comunisti aumentarono il debito pubblico a dismisura per migliorare le «prestazioni sociali». In parte ci riuscirono, ma l’aumento della spesa pubblica accrebbe il deficit, il deficit aumentò il prelievo fiscale, che a sua volta diminuì l’iniziativa privata. Risultato, nuova disoccupazione, inflazione, povertà. Alla buonafede dei cattocomunisti si univa proprio quel complesso d’inferiorità di cui accennavamo all’inizio, ovvero la convinzione che soltanto i comunisti avessero gli strumenti per interpretare e migliorare la società e l’economia.

L’incredibile è che neanche il crollo del marxismo internazionale li abbia costretti a un ripensamento. Non ci è riuscito neppure papa Giovanni Paolo II, che nell’enciclica Centesimus annus, 1991, scrisse: «Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese».

Insomma, come si fa a essere cattocomunisti, oggi? Rimangono tali, infatti, anche in assenza di comunismo, che proprio certi cattolici sembrano rimpiangere più degli stessi marxisti. In proposito ha dato una risposta chiara e convincente Raffaele Iannuzzi: oggi la fede e i suoi contenuti culturali sono, per i cattocomunisti, al servizio e alla mercé del dibattito politico; per cui, «se il Regno di Dio non è più una realtà dell’altro mondo, ma è una cosa di questo mondo, allora abbattere Berlusconi è già l’apertura alla salvezza in questo mondo». È il vero motivo per cui, alla fine, non vogliono e non riescono a farsi un grande partito tutto cattolico: non riuscirebbero nell’obiettivo salvifico di espellere il mercante dal tempio. Anche il catechismo ne ha fatti, di guasti. (il Giornale)

domenica 6 settembre 2009

Loro

Non impongono, propongono, non insorgono, si dissociano, non pontificano, argomentano, non ascoltano, registrano, non partecipano, contribuiscono, non sentenziano, criticano, non parlano, dichiarano, non spiegano, educano, non criminalizzano, giudicano, non rubano, redistribuiscono, non eseguono, adempiono, non chiariscono, chiosano, non scrivono, pubblicano, non dialogano, trasmettono, non disprezzano, evitano, non sbagliano, emendano, non insabbiano, archiviano, non trasgrediscono, derogano, non scelgono, prediligono, non uccidono, giustiziano, non negano, tralasciano, non dimenticano, prescindono, non delinquono, disattendono...

I compagni al caviale non riescono a digerire quelle canotte lùmbard. Stefano Zecchi

Com’è dolce il ricordo dei tempi passati quando c’erano i democristiani, e i comunisti, a parole, lottavano per la rivoluzione!Oggi, da qualunque parte si guardi è uno schifo. Una masnada di commercialisti brianzoli ha preso il potere, ragionieri e geometri con il loro greve accento lombardo sono nei posti chiave dell’amministrazione dello Stato, e non parliamo di quei piedi sudati che sono scesi dalle valle bergamasche o hanno attraversato le pianure venete, arrivando al governo indossando soltanto la canottiera.
Questo è il doloroso affresco del nostro tempo che ci dipinge Rossana Rossanda: un manifesto, sul Manifesto, dell’indecenza italiana. Un tempo, dice l’ex rivoluzionaria, eravamo rispettati dall’Europa, oggi siamo derisi; un tempo i nostri governanti erano ascoltati, oggi sono sbeffeggiati: non resta che piangere, non c’è speranza!
Certo, descrivere in poche righe, in un articolo di giornale, sessant’anni e più della nostra storia è un’impresa ardua, e con un po’ di prudente umiltà sarebbe meglio astenersi. E invece a trattenersi la Rossanda proprio non ce l’ha fatta. Così eccola lì a rammaricarsi di questi tempi bui, e sembrano venire meno le forze: da vestale della rivoluzione è diventata la nonnetta dei benpensanti, dalla retorica rivoluzionaria è passata alle piccole cose di cattivo gusto di gozzaniana memoria.
Insomma, per lei come per tanti suoi amici sarebbe stato meglio morire democristiani, almeno in attesa del trapasso ci si poteva lamentare, da veri intellettuali marxisti, ricordando come sarebbe stato possibile vivere liberi e felici da comunisti nel paradiso sovietico, in Cina, a Cuba, perfino nell’Albania di Enver Hoxha.
Una volta almeno, prima di morire democristiani, si poteva soffrire tra le spire del capitalismo, architettando gloriose avventure rivoluzionarie soffrire, a parole ovviamente, perché, intanto, nessuno proibiva a questi eroi della rivoluzione di sguazzare nel fango borghese e di servirsi di ciò che affiorava dalla melma capitalistica: libertà, democrazia, benessere. Il disgusto nelle parole, l’opportunismo nei comportamenti. Una doppia morale.
È questa doppia morale che oggi non è più praticabile, che viene facilmente e immediatamente smascherata. Quella doppia morale che consentiva di predicare in un modo e razzolare in un altro. Arriva Berlusconi, e cosa ti combina? Ha la spudoratezza di dire che i comunisti sono dei criminali, che la storia del comunismo internazionale è una crudele avventura di distruzione della libertà e di annientamento della persona, che i nostri vecchi comunisti continuano a imbrogliare le carte per rendersi presentabili in un mondo che ha seppellito il comunismo. Come si permette quell’orrido Berlusconi di criticare?, dice la nonnetta uscita dalle pagine di Gozzano, che ha abbandonato la lotta di classe per diventare portavoce dei benpensanti e del conformismo moralizzatore. E, allora, preso atto che il mondo non si cambia, lei e i suoi compagni decidono di moralizzarlo: moralisti di tutto il mondo unitevi è la nuova parola d’ordine.
Questi intellettuali di sinistra, giornalisti, scrittori, architetti, comici, magistrati, professori, orfani della doppia morale ma armati di furore moralista (contro gli altri) finiscono per avere nei confronti di Berlusconi un’ossessione estetica. È un gaffeur, un bauscia: lui e i suoi alleati con quel Bossi in canottiera «unica vera tendenza di fascismo localista in abiti nuovi», dice la Rossanda, che però spera tanto in Fini. Questi politici e intellettuali di sinistra orfani della doppia morale si arrogano un diritto di veto estetico prima ancora che politico, nei confronti di Berlusconi e di chi lo sostiene, cioè la maggioranza degli italiani. Alla faccia della democrazia che ha sempre rappresentato ai loro raffinati sguardi un fastidioso ingombro politico. Così, privati della doppia morale, si sono inventati una doppia Italia, di cui parlano ovunque nei giornali, nei libri, nei tribunali, nell’avanspettacolo: un’Italia bella, colta, colma di stile e una indecente, di ragionieri, commercialisti, geometri che, naturalmente, rappresenta il nuovo fascismo.
Ma ecco che appena questa intelligenza benpensante conformista, dall’inappuntabile stile, viene pizzicata nelle sue miserie piccolo borghesi, urla, grida che la libertà di parola è minacciata, raccoglie firme di protesta, si rivolge al parlamento europeo. È ovvio: solo loro hanno il diritto di interdizione perché si ritengono ineccepibili culturalmente, perché se sciaguratamente non riescono più a predicare in un modo e a razzolare in un altro sono tuttavia convinti di poter giudicare dall’alto delle proprie qualità estetiche la moralità di chi non è bello come loro. (il Giornale)

sabato 5 settembre 2009

La pandemia immaginaria. Roberto Volpi

Il cinquantunenne napoletano ricoverato da un po’ di giorni in gravi condizioni e già dato per morto è morto davvero. Colpito da influenza suina, il soggetto in questione era un oligofrenico affetto da miocardiopatia dilatatoria grave e da una grave forma di diabete mellito. Quadro clinico aggravato da insufficienza renale e sepsi da stafilococco. Subito etichettato come primo morto per influenza suina, i medici si sono premurati di sottolineare come l’influenza c’entri pressappoco come il cavolo a merenda: “Qualunque altra infezione avrebbe portato alla stessa conclusione”. Dunque la notizia sta nel fatto che l’influenza suina (influenza pandemica) non ha combinato niente che una qualsiasi altra infezione comunque sopraggiunta non avrebbe saputo combinare. Influenza pandemica A(N1H1), si diceva. Così definita per distinguerla dalle ordinarie influenze stagionali che raggiungono le nostre aree di norma nel periodo centrale dell’autunno-inverno. Distinzione essenziale: le influenze pandemiche non stagionali non si comportano di solito come quelle stagionali, non si manifestano, non hanno picchi e recrudescenze tipicamente collegati al mutare del tempo e delle stagioni come quelle – non a caso – dette stagionali. Ma per quanto definita come pandemica, l’influenza suina viene invece quotidianamente trattata pari pari come una comune influenza stagionale, e infatti se ne prevede, con l’arrivo del cambio di stagione e del brutto tempo, una formidabile recrudescenza autunno-invernale.

E così già si è provveduto a fondere, alquanto impropriamente, i tratti delle due distinte tipologie di influenza.
L’Oms ha smesso pressoché da subito di registrare i casi accertati virologicamente e ha preso a conteggiare i casi comunque diagnosticati, lanciando anche ultimamente cifre di precisione tanto millimetrica quanto miracolosa, del tipo: 210.917 casi nel mondo con un tasso di mortalità di 0,98% che, sol che si abbia un po’ di dimestichezza coi sistemi di rilevazione e registrazione, suonano come una sonora presa per i fondelli.
Ma anche in Italia non si è scherzato. Con un fax trasmesso il 24 luglio 2009 dalla Direzione generale della prevenzione sanitaria del ministero della Salute agli assessorati alla Sanità delle Regioni e, per conoscenza, agli Uffici di Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera e all’Istituto Superiore di Sanità si è stabilito che: “Considerato l’incremento dei casi di influenza A(N1H1)v (….) non si ritiene più indispensabile la conferma virologica di tutti i casi sospetti”. Seguono disposizioni il cui senso è: ogni affezione respiratoria che dia luogo a una febbre di almeno 38° è considerata influenza suina. Ma anche coi nuovi criteri di manica larga, i casi di influenza suina non sono ancora arrivati a duemila, a letto ci saranno attualmente in tutta Italia sì e no cento persone con questo quadro clinico, ovvero senza un baffo di niente che non sappia procurare la più pigra e indolente delle influenze, l’influenza A(N1H1) non ha ancora fatto il suo primo (vero) morto dal momento della sua comparsa agli inizi di maggio: e questo mentre una comune influenza stagionale nei suoi primi tre mesi mette a letto centinaia di migliaia di persone (quando non milioni) e fa qualcosa come 4-5mila morti – l’uno per cento del totale delle morti annue in Italia.

Qui sta il punto. Dal momento che i sintomi per diagnosticare clinicamente l’influenza suina sono gli stessi che servono a diagnosticare la comune influenza stagionale, e che temporalmente le due influenze saranno perfettamente sovrapponibili, come si potrà distinguere la prima dalla seconda, quando la seconda entrerà in scena? Chi si piglierà la febbre accompagnata da senso di stanchezza e raffreddore o mal di gola in quale categoria verrà inserito, dal momento che la diagnosi virologica dell’influenza suina è stata soppressa alla velocità della luce e quella clinica dell’influenza stagionale presenterà esattamente gli stessi sintomi? E se le classi verranno chiuse quando si presenteranno tre casi, quale scuola si salverà, dal momento che non c’è influenza stagionale che non procuri tre casi in una qualche classe?

Si sta preparando l’affare del secolo (siamo già a una prima stima di dieci miliardi di euro, che verranno ripartiti tra i quattro colossi mondiali del settore vaccini), un paio di miliardi di dosi di vaccini sono già preannunciate per contrastare un virus la cui travolgente avanzata continua a latitare ma che viene data per scontata, e perfino in una variante (ceppo virale) più virulenta e aggressiva. Il bello di questo virus A(N1H1) sta proprio in ciò: che su di esso si può scommettere a occhi chiusi. L’arrivo dell’autunno porterà l’ordinaria influenza con le sue altrettanto ordinarie centinaia di migliaia di ammalati e qualche migliaio di morti e allora sarà un bel problema di attribuzione: influenza stagionale o influenza suina? Se pure quella suina se ne attribuirà una quota anche minoritaria, sarà comunque un successo. (il Foglio)

Tutti quelli che urlano al "regime" ma sono stipendiati dal Cavaliere. Angelo Crespi

Immaginate che i più feroci e fieri oppositori del fascismo fossero stati al contempo gli intellettuali più vezzeggiati e pagati dallo stesso regime. Immaginate, per esempio, che i contestatori del Duce non fossero stati messi al confino, su qualche remota isola, in galera o costretti all’esilio, in Francia e Svizzera, ma mantenuti pubblicamente dal Minculpop e omaggiati con importanti collaborazioni alle riviste del partito. Immaginate Gramsci non in carcere, ma editorialista di punta di Primato. La cosa sarebbe sembrata quantomeno bizzarra.
Un po’ quello che, si parva licet... , succede oggi. Suona infatti strano che alcuni tra gli scrittori e uomini di spettacolo (Saviano, Giordano, Augias, Lucarelli, Bisio, Aldo, Giovanni e Giacomo... ) che hanno firmato l’appello di Repubblica contro Berlusconi e in difesa della libertà di stampa e di pensiero siano in realtà pagati o lautamente pagati dalle aziende proprio di Berlusconi.
Il paragone tra oggi e il Ventennio potrebbe sembrare azzardato. Ma non lo è, perché i toni usati dagli estensori dell’appello - tre esimi giuristi come Franco Cordero, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky - dopo la decisione del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, di denunciare Repubblica sono definitivi.
Nell’appello si spiega che sarebbe in essere «un tentativo di ridurre al silenzio la libera stampa, di anestetizzare l’opinione pubblica, di isolarci dalla circolazione internazionale delle informazioni, in definitiva di fare del nostro Paese un’eccezione della democrazia». Aggiungendo poi un esplicito richiamo alla degenerazione dell’informazione sotto i regimi illiberali e antidemocratici del secolo scorso.
Proviamo dunque a riflettere per trarne le conseguenze logiche. Partiamo dall’assunto di Repubblica. Oggi, vivremmo in una sorta di secondo fascismo videocratico nel quale al posto del manganello si usa la televisione e si tenta di silenziare la stampa nemica per mezzo della magistratura. Al che, trovare in calce la firma per esempio di Roberto Saviano e di Paolo Giordano o di Claudio Bisio fa un certo effetto. Saviano è lo scrittore di punta di Mondadori, Giordano l’enfant prodige di Segrate. Il primo è stato tradotto in tutto il mondo e ha venduto milioni di copie, il secondo è stato il caso editoriale della scorsa stagione. Bisio è, tanto per dire, uno dei volti più noti di Canale 5. Tutti e tre, in misure diverse, stimiamo stando ai normali valori di mercato di editoria e televisione, hanno spuntato contratti favolosi e per la loro bravura di vendere libri o attirare spettatori incassato stipendi milionari. Grazie a loro Mondadori e Mediaset hanno avuto introiti che di quegli stipendi sono multipli, e grazie anche a loro sono di fatto la casa editrice e la televisione più importanti d’Italia. Grazie anche a loro, Berlusconi è ricco e potente.
Fin qui il ragionamento non fa una piega. Facciamo un ulteriore passo. Sbagliano Mondadori e Canale5 a contrattualizzarli? No, non fanno male. E contrariamente a quello che ho scritto in passato, credo che questa sia la riprova, non tanto che Mondadori e Mediaset sono culturalmente succubi dell’egemonia di sinistra, quanto che esse sono un esempio di cultura liberale e del prevalere degli interessi di mercato rispetto alle ideologie. Essendo la cultura un prodotto (anche se questo pensiero è checché se ne dica frutto bacato del marxismo) allora non importa il colore, basta che si venda.
Facciamone un altro. Si potrebbe allora dedurre che Saviano, Giordano e Bisio, pecchino di incoerenza. Prendono soldi e fama da chi poi criticano, odiano, dileggiano, e che dunque per coerenza dovrebbero scrivere e televisionare altrove. D’altronde, nonostante i toni apodittici di Repubblica, in Italia esiste ancora la democrazia e mezzi di informazione non ascrivibili al regime. Saviano, Giordano e Bisio potrebbero benissimo, se lo volessero, lavorare per altri gruppi ugualmente importanti e dello stesso livello, Rizzoli per esempio o Sky. Ma non vogliamo dire neppure questo. In modo limpido i tre potrebbero obiettare che proprio la libertà e la democrazia permettono loro di lavorare e criticare il datore di lavoro. Arricchirsi a spese del «dittatore» e farlo ricco. Addirittura, come spiegava Pasolini, potrebbero giustamente replicare che il mondo è questo, e che l’intellettuale migliore smonta il potere dall’interno. E noi in parte siamo d’accordo. È giusto che Saviano, Giordano e Bisio si arricchiscano e di fatto abbiano un potere e un autorevolezza nel mondo della cultura e massmediatico e che con loro cresca la ricchezza di Berlusconi e il suo potere. Anzi questo dimostra che siamo in democrazia, c’è piena libertà, Berlusconi è insomma un mecenate.
Ma se così non fosse, e per un attimo dessimo credito all’assunto di Repubblica, cioè che in Italia c’è un pericolo di slittamento verso un regime illiberale e che Berlusconi è di fatto una sorta di dittatore, allora dall’assioma principale procederebbe un ragionamento, pur sempre logico, ma diverso. Saviano, Giordano e Bisio sono fiancheggiatori del regime, di fatto collaborazionisti come i grandi Céline e Drieu La Rochelle, ovvero intellettuali che di facciata si dicono contro il regime ma che di fatto ne potenziano il potere. Anzi potrebbero persino essere scambiati per spie di Berlusconi. Ancora si mormora dei tanti pensatori che nel Ventennio si professavano comunisti pur essendo al soldo dell’Ovra. Se davvero sono convinti di quanto firmano, Saviano, Giordano e Bisio - lo ripetiamo - potrebbero stare, con un po’ di coraggio e senza troppi disagi, al confino di Rizzoli o in esilio a Sky.
Cercando di chiudere il sillogismo senza salti logici, possiamo dire applicando il principio di non contraddizione: la firma di Saviano, Giordano, Bisio in calce all’appello di Repubblica dimostra che Berlusconi è un liberale; l’appello di Repubblica è inficiato proprio dalla firma di Saviano, Giordano e Bisio che in virtù della loro coerenza e libertà (lavorare al soldo di chi criticano) dimostrano l’assenza di regime e la libertà di pensiero. Oppure che essi sono dei fiancheggiatori. Tertium non datur. Altre deduzioni logiche non sembrano esserci. Ed è per questo che Cordero, Rodotà, Zagrebelsky, se convinti veramente del loro assioma, avrebbero dovuto sdegnosamente non accettare la firma di Saviano, Giordano e Bisio. Non credo che Gramsci avrebbe accettato il sostegno di Pavolini, Togliatti quello di Bottai.
In appendice mi piacerebbe chiedere a Cordero, Rodotà, Zagrebelsky, al di là dell’opportunità politica, come Berlusconi possa difendere la propria immagine e se appellarsi a un tribunale sia un atto illiberale e di intimidazione. Un antico brocardo insegna che «qui iure suo utitur neminem laedit». (il Giornale)

venerdì 4 settembre 2009

Il nuovo martire dell'antiberlusconismo. Dimitri Buffa

C’era da aspettarselo: alla fine Dino Boffo, da oggi ex direttore dell’Avvenire, non ha potuto fare altro che dimettersi. Con una coda polemica a metà tra l’auto commiserazione l’auto esaltazione: adesso farà per professione il martire dell’idea. Anti-berlusconiana, ovviamente. Tanto già la cosa aveva trovato terreno fertile in giornali come "La Repubblica", abituati a dare ai propri lettori le notizie secondo la categoria dello spirito del "cui prodest", che poi è una variante dell’indicare il dito che addita la luna. A Radio Radicale, l’ex segretario Geppi Rippa ora dice che il vecchio vaticanista della gloriosa Agenzia radicale, Salvatore Di Giacomo, già nel 2005 aveva scritto tutta questa storia paventando quello che oggi tutti sanno: una differenza di vedute, leggi uno scontro senza esclusione di colpi, tra Cei e Santa Sede. Insomma avrebbe ragione Feltri, dopo tutto: il documento e lo scandalo vengono da ambienti vaticani in perenne lotta tra loro per chi sia deputato a tenere la barra dei rapporti con la genuflessa politica italiana. Intorno tutto il mondo se la ride. E ieri Bagnasco non ha potuto rifiutare le dimissioni di Goffo dopo avere letto i giornali che riportavano le "anticipazioni" di "Panorama" oggi in edicola che ha rintracciato tutti i protagonisti della vicenda, la donna Anna Bo., il vecchio fidanzato, ex Stewart Alitalia e oggi direttore di una filiale di banca, il padre della ragazza, Giovanni, presidente di una radio diocesana a Terni, la madre, la gente di un paese come Terni dove tutti sanno tutto di tutti. E anche di più. Boffo, lungi dall’essere un martire della libertà di stampa come vorrebbero farlo passare ora gli interessati odiatori di professione del Cav, e come vorrebbe ovviamente passare lui stesso, ha semplicemente constatato che la sua versione dei fatti non poteva reggere un minuto di più. L’altro ieri, fra l’altro, il padre del ragazzo su cui ha scaricato la colpa delle molestie telefoniche che venivano dal suo telefonino aziendale lo aveva sbugiardato in un’intervista a "Libero", implicitamente trattandolo da vile e da spergiuro. Ieri sono arrivati sui giornali tanti e tali elementi della sua vita privata e di questa strana relazione con Anna Bo., l’ex fidanzato e la curia di Terni, da indurlo, finalmente, a lasciare il posto di direttore dei quotidiano della Cei "per il bene della Chiesa". In realtà, qualcuno diceva che se l’avesse fatto il giorno dopo la pubblicazione dello scoop del "Giornale " di Feltri avrebbe limitato i danni che questa inutile settimana di resistenza gli ha portato. A lui e al suo amato clero. Ieri ovviamente ha potuto incassare l’interessata solidarietà di Bagnasco, l’altro grande sconfitto di questa lotta interna con la Segreteria di Stato della Santa Sede (almeno a sentire il su citato vaticanista di ‘Agenzia radicale"), ma a Roma tutto ciò lo definiscono così: "consolarsi con l’aglietto". Alla fine un po’ tutti i protagonisti della storia non hanno dato grande prova di sé: lui, Boffo, è passato da "sepolcro imbiancato" , da vile per avere scaricato la colpa su un povero ragazzo morto, e da omosessuale cachè e omofobo, stile Santa Romana Chiesa. Feltri, pubblicando una cosa che non era un atto giudiziario vero e proprio ma un estratto di straforo del casellario giudiziale che qualche manina complice, nella polizia di Stato, ha passato sottobanco ai servizi vaticani, ha fatto la figura di quello che pubblica veline per conto del terribile Cav. Farina, poveraccio, è passato da suggeritore per via dei propri precedenti betulleschi, senza entrarci un beneamato e Bagnasco, nell’impossibile tentativo di difendere l’indifendibile, ha fatto la figura di chi non accettando un’onorevole resa va incontro alla propria Waterloo. Possiamo aggiungere anche il capo della Polizia Manganelli che, per eccesso di zelo politically correct - e sentendosi chissà perché chiamato in causa per quell’interrogazione illegittima al terminale dei Ced, occultata con un tratto di pennarello nero sul numero dell’operatore - ha tenuto a raccontare a "La Repubblica" che "non sia mai che la polizia scheda gli omosessuali". Anzi, ha aggiunto facendo ridere mezza Italia, "da noi è pieno di poliziotti che sono diventate poliziotte e di poliziotte diventati poliziotti". Cosicché la prossima volta che qualcuno verrà fermato per un controllo potrà sempre essere preso dal dubbio se l’agente che lo sta controllando non sia per caso un trans. Insomma roba da commedia all’italiana stile Alvaro Vitali. O se si preferisce, una pochade da pellicola di Almodovar che la metà sarebbe bastata. Con tutti gli ingredienti da film del Monnezza: il giornalista moralista e molestatore, la famiglia timorata di Dio che cerca un’impossibile privacy, i vescovi che difendono non si sa bene quale virtù dello stesso molestatore, i giornali progressisti che cercano di rovesciare la frittata e tanta, ma tanta, disinformazione e mistificazione mediatica della verità che farebbe venire voglia di restituire la nazionalità italiana al Capo dello Stato. Mentre tutto il mondo arranca per la crisi, l’ltalia post ferragostana, non avendo un cavolo da fare ha cercato di auto-affondarsi così, con un’opera da tre soldi. Anzi, una telenovela. Perché già da ora saremo facili profeti nel dirvi che non è ancora finita. (l'Opinione)

Lettera aperta a Berlusconi. Christian Rocca

Con questo articolo, pubblicato da "Ideazione" il 15 luglio 2005, iniziava - i primi di settembre dello stesso anno - la mia avventura di blogger.
E' talmente attuale che mi piace riproporlo.

Egregio presidente Silvio Berlusconi, probabilmente non ha mai sentito parlare di William Baroody, di Joseph Coors, di Richard Mellon Scaife, di David e Charles Koch, di Lynde e Harry Bradley e, soprattutto, di John Merrill Olin. è un gran peccato. Non tanto e non solo per lei, gentile presidente. Ma per tutti noi. Se li appunti questi nomi, le potrebbero tornare utili se un giorno avvertisse il bisogno di stupire ancora una volta, se volesse davvero passare alla storia e incidere nella politica italiana ben più che con il record di permanenza a Palazzo Chigi. Mi permetto di suggerirle questi nomi, gentile presidente, perché in un certo senso si tratta di suoi colleghi: sono businessmen americani molto ricchi e pieni di talento, creatori o eredi di fortune sconfinate, anche se mai quanto le sue. Questi signori condividono con lei una passione per il libero mercato, per la libera intrapresa, per il libero commercio e per la non ingerenza dello Stato nelle faccende private e delle aziende.

Come lei, sanno che se l’antagonismo di sinistra entrasse nella stanza dei bottoni farebbe parecchi danni sia allo Stato sia alle imprese, quindi alla società e ai cittadini. Questi signori, gentile presidente, sono della sua stessa pasta: come lei sono cresciuti nella trincea del lavoro, come lei hanno creato ricchezza e benessere per sé, quindi per gli altri. Come lei, combattono l’asfittica egemonia culturale della sinistra, ma hanno fatto una scelta diversa dalla sua, tempestiva e sacrosanta, del 1994: loro non sono mai scesi in campo. Non ne avevano bisogno. In America non c’è stata una rivoluzione giudiziaria che ha fatto fuori soltanto una parte della classe dirigente della Prima Repubblica. In America non c’è alcun pericolo comunista, neanche socialista e neanche socialdemocratico. Questi suoi colleghi americani non hanno speso i loro soldi per fondare Forza America o qualcosa di simile.

Li hanno investiti sulla forza dell’America, che altra non è se non quella di essere la più formidabile fabbrica di idee del pianeta. Questi signori hanno sganciato denaro di tasca propria per finanziare centri studi, fondazioni e cattedre universitarie che sono riusciti a ribaltare l’egemonia culturale della sinistra e a riorientare l’agenda politica del paese. Ci sono voluti trent’anni, ma l’esito dell’investimento è straordinario. Guardi soltanto ai risultati elettorali: nelle ultime dieci elezioni presidenziali americane, dal 1968 a oggi, i Repubblicani hanno vinto sette volte, mentre le tre volte in cui hanno perso è successo quasi per caso, per colpa di scandali, di candidati deboli o di divisioni nell’arcipelago conservatore. Nel 1976, infatti, il presidente Gerald Ford fu sconfitto più dal fatto di essere subentrato al dimissionario Richard Nixon che dalle idee di Jimmy Carter. Tanto più che, quattro anni prima, Ford non era stato neppure eletto vicepresidente di Nixon, ma era subentrato anche al vice di Nixon, cioè a Spiro T. Agnew, anch’egli dimessosi per uno scandalo. Poi ci fu il Watergate. Avversario e condizioni più facili non ci potevano essere per i Democratici. Eppure, nonostante un candidato del Sud, devotissimo al Signore e amato dagli evangelici, presero soltanto il 50,1 per cento contro il 48 del debole Ford. L’altro vincitore democratico è stato Bill Clinton, nel 1992 e nel 1996. Clinton, anch’egli governatore battista del Sud, non è mai riuscito a conquistare la maggioranza dei voti, neanche il giorno della rielezione. La prima volta fu eletto soltanto perché i conservatori presentarono due candidati: Bush padre (che conquistò il 37 per cento) e Ross Perot (19 per cento). Quattro anni dopo, Clinton sconfisse Bob Dole soltanto con il 49 per cento. Gentile presidente, lei magari riuscirà anche a vincere le prossime elezioni. Lei è certamente più bravo e più furbo dei suoi avversari, dunque non le sarà impossibile tornare a Palazzo Chigi o magari trasferirsi al Quirinale.

Lei ha i mezzi e le capacità, ed è già riuscito a fare i miracoli con le pizze e con i fichi che le passa il convento e che si ritrova intorno. Ma allo stesso tempo, ci pensi bene: lei è soltanto una meteora. Un outsider. Un uomo politico senza eredi. Le sue idee, signor presidente, sono legate alla sua persona e alla sua fortuna. E già adesso scricchiolano ogni qualvolta un Follini o un Fini o un Casini o un Buttiglione prova a fare la faccia feroce. Quando deciderà di ritirarsi, caro presidente, non avrà nessuno a cui passare lo scettro. Non resterà niente. Non potrà restare niente. Sarà cancellato e liquidato come un’altra parentesi della storia italiana. I suoi colleghi americani, invece, non hanno avuto problemi di questo tipo: sono diventati maggioranza culturale, sociale e politica nel paese. Lo spiega mirabilmente un libro che la sua Mondadori ha appena tradotto dall’inglese, sia pure in colpevole ritardo e con un titolo così orrendo che reputo offensivo ripetere (in originale è The Right Nation).

I suoi colleghi americani, insomma, non si sono accontentati di vincere una volta o due e poi tirare a campare. Hanno provato a cambiare l’America e ci sono riusciti, al punto che la più importante delle fondazioni di cui le dicevo all’inizio, la Olin Foundation, ha appena deciso di chiudere bottega per l’esaurimento della propria ragione sociale: l’obiettivo è stato raggiunto. Il vecchio John Olin era stato chiaro con i suoi: voglio che spendiate i miei soldi entro una generazione. Detto e fatto. John e sua moglie Evelyn, mentre erano in vita, hanno sborsato 145 milioni di dollari. Dal 1982 la Fondazione ha finanziato libri, progetti, giornali, riviste, centri studi, ricerche, corsi, dottorati, borse di studio, associazioni di avvocati e club letterari per un totale di 380 milioni di dollari. I soldi di John Olin hanno finanziato la Heritage Foundation, cioè il serbatoio di idee della rivoluzione liberale reaganiana, e l’American Enterprise, il fulcro dell’attuale era bushiana.

Sono università senza studenti, templi del sapere e delle sue applicazioni pratiche. Sono fabbriche che producono pensiero. Sono la forza degli Stati Uniti. L’idea che tagliare le tasse è uno strumento per rilanciare l’economia è stata finanziata con i soldi di John Olin. E oggi nessun politico americano ha il coraggio di sostenere il contrario. Se nel 1994 l’avesse fatto anche lei, caro presidente, oggi si troverebbe con un mucchio di guai in meno. Sono stati i soldi di John Olin a creare il Centro per la Democrazia di Chicago, dove sono cresciute le menti più lucide dell’America odierna. Sono stati i soldi di John Olin a trasformare le coltissime lezioni del professor Allan Bloom e poi le tesi di Charles Murray in straordinari best seller che hanno cambiato i connotati del dibattito culturale e sociale americano. Mi chiedo, anzi le chiedo, perché non prova a fare lo stesso in Italia? Perché non tenta di rivoluzionare il nostro paese fin dalle fondamenta, specie ora che s’è accorto che da solo non ce la può fare e che nella stanza dei bottoni, i bottoni non ci sono? Perché non comincia a finanziare think tank seri, quindi diversi dai contenitori buoni soltanto per le passerelle mondane che abbiamo oggi in Italia?

Perché non finanzia con borse di studio e sovvenzioni individuali giovani ricercatori che producano papers, documenti e idee alternative a quelle che ci fornisce l’establishment intellettuale? Perché non usa una piccolissima parte del suo impero mediatico per fare la rivoluzione liberale? Si tratta certamente di un impegno generazionale, ma non crede che sia ben più utile di un orizzonte che non supera la più ravvicinata scadenza elettorale? Probabilmente rinunciare all’ennesimo Bonolis le farebbe guadagnare di meno, ma è sicuro che non ne valga la pena? Crede, per esempio, che il suo amico Murdoch, e parlo dello Squalo Murdoch, non abbia calcolato al centesimo quanto sia conveniente perdere quei milioni di dollari che perde per pubblicare un giornale influente come il Weekly Standard? Perché, ad esempio, non lancia sul mercato un newsmagazine autorevole e di alto livello come l’Economist o il New Yorker? Perché non fonda una specie di Radio Radicale televisiva che faccia servizio pubblico come si deve? Mi domando, anzi le domando, perché non apre una sezione della sua casa editrice dedicata a libri che non siano soltanto favori ad amici o barzellette su Totti o su Bush o di Michael Moore?

Ancora: le pare sensato che le sue televisioni siano le uniche del mondo occidentale a non avere uffici di corrispondenza negli Stati Uniti? Non crede che ciò possa spiegare l’esplosione di bandiere arcobaleno sulle finestre dei nostri palazzi? Le pare normale che il suo Giornale abbia inaugurato il sito Internet soltanto qualche settimana fa? Com’è possibile che nessuno dei suoi collaboratori sia corso a farsi spiegare dal gruppo di Ideazione le potenzialità della blog revolution? Io non l’ho mai votata, signor presidente. Ma le scrivo questa lettera perché credo che lei sia l’unico in grado di poter seguire l’esempio dei suoi colleghi americani e aiutare l’Italia a diventare un paese pienamente liberale, purché si ricordi che il conservatorismo americano è rivolto al futuro, visto che l’unica cosa che vuole conservare è la libertà. Con una sola frase, insomma, le chiedo di far confliggere i suoi interessi economici con i suoi interessi politici. E di far prevalere questi ultimi. Si guadagnerà la fama di statista e nel lungo termine non sarà il suo unico guadagno.

giovedì 3 settembre 2009

Scalfari assolve Silvio pur di evitare la condanna. Gian Marco Chiocci

«Confermo la proposta di remissione della querela, previa una lettera di scuse, nella forma più opportuna che Eugenio Scalfari riterrà. Vorrei sottolineare che la querela da me sporta aveva finalità di tutela della verità storica e della dignità politica ed umana di mio padre. A differenza di altri, non intendo commercializzare questo “momento” ma mi riterrei totalmente soddisfatta con la lettera di cui sopra». In fede, Stefania Craxi. È datato 11 giugno 2009 l’ultimo atto a margine del processo penale d’appello che vede il fondatore di Repubblica condannato in primo grado (insieme all’attuale direttore Ezio Mauro) per aver sostenuto - nella sua rubrica sul Venerdì - che «Craxi era intervenuto con mezzi illeciti per bloccare il contratto Sme» poiché Carlo De Benedetti andava annoverato «tra le sue inimicizie». La sollecitazione che la figlia del leader socialista rivolge ad Eugenio Scalfari ne segue altre, precedenti, non andate a buon fine. Non vuole soldi, ma solo un’ammissione pubblica di colpa per l’abbaglio preso. Scalfari non sa cosa fare: se il mea culpa ed evitare così i rischi del secondo grado oppure proseguire diritto e sperare in giudici più benevoli rispetto a quelli che l’hanno condannato il 6 aprile 2006 alla pena di 2.500 euro al termine di un dibattimento ricco di testimoni eccellenti. Le motivazioni della sentenza non offrono grandi speranze per il futuro del barbuto fondatore di Repubblica. Nelle quindici pagine sottoscritte dal giudice Francesco Patrone del tribunale di Roma si legge, infatti, che «entrambi gli enunciati (fatti illeciti e intervento di Craxi dovuto all’inimicizia per De Benedetti, ndr) appaiono obiettivamente lesivi della reputazione di chi allora rivestiva la carica di presidente del Consiglio». La tesi affermata da Scalfari che Craxi bloccò il contratto Sme violando la legge ed al fine di danneggiare De Benedetti, è stata dunque giudicata diffamatoria anche perché «il predetto intervento di Craxi - si legge ancora in sentenza - forte, non isolato e pubblicamente rivendicato dallo stesso Craxi, non costituiva certamente un atto abnorme (...). Non è dato pertanto di ravvisare, a parere di questo giudice, nessun evidente deliberato illecito, sotto il profilo oggettivo, nella condotta tenuta da Craxi in ordine alla vicenda Sme».

Nel tentativo di evitare la condanna Scalfari le aveva provate tutte nel contraddittorio con l’avvocato Roberto Ruggiero, difensore del sottosegretario agli Esteri. Prima s’era impegnato a sminuire la portata delle sue affermazioni diffamatorie spiegando che il suo era solo un «giudizio politico». Testuale: «Il mio dire illecito non configura... è una... non so come spiegarmi meglio, ma è un aggettivo di tipo politico, io non sto incolpando nessuno di reati tant’è che io sono stato disposto sin dall’inizio a transigere questa lite (...). Se dico che ha adottato procedure illecite, ha adottato mezzi illeciti, io do un giudizio etico-politico, che ovviamente può essere sbagliato o soggettivo».

Scalfari è poi riuscito nella straordinaria impresa di buttare a mare anni di campagne stampa di Repubblica contro Silvio Berlusconi e la Sme. Anche qui, il virgolettato parla da solo: «Io ho dato dell’illecito al comportamento non di Berlusconi ma di Craxi, quindi il problema è completamente un altro. È una mia opinione, certo, io non ho dato giudizi su Berlusconi, li ho dati su Craxi. Se si legge il testo non vi è il minimo dubbio. Allora è chiaro - continua Scalfari - che Berlusconi non ha fatto... in quel caso, nel caso di partecipare, di mettere in piedi una cordata. Berlusconi non ha fatto nulla di illecito, Berlusconi è solo un imprenditore». Agli atti del processo vi è poi il clamoroso interrogatorio dell’allora ministro dell’Industria, Renato Altissimo, che al giudice racconta dei rapporti tra Prodi e De Benedetti nell’appalto per la Sme: «Un gruppo americano si disse interessato all’acquisto della Sme, così chiamai l’allora presidente dell’Iri, Prodi, e glielo feci presente. Prodi mi escluse categoricamente che la Sme, pezzo pregiato dell’Iri, sarebbe mai stata venduta. Poi quando pochi mesi dopo De Benedetti mi chiamò per comunicarmi che aveva preso la Sme, parlai nuovamente con Prodi. Ero decisamente sorpreso. Gli dissi perché a Carlo De Benedetti sì e agli altri no, e lui mi rispose secco: “Perché Carlo ha un taglietto sul pisello che tu non hai”...». (il Giornale)

mercoledì 2 settembre 2009

Europa e giornali, Berlusconi picchia tutti. Salvatore Tramontano

L’estate della Perdonanza è terminata. Il Cavaliere è tornato, ma se volete capire dove stia andando, dimenticatevi le regole convenzionali. Da quindici anni, ogni volta che il premier si abbandona a un’esternazione fregandosene di quello che dicono i sacri parametri della prima Repubblica, tutti i commentatori profetizzano la sua fine. E invece è vero esattamente il contrario. Ogni volta che Berlusconi ha stupito i poteri forti e parlato alla pancia di questo Paese, mosse che altri consideravano suicide si sono rivelate salvifiche per lui. Ecco perché se volete capirlo dovete abbandonare il politicamente corretto e sfogliare l’album dei ricordi.
1993, dicembre. Una sala riunione di Arcore. Di fronte a un gruppo ristretto di opinion leader di cui fanno parte Gianni Letta, Giuliano Ferrara, Enrico Mentana, Fedele Confalonieri, Maurizio Costanzo, Berlusconi annuncia che non farà quello che tutti si aspettano da lui (ovvero sostenere il Patto di Mario Segni) ma che fonderà lui stesso un partito. Vale la pena rivivere quella scelta con le parole di chi c’era. Gianni Letta disse: «Sono contrario». Per Maurizio Costanzo «è un errore». Enrico Mentana profetizzò che l’avrebbero fatto a pezzi. Lui andò diritto, pronosticò il 30%, prese poco meno. Secondo atto. Agosto del 1999. Il governo D’Alema approva il decreto sulla par condicio. Tutti i soloni intonano il de profundis: il Cavaliere ha vinto grazie alle televisioni, ora che gli spot sono eliminati, svanirà nel nulla. C’erano già tonnellate di saggi che parlavano di dinamiche orwelliane su come gli elettori fossero stati indottrinati dalle battute di Ambra su Occhetto diavoletto. Tutti cantarono il requiem. Berlusconi noleggiò la nave azzurra. Senza spot e con lo strumento più antico vince le Regionali e mette al tappeto Massimo D’Alema. 2006, ultimo atto la campagna contro Prodi. Tutti dicono che il governo è in crisi, quasi tutti i sondaggi lo certificano a meno 8: Berlusconi si presenta sul palcoscenico di Confindustria, sconfessando la sua nomenclatura, raccoglie l’ovazione del popolo degli imprenditori e per pochi voti non vince un’elezione già persa.
Il Berlusconi di Danzica va letto alla luce della sua storia. Ogni volta che il Cavaliere ha sconvolto il luogo comune ha ritrovato vitalità nella dissacrazione e nella rottura dei codici convenzionali. Berlusconi è quello che nel pieno dello scandalo ristabilisce il contatto con il suo popolo: non sono un santo, gli italiani mi conoscono e mi accettano come sono. Berlusconi è quello che quando tutti gli dicono di cospargersi il capo di cenere per le rivelazioni di un’escort dice: non cambierò. Forse sarà il caso di ribaltare il punto di osservazione della sinistra, proprio perché i suoi leader si sono omologati ai dettami del palazzo. Berlusconi sale sul predellino, Bertinotti entra nel salotto dell’Angiolillo.
Cosa è successo ieri? Parlando come nessun presidente del Consiglio avrebbe mai fatto prima e mai farà dopo di lui, Berlusconi ha osato criticare la sacralità felpata e revisionista del Corriere, si è ribellato ai tecnocrati di Bruxelles e si è fatto beffe dei diktat della stampa progressista e inquisitoria. Ma è proprio la capacità di andare contro i dettami di eurocrati di Bruxelles che mantiene i ceti popolari lontano dal radicalismo della Lega, e proprio la capacità di contestare i dogmi dei grandi giornali borghesi che lo rendono ancora seducente per i ceti modernizzatori e produttivi del Nord-est. È il suo rifiuto di un finto bipolarismo basato sulla subalternità all’avversario e ai propri giornali che ha cementato i moderati cattolici e gli ex antagonisti di destra che oggi si riconoscono nel suo partito. Quindi, se volete capire Berlusconi, non fate come Gianfranco Fini, l’ultimo a caderci con la storica sentenza: «Siamo alle comiche finali». Salvo poi rimangiarsi tutto per salire in corsa sul predellino del Cavaliere. (il Giornale)

lunedì 31 agosto 2009

Laici baciapile. Davide Giacalone

Eccoli lì, i falsi laici, pronti a dar prova di pochezza. Ieri tuonavano contro l’asservimento del centro destra ai dettami vaticani, ora sgranano il rosario ad una festa voluta da Celestino V. Cui Dante dedicò una definizione feroce: “colui che fece per viltate il gran rifiuto”, non riferendosi certo alla mancata perdonanza. C’è tanta gente, in giro, che è nata chierichetto, salvo passare la vita a cercare un dio in cui credere ed un parroco da servire.
Quando le gerarchie cattoliche intervengono, sulla procreazione assistita o sul fine vita, scatta subito l’accusa d’ingerenza. Molti democratici confusi sono cultori inconsapevoli della teoria mussoliniana: la chiesa ha diritto ai soldi e all’autonomia, ma non a far politica. La scuola laica, quella vera, con pochi alunni, la pensa diversamente: dicano pure quel che pensano, e cerchino di farlo valere, anche rivolgendosi ai parlamentari che si professano cattolici. Per noi, questa, è l’essenza stessa della democrazia. Del resto, correva il lontano anno 1974 quando la maggioranza degli elettori, in un Paese che si dice quasi tutto cattolico, fece marameo ai dettami provenienti dal cupolone.
Non c’è ingerenza, se i prelati manifestano opinioni, anche con forza. Non c’è offesa alla religione, se si risponde loro dissentendo, anche con forza. L’Avvenire, quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, paragonò la politica verso l’immigrazione alla persecuzione nazista degli ebrei. Un’inquietante cretinata, un’offesa alla storia ed al presente. L’ho scritto, chiaro e tondo, senza tirare in ballo questioni di fede.
In quanto alla privacy, è stata tirata in ballo (da Berlusconi) a sproposito. Se si fosse scritto sui costumi sessuali, di questo o di quello, avrebbe ragione, ma una sentenza, come anche un patteggiamento, non hanno nulla di privato e riservato, sono pubbliche. Per definizione. Può sembrare strano, in questo Paese di trasformisti, ma noi opinionisti siamo tenuti alla coerenza, altrimenti siamo solo sparaballe a pagamento. Se un Tizio tuona per la moralità e poi patteggia per molestie è bene che il lettore lo sappia. Ci guadagna, almeno, il buonumore.
Anche questo (triste) episodio passerà, magari con qualche penitenza, ma resta l’arretratezza culturale di chi credere, a seconda dei casi, che sia laico far tacere i vescovi, e sia segno di moralità baciar loro la pantofola.

Tornano i professionisti della firma anti Cavaliere. Paolo Granzotto

Qualcosa di nuovo, a ben vedere c’è. Il titolo: «L’Appello dei Tre Giuristi». Niente di drammatico, non si sentono digrignare i denti come ai vecchi tempi. «L’Appello dei Tre Giuristi» ricorda piuttosto certi generi di consumo anni Cinquanta, «L’acqua dei Tre Frati», il «Torrone delle Tre Marie». Si vede che a Largo Fochetti la cosa l’ha studiata l’ufficio marketing, scegliendo un brand decoroso e domestico, diciamo pure casereccio. Da ceto medio consapevole. E qui finiscono le novità: siamo un popolo spasmodicamente impegnato nel sociale, ma impegnato in modo sedentario, molto a parole e pochissimo nei fatti. Se dunque si presenta un’occasione facile facile - qualcosa da firmare, ad esempio - per manifestare concretamente l’impegno, si firma. Ancor più oggi che non ci si deve nemmeno scomodare per raggiungere il banchetto. Lo si fa dal tinello di casa, via Internet. Nome e cognome, cliccare su «invia» ed è fatta. La coscienza democratica è a posto e si può tornare a cuor leggero al prediletto Facebook. A Repubblica gongolano: sono già novantamila le firme apposte all’«Appello dei Tre Giuristi» - che sarebbero poi i notori Franco Cordero, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky - in difesa della minacciata (minacciata da Berlusconi, e da chi altri, sennò?) libertà di stampa. Come a dire: abbiamo fatto il pieno. Ieri, poi, ci hanno aggiunto un carico da dodici, titolando che ha firmato anche Celentano. Il Molleggiato. Una delle coscienze critiche, par di capire, della nazione. Anche in quel titolo si sente la mano dell’ufficio marketing. Celentano «tira», devono essersi detti, è un buon testimonial. Come specchietto per le democratiche allodole vale mille Rosebindi, diecimila gnagnere alla Ignazio Marino e dunque sfruttiamolo.

Dove non sono state fatte concessioni alla frivolezza è nel testo dell’«Appello dei Tre Giuristi». Roba tostissima che tira in ballo perfino la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Che tira in ballo i «regimi illiberali e antidemocratici del secolo scorso» (cosa non si fa per non nominare il comunismo! Si rinuncia perfino a quell’asso di bastoni che è il nazifascismo). Si arriva ad accusare il Cavaliere di voler isolare Largo Fochetti - dicesi Largo Fochetti - «dalla circolazione internazionale delle informazioni», minaccia che a mio sommesso parere deve aver allarmato in particolar modo Celentano. Si mazzòlano ben bene i «giuristi» che essendo disposti a dare «forma giuridica» alla causa per diffamazione promossa da Berlusconi, non solo non sono nemmeno degni di lustrare le scarpe a Cordero, Rodotà&Zagrebelsky, ma minano «la stessa serietà e credibilità del diritto» medesimo. Perché non si fa causa alla Repubblica e chi la fa lo fa solo per «ridurre al silenzio la stampa libera» (libera da chi?) e per «anestetizzare l’opinione pubblica». Dabbenaggini, ancorché dotte, ancorché di penna dei Tre Giuristi, che probabilmente e salvo Celentano i firmaioli nemmeno hanno letto. I firmaioli, e questo da sempre, firmano senza indugio quel che c’è da firmare e alé (quanti di coloro che sottoscrissero l’appello contro Calabresi dissero poi, molto poi, di non aver capito, di non aver interpretato bene, d’esser allora giovani e quindi bamba?). Quel che lì per lì a loro importa è partecipare al rito collettivo, una sorta di onanismo ideologico di gruppo, probabilmente liberatorio, chissà. In quanto a noi, tocca aspettare fino a domani per sapere se ha firmato anche Pupo. Stiamo sulle spine. (il Giornale)

giovedì 27 agosto 2009

Berlusconi: Ghedini, brani libro Latella privi di fondamento.


Roma, 27 ago. (Adnkronos) - ''Alcuni brani di un libro di Maria Latella, apparsi quest'oggi sul sito di Repubblica e ripresi da molti quotidiani esteri, sono destituiti di ogni fondamento, totalmente inveritieri, scollegati da ogni fatto reale e frutto di valutazioni basate su erronee informazioni. Si diffida percio' chiunque dal riprendere o diffondere tali notizie''. Lo sottolinea in una nota Niccolo' Ghedini (Pdl), avvocato del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.
"A tutto cio' -continua Ghedini- si aggiunga l' intervista a Tinto Brass le cui domande e risposte appaiono palesemente diffamatorie e per cui saranno esperite le azioni giudiziarie piu' opportune. Ancora una volta - conclude- si cerca con il gossip, nella totale carenza di serie argomentazioni politiche, di screditare, ancorche' senza successo visto il gradimento dell'elettorato, il presidente Berlusconi".

mercoledì 26 agosto 2009

Dieci (o quasi) domande a Fini. Maria Neve di Sommojano

Avrei voluto intitolare questo pezzo “dieci domande a Gianfranco Fini”. Non so perché, mi piaceva, mi sembrava originale. Poi però mi sono accorto che non arrivavo a fare proprio dieci domande, ma solo qualcuna. Allora ho pensato di lasciar decidere il titolo agli amici de L’Occidentale.

Comunque le domande sarebbero: se un leader del centrodestra finisce per riscuotere ovazioni solo tra la gente del centrosinistra, cosa vuol dire? Se un leader del centrodestra viene accolto come il salvatore della patria alla festa del PD, cosa vuol dire? Se quelli del sinodo valdese dicono che prima invitavano Violante e adesso Fini, cosa vuol dire? Se uno fa il Presidente della Camera, deve per forza di cose dar contro alla maggioranza che lo ha eletto? Vero che una posizione istituzionale ha le sue esigenze di imparzialità, però questo equivale necessariamente, programmaticamente, a mettersi di traverso al Governo? Nessuno pretende ormai da Fini che egli dica cose “di destra”, ma perché – se è neutrale – deve dire cose “di sinistra”? E poi, perché mettersi a ripetere le banalità del politically correct, tipo “i nostri emigrati di un tempo sono come gli immigrati di oggi”? Come se i poveri minatori italiani morti a Marcinelle fossero paragonabili a certi tangheri che vengono da noi a sfruttare la prostituzione minorile.

Insomma, io non ho capito bene: se Fini aspira a prendere la successione di Berlusconi, perché non fa chiaramente politica dentro al pdl? Proprio lui che ha traghettato un partito dal ghetto al Governo dovrebbe sapere che in politica ci si muove “armi e bagagli” e con una certa lentezza, perché si tratta di portarsi dietro la propria gente, che è lenta a capire le evoluzioni della politica e restia a seguirle. Invece tutti questi strappi… Dice che dietro c’è una precisa strategia: puntare al Quirinale.

Ma anche qui non capisco e faccio due domande. Se al momento buono (più lontano possibile, per carità, perché io Napolitano me lo terrei stretto stretto) c’è ancora una maggioranza pdl che lui ha fatto in buona parte incazzare, spera davvero che lo voterebbero contenti? E invece, se ci fosse una maggioranza diversa (tipo D’Alema-Casini, con un trionfante sistema elettorale alla tedesca), perché dovrebbero mandare al Colle quello che resta pur sempre un avversario storico?

Insomma, proprio non capisco. Qualcuno può illuminarmi? (l'Occidentale)

Che ridere la sinistra anti dittatori. Mario Cervi

Esiste, per gli italiani e per il governo italiano, un problema Gheddafi. Giusto affrontarlo, senza reticenze, nelle sedi politiche e nelle sedi giornalistiche. Purtroppo la polemica ha subito preso una brutta piega. In ossequio a una strategia - si fa per dire - tutta fondata sull’attacco a Berlusconi, l’opposizione gli rimprovera la grave colpa d’intrattenere relazioni cordiali con il colonnello libico.
Con un disinvolto «salto della quaglia» - per usare il linguaggio togliattiano - la sinistra italiana diventa paladina della più intransigente moralità internazionale: ossia d’una politica estera e d’una diplomazia che, trascurando esigenze di buon vicinato e rapporti economici di grande rilievo, siano improntate al rifiuto d’ogni contatto con gli «uomini forti».
Possiamo capire queste impennate puriste se vengono dai radicali, che in proposito hanno una tradizione nobile, e che sempre hanno anteposto l’ideale astratto - diciamo pure l’utopia - al doveroso pragmatismo di chi voglia reggere saggiamente le sorti d’un Paese. Ma quando la lezione sulle frequentazioni lecite e su quelle illecite arriva dai pulpiti della sinistra, diventa difficile trattenere l’ilarità, o l’indignazione.
Se la sono presa, da quelle parti, con i pochi dittatori di destra - Franco, Salazar, i colonnelli greci, Pinochet - ma con la numerosissima schiera delle dittature colorate di marxismo è stato ed è tutto un idillio. Da Stalin al tuttora vivente benché poco operante Fidel Castro, non c’è stato leader «rosso» che non sia stato gratificato di elogi sperticati. Un feroce despota come l’etiope Menghistu ebbe apprezzamenti. Durante gli anni in cui la Libia figurava - in prima fila - tra gli «Stati canaglia», la sinistra non si stancava di rievocare atrocità vere e presunte del colonialismo italiano. Fu perfino coniata - per legittimare questi servilismi - la distinzione tra democrazia formale e democrazia sostanziale. La prima vivacchiante in Occidente, la seconda fiorente a Est o nei Paesi africani di nuova indipendenza. Poi s’è visto chi avesse ragione. Adesso nel parterre ideologico che ammirò Ceausescu e Honecker si grida allo scandalo per Gheddafi. «Ma mi faccia il piacere» diceva Totò.
Ci sono molte buone ragioni per non tenere in nessun conto l’ipocrisia di questi sacerdoti della democrazia da nessuno consacrati. E ce ne sono moltissime a conforto della tesi di Berlusconi e dei suoi ministri: secondo cui i gesti d’amicizia verso il raís danno e daranno frutti copiosi in termini di lotta all’immigrazione, di cooperazione economica, di forniture energetiche. L’assicurarci petrolio e gas per i prossimi decenni può ben meritare, si osserva, l’invio delle Frecce Tricolori - molto richieste all’estero - per una esibizione davanti al Colonnello.
Tutto vero. Anche se Gheddafi, diciamolo con franchezza, non fa del suo meglio per agevolare il compito di chi lo ha in simpatia. Non lo fa nel frivolo, eccedendo in smargiassate teatrali; non lo fa nel molto serio, riservando accoglienze trionfali all’attentatore di Lockerbie che gli scozzesi hanno liberato. Berlusconi ha deciso, diversamente dal principe Andrea d’Inghilterra, che il programma già fissato - visita sua a Tripoli e Frecce Tricolori - debba essere onorato. La decisione gli spettava, e l’ha presa secondo coscienza. Ha chiuso, speriamo per sempre, un contenzioso che si trascinava da oltre mezzo secolo, e che i governi di sinistra non sono mai stati capaci di risolvere (e mai hanno pensato di rompere le relazioni con Gheddafi al tempo delle sue minacce antioccidentali, si accorgono di quanto sia infido solo dopo che si è convertito). Gheddafi non è né un campione di democrazia né un campione di simpatia, ma nessuno avrebbe ringraziato Berlusconi se, facendo oggi la faccia feroce, avesse domani lasciato gli italiani senza risorse energetiche. Posso a questo punto esprimere la mia perplessità per l’affermazione di Renato Farina secondo il quale, avendo l’Italia la democrazia ma anche l’aborto, avendo la Libia la dittatura ma non l’aborto, è pari e patta? (il Giornale)

martedì 25 agosto 2009

La forza micidiale del Cav.

Altro che la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto del '94. Il duo Maurizio Belpietro (Libero) e Vittorio Feltri (Il Giornale) è una potenza di fuoco che il Cavaliere ha messo in piedi in questa torrida estate per sbaragliare i cosiddetti poteri forti. Primo la famiglia Agnelli, proprio quella di un certo Luca Cordero di Montezemolo che spesso viene indicato come possibile premier di un governo di salute pubblica o bipartisan. Libero ha pubblicato una serie di esclusive che hanno sgonfiato le ruote al Lingotto, tanto che non si sa più chi sia il vero padrone della principale azienda privata italiana.

Seconda bomba. Affidata al bergamasco Feltri, neo-direttore de Il Giornale, che ha messo nel mirino l'Ingegnere per i suoi presunti rapporti con l'Unione Sovietica, tanto da ricevere i complimenti del Presidente emerito Francesco Cossiga. Un uno-due micidiale per mettere al tappeto quei poteri che possono minare Palazzo Chigi. Altro che congresso del Pd... i pericoli per il Cav arrivano da altri fronti. Silvio lo ha capito e ha schierato l'artiglieria pesante...(Affaritaliani.it)

lunedì 24 agosto 2009

Nuova prudenza alla procura di Torino. Davide Giacalone

Secondo la procura di Torino, circa il miliardo e più di soldi che Gianni Agnelli sembrerebbe avere accumulato all’estero, “non si è a conoscenza di ipotesi o elementi di reato”. Il che segna un grande salto, di cultura e prassi, per un ambiente giudiziario fortemente influenzato da uomini e caratteri forti, come quello di Marcello Maddalena, autore di un non dimenticato libro, “Meno grazia più giustizia”, nel quale si tessevano le commosse lodi della galera preventiva, intesa come sistema per sollecitare le confessioni, si descriveva il pubblico ministero come “unico portatore dell’interesse dello stato (…) a vedere scoperti e puniti gli autori dei reati”, e si guarda con tenerezza ai processi in piazza, fatti dalla “gente”, convinta che l’accusato sia effettivamente colpevole, o come quello di Raffaele Guariniello, che si è eletto a vigile guardiano nazionale della sofisticazione e della frode sportiva. Sicché vederli oggi, attestati a difesa della necessità che ci si vada con i piedi di piombo, prima di mettere nei guai un cittadino, chiunque egli sia (spero), desta un certo compiacimento. Ben arrivati.
Gliecché, però, un dubbio ci assale. L’ipotesi che qualcuno stesse facendo sparire una somma gigantesca non è stata formulata da un pubblico ministero, o da un agente del fisco, o da un vicino invidioso, bensì da un legittimo erede, l’unico figlio vivente di colui che ebbe quelle somme nella propria disponibilità. E, stando a quanto abbiamo letto in questi mesi, i curatori fiduciari di quell’esecuzione testamentaria hanno sempre risposto non che la supposizione sia folle, bensì di avere agito secondo le istruzioni ricevute. Ora, pur considerato che si tratta di gente ricca, che, pertanto, l’entità delle cifre deve essere parametrata alla consuetudine nel maneggiare somme considerevoli, resta il fatto che più di un miliardo di euro non si accumula grazie a qualche prestazione professionale non fiscalizzata, o in virtù di qualche generosa liberalità. E visto che il soggetto accumulante aveva cariche di vertice in una società quotata, il minimo della fantasia accusatoria suggerisce diversi reati, relativi alla trasparenza del bilancio ed alla regolarità dei rapporti con il mercato. Maneggiando quel tir di denaro, inoltre, si fa fatica a parcheggiarlo senza dare nell’occhio, spendendo il necessario per qualche umano vizio ed accumulando il resto per i posteri (ma non per gli eredi, la qual cosa, già di suo, sollecita qualche sospetto).
Diciamo che, in altre circostanze, con altri soggetti e con altri poteri la procura avrebbe fatto sapere all’universo mondo di avere, nel più sereno e pacifico dei casi, “acceso un faro”. Più probabilmente avrebbe chiesto lumi, già abbagliata dall’evidenza che i conti non tornano.
Naturalmente può ben darsi che sia tutto a posto e che l’amministrazione aziendale non abbia alcunché da rimproverarsi. Ne saremmo felici. Però, in questo caso, si dovrebbe presentare il conto all’erede esoso ed azzardoso, che con le affermazioni fatte ha lasciato intendere che potevano essere state sottratte ingenti ricchezze ad una società quotata in Borsa e utilizzati per fini d’arricchimento illecito gli aiuti di Stato (quindi con i soldi dei cittadini) forniti ad una nota impresa.
A ben vedere, pertanto, qualche “ipotesi” e qualche “elemento” su cui ragionare non mancano. Magari manca l’entusiasmo popolare che tanto giovò all’umore di certi procuratori, ma troveranno ugualmente la forza, ed il senso del dovere, per pensarci.

Le falsità dei moralisti da pantano. Vittorio Feltri

Addirittura due pezzi in prima pagina su altrettanti quotidiani, la Repubblica e il Manifesto, dedicati alla mia trascurabile persona colpevole di essere tornata alla direzione del Giornale che ha un difetto imperdonabile: appartiene alla famiglia Berlusconi. Il noto moralista dell’ultima ora, Giuseppe D’Avanzo, sul quotidiano di San Carlo De Benedetti sfodera nell’occasione una figura retorica per lui nuova: l’ironia. Dimenticandosi che questa è un’arma pericolosa se maneggiata senza perizia; può uccidere chi la usa e non chi dovrebbe esserne colpito. Il lettore frettoloso, come la maggioranza dei lettori, bevendosi la prosa di D’Avanzo non capisce se è di fronte a un paradosso, cioè a una verità acrobatica, o a qualcosa da prendersi alla lettera. Intendiamoci, lungi da me il desiderio di criticare lo stile dell’insigne editorialista: semmai voglio segnalare che il mio censore, nell’impegno del suo esercizio, perde di vista la realtà e mi attribuisce concetti mai espressi nel fondo d’esordio. Un esempio.

Nel riportare una mia frase allo scopo di sottolineare quanto sono cretino, sbaglia. O imbroglia?

Io avevo battuto: «Fosse dimostrato che l’Avvocato Agnelli non era quel gran signore lodato, imitato, indicato da tutti quale modello, ma un furfante...». D’Avanzo invece modifica e virgoletta: «Questo furfante di un Agnelli, scrive Feltri, ha sottratto soldi al fisco...».

Vi sembra un modo corretto di polemizzare o non piuttosto la manipolazione di un testo, la distorsione del pensiero altrui a fini speculativi?

Un altro punto prova la malafede dell’articolista progressista.

Nel mio pezzo osservavo: non è giusto condannare un personaggio prima della sentenza. Peccato che mentre per Agnelli questo principio è stato rispettato, per Berlusconi no. Ebbene, secondo D’Avanzo, Feltri «decide di liberarsi di quell’inutile fardello che è il garantismo, favola buona soltanto per il Capo e gli amici del Capo, e picchia duro, durissimo» (su Agnelli). Esattamente il contrario di quanto ho affermato.

È incredibile come la Repubblica pur di attaccare un avversario arrivi a stravolgerne completamente le idee, falsificando con spudoratezza perfino le sue parole stampate. Come si fa ad aver fiducia di giornali così? Tra l’altro, per criticare me non c’è bisogno di inventare, caro D’Avanzo; non occorre spremersi la fantasia, basta un po’ di intelligenza. Coraggio, puoi farcela anche tu. Ma non devi più elencare tutte le presunte malefatte di Berlusconi; non serve perché da quindici anni voi non parlate d’altro e la giustizia milanese non fa che organizzare in proposito inchieste e processi dall’esito nullo. Già, nullo. E non dire che ciò è dipeso e dipende dal lodo Alfano, in vigore da un anno soltanto.

Quanto alle presunte menzogne del Cavaliere, finché riguardano corna e similari non ne tengo conto: non ho i titoli né la fedina sessuale adatta per impancarmi a giudice. Lascio a te, che sei puro come un giglio, questo compito.

E veniamo al Manifesto. Che ieri ha pubblicato un corsivo dal titolo: «Feltri, a Papi serve l’Avvocato», nel quale fra una spiritosaggine e un’altra, difende come si conviene a un giornale comunista la memoria offesa del capitalista Gianni Agnelli. Il pezzo si conclude con una trovata geniale: «... prendersela col padrone morto per salvare l’utilizzatore finale vivo. Ma senza megafono, mi raccomando».

Manca un particolare: il padrone è morto, ma i suoi soldi sono vivi e gli eredi si scannano per intascarli, fisco permettendo.

Per concludere, una carezza, anzi due, a Travaglio che firma per la trecentesima volta lo stesso articolo su di me. Lo sfido a pescare nella mia non esigua produzione giornalistica una frase con la quale abbia chiesto scusa a Di Pietro.

Seconda carezza. Se è vero che la questione fiscale relativa al patrimonio dell’Avvocato è già stata appianata a metà degli anni Novanta, perché Margherita Agnelli l’ha scoperta solo adesso? E perché l’Agenzia delle entrate se ne interessa tanto?

Chiedo scusa ai lettori per aver inflitto loro questo pistolotto, ma è bene si sappia che il Giornale non è uno zerbino per le scarpe sporche di chi cammina nel pantano. (il Giornale)

martedì 4 agosto 2009

A Bologna la strage continua. Davide Giacalone

Potremmo fissare al 2 agosto la ricorrenza nazionale della guerra civile, con annessi festeggiamenti dell’ottusità e della faziosità. Ogni anno, quel giorno, si corrompe la storia e si ripete lo stanco rito dello scontro fra fantocci, che s’immaginano protagonisti e sono, invece, comparse secondarie. L’anno prossimo saranno trent’anni, da quando una bomba fece strage di vite innocenti, mietendo 85 morti alla stazione di Bologna. Da allora ad oggi non s’è fatto un solo passo in avanti.
La vicenda giudiziaria è chiusa, condannando all’ergastolo i fascisti che posizionarono la bomba. Ma la sentenza non regge. Somiglia ad un atto notarile, che assevera la pista nera, fin da subito indicata come l’unica politicamente digeribile. Con una doppia ingiustizia: i condannati sono colpevoli di altri, gravissimi, reati, ma non di questo; in compenso sono liberi, dopo avere scontato una pena che, all’evidenza, non è quel che nel vocabolario si chiama ergastolo. E dato che la sentenza è sbilenca, al punto da mancare del movente, la mitologia vuole che la strage sia fascista ed i mandanti occulti, vale a dire annidati nello Stato e nei servizi segreti, manco a dirlo “deviati”.
Così, ogni anno, si monta il palco e si da fiato alla retorica del quasi nulla, ma sempre inscenando la commedia della guerra civile: un presunto popolo che invoca giustizia contro i fascisti, e presunte autorità che dovrebbero sentirsi in colpa perché ancora coprono l’orrenda trama che costò tante vite. Le autorità sono presunte, e fasulle, perché se fossero realmente tali riuscirebbero a capire che trenta anni dopo, se si vuol fare qualche cosa di utile, non si aspetta il 2 di agosto, ma si aprono gli archivi. Se, come penso, non si possono aprire, giacché quello fu uno degli episodi che stanno dentro la storia della guerra fredda, ed anche del doppiogiochismo italico, ugualmente non si aspetta il 2 agosto, si parla prima e dopo, ma si tace il giorno della commemorazione.
Anche il popolo, però, non scherza, in quanto a passione per la realtà taroccata. Oggi tengono banco le proteste per il ritorno in libertà dei condannati, ma che senso ha pensare che la memoria dei morti sia maggiormente rispettata se in galera rimangono quelli che non c’entrano ed a spasso restano quelli che li hanno ammazzati? Non solo i parenti delle vittime, ma la società civile tutta dovrebbe reclamare un verdetto che somigli un po’ di più alla verità, non incaponirsi a ritenere sacra una falsità. Certo, è giusto pure reclamare la certezza della pena, ma, anche qui, vale la pena osservare che ai due assassini fascisti è stato riservato un trattamento rigoroso sconosciuto nel caso di altri appartenenti a bande armate, che “pentendosi” hanno ripreso in fretta la vita da liberi. E sconosciuto ad altri carnefici, spesso protagonisti di storie brutali.
Fioravanti e Mambro se la sono meritata tutta, la galera che hanno fatto, ma la loro condotta processuale è stata lineare, il loro racconto non s’è deviato per cercare benefici. Le loro parole sono state convincenti, mentre è la coscienza collettiva a mostrarsi reticente. Maniacalmente appiccicata a verità di comodo.
Siccome la commedia si ripete sempre uguale, sorge il dubbio che i protagonisti ne godano, riaffermando ciascuno la propria identità. E’ doveroso, quindi, avvertire che tanto chi sale sul palco per non dire niente, quanto chi fischia senza avere niente in testa, compartecipano dell’insulto alla memoria. Sia quella collettiva, storica, che quella dei morti.

lunedì 3 agosto 2009

Per i fischi di Bologna non è Bondi a doversi vergognare. Carmelo Palma

I processi per la strage di Bologna si sono conclusi , tra i 15 e i 20 anni dopo, con una serie di sentenze che hanno ufficialmente suffragato una “verità ufficiale” non solo verosimile, ma in qualche modo obbligata.Quella di Bologna è stata infatti, fin da subito, una due-punti-aperte-le-virgolette “strage fascista, coperta da apparati deviati dello Stato e ordinata da una centrale politica interessata alla destabilizzazione del paese, per sbarrare il passo al PCI”. Lo è stata in modo così certo e storicamente consolidato che ha finito per esigere conferme giudiziarie, ben prima di trovarne, e di dettare i tempi, i modi e le parole d’ordine di quella retorica della memoria che nel nostro paese ha spesso sostituito la memoria, così come la propaganda storica ha finito col sostituire la storia.

Ciò non significa ovviamente che nella ricostruzione dell’Associazione dei parenti delle vittime e dei partiti della sinistra non vi fossero elementi di verità; né si può negare che una interpretazione “nazionale” della strage appare, ancora oggi, più plausibile di quella “internazionale” che qualcuno ha voluto suggerire. Eppure, queste tesi non costituiscono, necessariamente, “tutta la verità” per il solo fatto di essere sostenute da quanti serbano personalmente e testimoniano politicamente la memoria della strage.

Santificare un esito processuale che complessivamente condanna esecutori e depistatori, ma tiene nell’ombra i mandanti può essere molto comodo per descrivere ogni sorta di scenario complottistico, ma non molto utile quando si vuole rileggere criticamente la storia di un paese e il suo, certamente torbido, passato. Su questi come su molti altri processi chiamati impropriamente a confermare o a smentire una verità politica, i dubbi, per così dire, si sprecano: almeno agli occhi di chi ritiene che un processo non sia la sede in cui si stabilisce la “verità” su di un fatto, ma si verifica semplicemente se le prove raccolte contro gli imputati ne giustifichino la condanna oltre ogni ragionevole dubbio.

Non sono pochi infatti ad avere ritenuto quantomeno controversa la sentenza che ha condannato Giusva Fioravanti e Francesca Mambro come esecutori materiali, dopo un processo che porta il marchio di stile dei processi emergenziali. Non sono pochi ad avere pensato che Fioravanti e Mambro fossero più la dimostrazione di un teorema, che due imputati sottoposti ad un processo normale: colpevoli troppo “giusti” per essere assolti, ma anche troppo perfetti per essere veri.

D’altra parte la storia giudiziaria italiana, e non solo quella legata al terrorismo, è una lunga catena di cortocircuiti tra storia, politica e giustizia. Chi si è trovato a negare la fondatezza di una condanna per mafia emessa, o di interi processi per mafia istruiti per “pentito dire”, è stato giudicato un negazionista del fenomeno mafioso, se non un complice della mafia. Chi oggi volesse negare la plausibilità della condanna di Fioravanti e Mambro o, per altro verso, di Sofri, verrebbe considerato dalle “curve” nord e sud del giustizialismo politico italiano un negazionista delle responsabilità del terrorismo nero e rosso.

Non c’è dubbio che la strage di Bologna ha sfregiato una città, che se ne è sentita minacciata e attaccata anche nella sua identità politica. In questo quadro, è comprensibile che attorno alla memoria della strage, 29 anni dopo, ci sia ancora un tale concentrato di dolori personali, di rancori politici, di pregiudizi ideologici e di “opacità” istituzionali da rendere incandescente la sensibilità di chiunque vi si avvicini. Ed è anche comprensibile che la piazza continui a nutrire diffidenza e sospetto verso quanti, 30 anni fa, avevano responsabilità nelle politiche di ordine e sicurezza pubblica del paese.

Ma quanto è successo ieri a Bologna non c’entra niente con tutto questo. Trasformare la commemorazione della strage in un tiro al bersaglio contro il rappresentante del governo “nemico” significa solo lordare gli stessi nobili presupposti dell’indignazione morale. Agitare bellicosamente la memoria delle vittime contro il Ministro Bondi, zittirlo e denigrarlo, come se l’attuale esecutivo rappresentasse la continuità storica, politica e ideologica dei “carnefici” significa davvero usare i morti per dare addosso ai vivi, iscrivere abusivamente il corpo e la storia di persone morte quasi 30 anni fa nella lotta di resistenza contro il “nemico berlusconiano”, cioè contro un fenomeno politico che, comunque lo si voglia giudicare, non appartiene a quella fase della storia della Repubblica in cui erano maturati i presupposti e i protagonisti del terrorismo e dello stragismo.

La richiesta di accertare fino in fondo la verità sulla strage non può essere minacciosamente agitata – come una forma di implicita accusa – contro un ministro che nell’80 aveva vent’anni ed era comunista, e che partecipa oggi di un esecutivo composto da partiti e da una classe dirigente che nell’80 non si erano neppure affacciati alla vita politica. Soprattutto questa richiesta/accusa non può essere usata oltraggiosamente nei confronti dei ministri “berlusconiani”, dopo essere stata, ad esempio, graziosamente risparmiata a quanti negli anni in cui è maturata la strage e i depistaggi accertati dalla magistratura, e poi negli anni immediatamente successivi, hanno ricoperto i ruoli di vertice nel sistema della sicurezza nazionale, come i Ministri degli interni Rognoni (dal 1978 al 1983) e Scalfaro (dal 1983 al 1987): due che la stessa sinistra che ieri berciava ignobilmente contro Bondi, o ne giustificava ancora più ignobilmente il linciaggio morale, ha mandato l’uno al vertice del Csm e l’altro al Quirinale e che ha infilato nel proprio pantheon ideale per la loro – guarda un po’ – militanza anti-berlusconiana. (Libertiamo)