Fanno tenerezza. Mi riferisco a quelli che hanno passato una vita a sfilare urlanti contro l’imperialismo americano, maledicendo la satanica macchina diplomatica che pretendeva di guidare le politiche altrui, screditando quanti non si piegavano agli ordini a stelle e strisce, e ora si ritrovano a biascicare moralismi da beghine affrante, lamentando che “gli americani” ci giudicano male. Spulciano la documentazione di Wikileaks e non attendendo neanche che arrivi la parte succosa, posto che ci sia, s’accasciano sul pettegolume. S’accontentano della formula da barzelletta: ci sono un francese, un tedesco e un italiano, il primo ha pretese napoleoniche, il secondo è ottuso ma disciplinato, il terzo crapulone.
Fin qui, la faccenda dei files pubblicati è gravissima non tanto sotto il profilo del contenuto, ma del fatto stesso che cada il segreto diplomatico, fissato dal Congresso di Vienna (1815). Senza riservatezza diplomatica non ci sono negoziati, solo alleanze o guerre. Si provi a immaginare.
Non ho idea se fra quei documenti si troveranno cose, meno superficiali, relative al dossier energetico, ma quella è la partita più significativa. E ci vuole una miopia, e un’ignoranza, fuori dal comune per affrontarla solo sotto la luce dei rapporti fra Berlusconi e Putin, quasi si tratti di questioni personali. E’ una partita che traversa tutta intera la storia repubblicana, a cominciare dall’Eni di Enrico Mattei, di cui non solo i petrolieri statunitensi dicevano peste e corna, ma si giunse pure a questioni relative alle “donnine”. Anche in quel caso, naturalmente, non era una questione personale, tanto è vero che coinvolse per intero la politica estera italiana, la cui gestione dossettiana e filo araba non piaceva per nulla agli americani, ma piaceva tantissimo a quelli che oggi sperano siano loro a dire “qualche cosa di sinistra”.
Era l’Italia in cui la Fiat apriva lo stabilimento di Togliattigrad, quella in cui si trovavano ambasciatori statunitensi che inviavano rapporti durissimi contro il centro sinistra e contro Aldo Moro. Ma allora, gli odierni adoranti, erano impegnati a chiedere: fuori la Nato dall’Italia e l’Italia dalla Nato. Fortunatamente hanno perso. E dico “fortunatamente” da antico estimatore degli Stati Uniti, pertanto poco propenso a confondere per “americane” le cose scritte da un americano. Perché, alla fine, quella che conta e la politica estera ufficiale, non lo smanacciamento cui è stata sottoposta nelle cucine. E, per dirne due, conta che a Pratica di Mare sia iniziato l’avvicinamento della Russia alla Nato, come conta che il gas italiano arrivi prevalentemente dall’Algeria, mentre i nuovi gasdotti non si prestano a rapporti compromissori con gli iraniani. Ma che possono capirne quelli che si sono sempre prestati alla non autonomia energetica dell’Italia e che volevano riconoscere ad Ahmadinejad l’aspirazione a essere potenza regionale? Sicché, oggi, pubblicano i dispacci in cui lo si definisce Hitler accanto alle battute insulse sul lettone di Putin, senza neanche afferrare il nesso.
C’è una forza della geopolitica, un peso degli interessi indisponibili di un Paese, che attraversa il tempo e non cambia colore con i governi. Per capirlo si deve studiare la storia, avendo in mente una cartina geografica, e saper far di conto. Se si corre appresso ai dispacci in cui i diplomatici fanno il riassunto della rassegna stampa, se si perde di vista la sostanza e ci si butta sulla paccottiglia, va a finire che l’intero Paese è ai materassi. Uno sopra e gli altri sotto.
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