Da quando nella politica italiana è entrato Silvio Berlusconi, ossia dal 1994, la cultura di sinistra ha sviluppato un suo peculiare racconto dell'Italia. Secondo questo racconto chi vota a sinistra sarebbe «la parte migliore del Paese», mentre la parte che sceglie il centrodestra sarebbe la parte peggiore, evidentemente maggioritaria.
La teoria delle due Italie scattò subito, nel 1994, allorché la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto fu inaspettatamente sconfitta dal neonato partito di Silvio Berlusconi.
E da allora mise radici, costruendo pezzo dopo pezzo una narrazione della storia nazionale al centro della quale vi è l'idea di una vera e propria mutazione antropologica degli italiani, traviati fin dagli anni 80 dal consumismo e dalla tv commerciale. Una narrazione che, nel 2001, si arricchirà di un nuovo importante tassello, con la teoria di Umberto Eco secondo cui gli elettori di centrodestra rientrerebbero in due categorie: l'Elettorato Motivato, che vota in base ai propri interessi egoistici e a propri pregiudizi contro stranieri e meridionali, e l'Elettorato Affascinato, «che ha fondato il proprio sistema di valori sull'educazione strisciante impartita da decenni dalle televisioni, e non solo da quelle di Berlusconi». Due elettorati cui non avrebbe neppure senso parlare, visto che non si informano leggendo i giornali seri e «salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purché ci sia un sedere in copertina».
Vista da questa prospettiva, la vittoria del 1994, come tutte quelle successive, non sarebbe un incidente di percorso, ma l'amaro sbocco di processi di degenerazione del tessuto civile dell'Italia iniziati molti anni prima. Uno schema, quello dell'Italia traviata dal consumismo e dai media, apparentemente nuovo ma in realtà già allora vecchio di trent'anni. Era stato infatti Pasolini, molti anni fa, a denunciare - ma senza disprezzo, e con ben altra umanità - la «scomparsa delle lucciole», immagine con cui soleva descrivere la dissoluzione dell'umile Italia fin dai primi anni 60, con l'estinzione delle culture popolari sotto l'incalzare del benessere e delle migrazioni interne.
Insomma, voglio dire che è mezzo secolo che «alla sinistra non piacciono gli italiani», per riprendere il titolo del saggio con cui, fin dal 1994, lo storico Giovanni Belardelli (sulla rivista «il Mulino») fissò la sindrome della cultura di sinistra, incapace di darsi una ragione politica dei propri insuccessi, e perciò incline a dipingere l'Italia come un Paese abitato da una maggioranza di opportunisti, di malfattori, o di ignavi. E tuttavia ora, forse per la prima volta, qualcosa si sta muovendo. Qualcosa, molto lentamente, sta cambiando. Non già nei piani alti della politica, nelle segreterie dei partiti, nei palazzi del potere, bensì fra la gente comune, e fra le energie più giovani del Paese. Roberto Saviano, ad esempio, l'altro giorno al Palasharp, alla manifestazione per chiedere le dimissioni del premier, ha sentito il bisogno di dire: «Smettiamo di sentirci una minoranza in un Paese criminale, siamo un Paese per bene con una minoranza criminale». Se Saviano ha sentito il bisogno di esortare il popolo di sinistra a «smettere di credere» di essere una minoranza, vuol dire che quella credenza ancora c'è, sopravvive, nelle menti e nei cuori: una sorta di «pochi ma buoni», una rabbiosa riedizione del «molti nemici, molto onore» di mussoliniana memoria.
La sindrome della «minoranza virtuosa» è tuttora molto radicata nella cultura politica della sinistra. Ma anche qui, persino fra i politici di professione, qualcosa si sta muovendo. L'alibi dell'indegnità degli italiani comincia a scricchiolare. Matteo Renzi, sindaco di Firenze, rimproverato da un po' tutti i suoi compagni di partito (compreso il giovane «rottamatore» Pippo Civati) per essersi contaminato incontrando Berlusconi ad Arcore, ha risposto ai suoi critici più o meno così: se vogliamo vincere non possiamo partire dall'assunto che l'altra metà degli italiani, quella che non ci vota, sia costituita da cittadini irrecuperabili, dobbiamo rispettarli e conquistarli.
Saviano e Renzi hanno ragione. Così come hanno ragione quanti, in piazza o non in piazza, non si stancano di ripetere che l'Italia non è quella che emerge dai festini di Arcore e dalle intercettazioni, o quella che la cultura di sinistra si figura ogni volta che l'esito del voto punisce i progressisti. L'Italia non è berlusconiana quanto si pensa sul piano del costume (un recente sondaggio di Mannheimer certifica che il sogno di una carriera nel mondo dello spettacolo attira effettivamente solo 1 ragazza su 100). Ma non lo è neppure sul piano del consenso elettorale. Contrariamente a quanto molti credono, il berlusconismo - inteso come fiducia incondizionata nei confronti di Berlusconi - è sempre stato un fenomeno marginale. Fatto 100 il corpo elettorale, il voto al partito di Berlusconi non è mai andato oltre il 20%, e il sostegno esplicito al leader, espresso in un voto di preferenza (come alle ultime Europee), si aggira intorno al 6%. Per non parlare del trend più recente, che mostra un Pdl che attira circa il 18% del corpo elettorale, e un premier che ottiene la sufficienza da meno di un cittadino su tre.
Se questa è la realtà, occorre che la sinistra faccia un serio esame di coscienza. Che provi a inventare un altro racconto degli ultimi trent'anni. Un racconto senza alibi e autoindulgenze, un po' più rispettoso degli italiani e un po' più abrasivo su sé stessa. Perché se l'Italia non è, né è mai stata, il Paese moralmente degradato tante volte descritto in questi anni. Se il consenso al leader Berlusconi non è mai stato plebiscitario. Se i suoi fan non sono mai stati tantissimi. Se oggi 2 italiani su 3 non danno la sufficienza a Berlusconi, e appena 1 su 20 lo promuove a pieni voti. Se, a dispetto di tutto ciò, i sondaggi rivelano che il giudizio dei cittadini sull'opposizione è ancora più negativo - molto più negativo - di quello sul governo. Beh, se tutto questo è vero, allora vuol dire che i problemi politici dell'Italia non stanno solo nei comportamenti del premier e nelle insufficienze del suo governo, ma anche nella difficoltà dell'opposizione di trovare, finalmente, un'idea, un programma e un volto che convincano quella metà dell'Italia che non è berlusconiana ma, per ora, non se la sente di votare a sinistra. (la Stampa)
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Le ipocrisie dei guardoni
di Nicola Fano
Che vinca o no la sua battaglia legale con il presidente Clinton, Kenneth Starr di sicuro ha già un successo da vantare: quello d'aver messo tutto il mondo in fila dietro il buco della serratura. Quanto questo sia lecito o rilevante dal punto di vista giuridico si vedrà: per il momento si è visto solo che dietro a quel buco, il mondo della comunicazione globale ci sta a disagio, tappa un occhio vergognoso e con l'altro spia.
Ossia, da un lato, si sprecano lamenti di biasimo per le sconcezze, per i sigari, per le mutandine, per il sesso in diretta; dall'altro lato, però, nessuno rinuncia a rincorrere lo scoop, qualche riga in più sul rapporto Starr, l'instant-book, la foto allusiva con Clinton mentre fuma un enorme sigaro avana... Una bella contraddizione mediatica, con la “pruderie” che batte il moralismo in nome di qualche copia in più (obiettivo più che lecito, ovviamente).
Nella tragedia greca, che trattava principalmente di sangue e potere, il sangue veniva versato dietro le quinte per essere poi solo raccontato al proscenio. Dalla quantità di sangue e dalla sua “colorazione politica”, dipendevano i successivi sommovimenti di potere; che gli spettatori si godevano in diretta, seguendoli lì sul palcoscenico. Qui, nel caso Clinton, accade il contrario: questo dramma di sesso e potere rischia di scadere nel cattivo teatro (o, meglio, hollywoodianamente nel cattivo cinema: nessuno vuol credere ai risvolti romantici dell'amore di Monica...) proprio perché alla ribalta c'è solo il sesso. E di fronte a questa assenza di buon gusto (da parte del presidente, da parte di Monica Lewinsky, da parte di Kenneth Starr) è facile che i mass-media di tutto il mondo rispondano in modo scomposto, ambiguo: un po' bacchettoni nel condannare, un po' furbi nello speculare.
In un'intervista a Dino Martirano del Corriere della Sera, ieri, il garante della privacy Stefano Rodotà sosteneva che “Internet si conferma un grande strumento della democrazia perché alla fine gli utenti della rete potrebbero anche orientarsi con un giudizio assai severo sul procuratore Starr... È vero, è esploso l'aspetto guardone dell'opinione pubblica ma il cittadino guardone può fare il secondo passo come cittadino che riflette e in terza battuta diventare cittadino che controlla”. Giustissimo. E allora perché scandalizzasi, perché reclamare una foglia ai fico sui particolari della vita sessuale del presidente degli Stati Uniti? Perché fingere, per esempio, di non sapere che l'intento (primariamente politico) del procuratone era proprio quello rendere impresentabile, scoperta, privata l'immagine pubblica di Clinton? Perché ignorare le risa di Fidel Castro nel valutare il successo dei suoi sigari o i gridolini di giubilo di Saddam mentre spulcia i segreti del diavolo americano? Il re è nudo: a che serve far finta di non guardarlo mentre si invitano gli altri a gustarsi i particolari dei suoi orgasmi?
E un trionfo della democrazia, questa storia del rapporto pubblicato via Internet. Ma di certo è il successo di un operazione politica azzardata e geniale che molti cercano di mascherare in nome della morale e che invece Kenneth Starr ha già stampato nel suo albo d'oro. Che dovrebbe essere pubblicato in appendice agli inserti speciali sul “Rapporto” e agli instant-book.
l'Unità, 14 se 1998
Ritengo che analizzare l'attuale situazione della politica italiana comporti la necessità di porsi una domanda...perchè?
Perchè assistiamo a bunga bunga, primarie taroccate, un parlamento delegittimato e quant'altro!?
Semplice, la classe politica (tutta) ha smesso di percepire il cittadino come referente.
L'elettore è diventato numero cui non è necessario rispondere; passate le elezioni vincitori e vinti cominciano un gioco a due in cui dimenticano la necessità di rispondere a dei referenti...i cittadini!
A loro volta i singoli dovrebbero ricordare alle istituzioni che la loro è una mera delega; che la sovranità è del popolo!
Potrà cadere "l'imperatore", che tanto le cose non cambieranno.
Servirebbe una nuova prospettiva!
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