Ora che il fumo e la polvere si sono un po’ diradati dai molti campi di battaglia - Parlamento, piazze, mass media - forse si può cominciare a trarre qualche lezione da quello che è successo martedì, quando è fallito l’ultimo tentativo di disarcionare il Cavaliere.
La lezione più importante mi sembra questa: forse non vedremo mai la sconfitta politico-elettorale di Berlusconi. Dopo l’ultima, infruttuosa, sfida di Veltroni (elezioni del 2008), i tentativi di porre fine alla stagione del berlusconismo sono stati solo di quattro tipi, non propriamente politici: giudiziario, mediante i processi; mediatico, mediante le campagne di stampa; fisico, mediante il lancio di oggetti contundenti; parlamentare, mediante il passaggio all’opposizione di deputati e senatori di maggioranza. Né le dichiarazioni delle opposizioni dopo la sconfitta suggeriscono che, per il futuro, le vie privilegiate si discosteranno dalle solite: spasmodica attesa per il verdetto della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento, manovre di palazzo, imboscate parlamentari quotidiane. Il «vasto programma» dei principali leader di opposizione, infatti, si sostanzia essenzialmente in una sequela di annunci di guerra: ora ci divertiamo, aspettatevi un «Vietnam parlamentare», non potete fare niente se non trattate con noi.
Tutto ciò, a mio parere, allontana di molto l’eventualità che alle prossime elezioni vi sia un’alternativa credibile all’attuale centro-destra. E nondimeno il modo in cui il problema si pone nelle due opposizioni, quella di sinistra e quella del Terzo polo, è alquanto diverso. A sinistra il problema di fondo è la conclamata incapacità di un gruppo dirigente, ormai consunto dai propri riti e prigioniero della sua storia, di abbandonare rivalità interne, settarismi, riflessi condizionati, abitudini mentali, prima fra tutte quella di ragionare per alleanze e per formule astratte. Più che mai resta vero, quasi dieci anni dopo, quel che profeticamente ebbe a dire Nanni Moretti: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!».
Nel caso del Terzo polo, invece, il problema non è quello di costruire un’alternativa al centro-destra, bensì quello di correggerne l’evoluzione o, se preferite, di pilotare la nascita della sua variante post-berlusconiana. Il problema di Fini e Casini, non da oggi, non è solo (e forse nemmeno prevalentemente) il legittimo desiderio di succedere a Berlusconi, ma è il tipo di centro-destra che Bossi e Berlusconi hanno costruito intorno a sé stessi. Un centro-destra cui, non senza motivo, vengono rimproverati il populismo, lo scarso rispetto per le istituzioni, l’ostilità verso gli immigrati, la disattenzione per il Mezzogiorno, e infine di aver tradito la promessa di una «rivoluzione liberale». Anche se quest’ultimo rimprovero non può certo essere riservato a Bossi e Berlusconi (in passato i partiti di Fini e Casini sono stati ancora più statalisti e spendaccioni), è vero che la maggior parte dei rimproveri non sono infondati. Si possono condividere oppure no le ragioni di Fini e Casini, ma resta il fatto che la loro visione della politica, la loro idea di centro-destra, i valori che essi difendono, sono perfettamente ragionevoli. Meritano una discussione seria. Hanno tutto il diritto di aprire una riflessione.
È qui, però, che interviene una complicazione non da poco. La credibilità di Casini e quella di Fini sono del tutto diverse. Casini ha iniziato la sua battaglia da molti anni, fin da quando era Presidente della Camera (legislatura 2001-2006). Il suo comportamento, sia come terza carica dello Stato, sia come leader dell’Udc, è stato sempre corretto, e fondamentalmente leale verso gli alleati. Quando non è stato più in sintonia con Berlusconi, ha scelto di correre da solo, ed è stato all’opposizione sia contro il centro-sinistra sia contro il centro-destra. La sua opposizione è stata quasi sempre costruttiva. Le cose che dice ora le ripete da molti anni.
Non così Fini. Il suo punzecchiamento nei confronti di Berlusconi è iniziato poco dopo lo scioglimento di An nel Pdl. I motivi del suo passaggio all’opposizione sono stati troppo evidentemente strumentali, tardivi, e difficili da conciliare con le sue scelte passate, sempre largamente in sintonia con quelle di Berlusconi. Una certa mancanza di pudore, o di buon gusto, gli ha impedito di arrossire al momento di denunciare cose da lui stesso ampiamente approvate (l’orribile legge elettorale) o giustificate (le leggi ad personam). Soprattutto, nessuno ha capito perché il suo nuovo partito, dopo avere dato la fiducia a Berlusconi sui famosi cinque punti (29 settembre), anziché spiegare in che cosa il governo li stesse tradendo, ed eventualmente aprire una battaglia sui contenuti, abbia preferito ingaggiare un confronto di principio, tutto interno al codice della politica, e come tale intraducibile nel linguaggio della gente comune: ci vuole una «discontinuità», non ci fidiamo di Berlusconi ma siamo «disponibili a un Berlusconi-bis», si deve «aprire una nuova fase», ci vuole «un governo che governi» (paradossale detto da chi lo paralizza da mesi).
Di qui un problema grande per il Terzo Polo. Molte cose che i suoi esponenti dicono sono più che sensate. Diverse critiche a Berlusconi e al berlusconismo sono preziose per uscire dalle secche in cui siamo incagliati. La loro visione della politica e del futuro dell’Italia merita rispetto e considerazione. Però il modo in cui i temi cari al Terzo Polo sono stati portati nel dibattito politico da Fini e dal suo partito rischiano di bruciarli. La spregiudicatezza dell’operazione condotta da Futuro e Libertà rischia di gettare discredito su una visione della politica e del mondo che tanti altri, con più pazienza e più rispetto per gli avversari, difendono da anni e anni.
Non resta che augurarsi che l’opinione pubblica non getti il bambino con l’acqua sporca. E che il bambino - l’idea di una destra diversa da quella che abbiamo conosciuto - riesca a fare qualche passo nella politica italiana. (la Stampa)
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