lunedì 8 febbraio 2010

Frittatone giudiziario. Davide Giacalone

Adesso s’accorgono che combattere la mafia aumentando le pene è una sciocchezza. Peggio, un boomerang. Noi lo avevamo scritto, chiaro e tondo. Ora, per rimediare allo sconquasso generato da una sentenza della Corte di cassazione, reclamano tutti, da Pierluigi Bersani al procuratore Pietro Grasso un decreto legge. Ma non sostenevano che mai e poi mai si può correggere una sentenza con una legge, figuriamoci poi con un decreto? E c’è di più: di giustizia parlano e straparlano tutti, ma in cinque anni non s’erano accorti, ‘sti scienziati di politiconi e supertoghe, che la casa stava loro crollando addosso, nel mentre litigavano sulla carta da parati. Osservate la scena, patetica, e traetene qualche lezione per il futuro.

Nel 2005 si discute e approva la così detta “legge Cirielli”, avversata, con impareggiabile monotonia, quale strumento cucito su misura di un imputato. La legge accorciava i termini della prescrizione, ma, per evitare che l’operazione favorisse anche chi è accusato di mafia, aumentava le pene per questi reati. Scrissi, mentre il Parlamento discuteva (si fa per dire): a. non sarà utile a salvare il supposto beneficiario; b. l’aumento delle pene è demagogico e controproducente, perché quel che serve è far funzionare un sistema processuale incriccato. La prima cosa s’è dimostrata esatta, sulla seconda eccedevo in prudenza.

Ciascuno di noi, se imputato, sarà giudicato dal suo “giudice naturale”, vale a dire un soggetto preordinato per legge, non scelto in quel momento. Per quasi tutti i reati si finisce davanti a un tribunale. Ma per i reati più gravi, intendendosi per tali quelli la cui pena massima è assai alta, fino all’ergastolo, si va davanti ad una Corte d’assise, dove siedono due giudici togati (di carriera) e sei giudici popolari (cittadini scelti per l’occasione). Aumentando le pene e moltiplicando le possibili aggravanti, nel tempo e con il prodigio ipocrita della Cirielli, i reati d’associazione mafiosa sono usciti dalla competenza dei tribunali e sono entrati in quelli delle Corte d’assise. Solo che, piccolo e increscioso particolare, nessuno se n’era accorto.

Con il varo del “pacchetto sicurezza”, e siamo a queste ore, si sono introdotti ulteriori inasprimenti della pena. Così si può sempre dire che, per diamine, si vuol essere durissimi contro la mafia. Un avvocato catanese (probabile discendente del più grande avvocato spagnolo, Massimo De La Pena), leggendo fra i commi, s’è accorto del busillis, l’ha fatto osservare al tribunale che ha rimesso la cosa in cassazione, e i supremi giudici hanno scodellato la frittata: passa tutto alle Corti d’appello, ricominciando da capo. A questo punto, gli stessi identici soggetti che un tre per due chiedono nuovi reati, nuove aggravanti e più severe pene, si sono messi le mani nei capelli e si sono accorti che tutti i processi in corso, per tale materia, vanno in pellegrinaggio presso il santuario dell’inesistenza. Allora corrono, con le braghe in mano, e reclamano un decreto legge. Lo avranno. Ma se lavorassero pensando alla giustizia, anziché a come utilizzarla per imbambolare il popolo bue, non si troverebbero in queste, imbarazzanti, condizioni.

Già che ci siamo, guardiamo anche ad un paio di sbobbe in cottura. All’inizio della settimana avevamo assistito alla radiazione del senatore Giuseppe Valentino dall’albo dell’ammissibilità. Il ministro della giustizia e quello degli interni avevano sentenziato che di quella roba non si sarebbe dovuto neanche discutere. Guardammo dentro e scrivemmo: siete sicuri? Valentino avrebbe voluto, per dirla in una pillola, che non basti la parola di qualche pentito per condannare un cittadino. Se li trovò tutti addosso, con l’aggravante della nostra eterodossia. Leggo, ora, che il capogruppo del centro destra alla Camera, Fabrizio Cicchitto, avverte che il problema è reale e va discusso. Evviva, c’è ancora qualche abitante, sul pianeta della ragionevolezza. Però, signori, parlatevi.

Il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, invece, notifica che la legge relativa al “processo breve” è su un binario morto. Non si farà, o si farà a babbo morto (o condannato). Un capolavoro, visto che il governo e la maggioranza pagano il prezzo di una legge sospettata d’essere ad uso personale, incassano un concitato via libera del Senato, ma poi si dividono e la lasciano languire nelle segrete di una commissione. Noi, però, lo avevamo scritto all’inizio, quando s’era in tempo per evitare l’errore: quella proposta era, a dir poco, mal concepita. Descrissi il perché. Non mi ripeto.

Dunque, mentre le toghe sindacalizzate portano esibizionisticamente a spasso la prima pagina della Costituzione, stampata bella grande, sperando che nel testo non abbiano messo anche le figure, in Parlamento ci si tira dietro i codici, usandoli quali oggetti contundenti. Della pretesa di starsene in Europa con una giustizia sub sahariana, non si occupa nessuno. Ma basta una Cirielli per campare di rendita e polemiche. Se noi alziamo il ditino e segnaliamo l’abbaglio, ci dicono di non scocciare e andare a giocare da un’altra parte. Ah, dimenticavo: quelli della sinistra giustizialista ci detestano perché siamo servi di Berlusconi, e quelli della destra ci avvertono che se continuiamo a rompere le scatole lo vanno a dire a Berlusconi. Più li guardo, più mi spiego come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto.

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