martedì 26 settembre 2006

La Cina non è vicina. Massimo Pandolfi

Prima di sorridere e calcolare i profitti, un governo dovrebbe valutare come i partner potenziali rispettano i diritti umani. L’economia cinese va, ma a che costo? Quello di un Paese con 5 milioni di persone nei lager e 10mila esecuzioni l’anno.

Mancava solo Gianni Morandi. Non ha resistito, Romano Prodi, alla vanità di portarsi in Cina la coppa del Mondo vinta a luglio dai calciatori italiani, ma si è dimenticato di un altro... trofeo, il suo compagno cantante; bolognese, podista e più o meno catto-comunista come lui. Ci sarebbe stato a pennello. Volete mettere? Un bell’In ginocchio da te intonato dal Morandone ai «nostri amici cinesi che saranno sempre più nostri amici» (parole del premier) avrebbe messo il timbro, ufficiale e canoro, su una delle più assurde missioni mai effettuate all’estero dall’Italia.
Siamo andati – anzi, sono andati: in questi casi non ci sentiamo affatto rappresentati come italiani – in 1047 in Cina: il capo del governo, quattro ministri, vari sottosegretari, il presidente degli industriali (e di mezza Italia) Montezemolo, una corte dei miracoli fatta di imprenditori, una novantina di giornalisti in vacanza premio spesati da Regioni o Camere di Commercio (non certo dalle loro testate) e i soliti infiltrati. Milionate di euro, paga lo Stato: forse è stata la più faraonica spedizione del dopoguerra. Non c’era Gianni Morandi, ma anche senza la sua canzone i nostri prodi (Romano e gli altri 1046) son tornati con le ginocchia arrossate. Addirittura il premier ha chiuso col botto:«Basta con l’embargo delle armi da parte dell’Europa ai cinesi» ha detto. Persino i suoi cari amici della Ue lo hanno guardato male.
Una settimana di genuflessioni, sbornie di inchini cinesi, contratti firmati, affari, numeri, economia, business, pil e parametri di crescita. E i giornali, Corriere della Sera in testa, ci hanno ubriacati con i loro Giavazzi e Giavazzini vari, di analisi finanziarie, solo finanziarie, sempre finanziarie. La Cina va di moda, viva la Cina, è lì il futuro, apriamo le porte, non abbiamo paura, è così che si fa, prendiamo la Cina come modello, importiamo ingegneri cinesi. Ma che, scherziamo? Vogliamo prenderci in giro da soli? Abbiamo, anche solo per un attimo, la forza di confessarci cos’è davvero la Cina, quella reale, non quella finta che ci hanno fatto vedere la scorsa settimana o che magari ci verrà mostrata nel 2008 per le Olimpiadi? La Cina, se non altro per le dimensioni del Paese, è oggi la più brutale e sanguinaria dittatura del mondo. Prendete Hitler, prendete Stalin, prendete il dittatore che più detestate: bene, questi signori sono tutti dei dilettanti rispetto al Grande Dittatore cinese, che dopo Mao non ha in realtà un nome e un cognome, ma è ancora peggio perché è lo Stato, cioè il Partito Comunista, cioè una struttura che calpesta selvaggiamente e indistintamente ogni diritto umano.
Proprio perché indefinibile è una dittatura ancora più pericolosa. Per forza che l’economia va: circa cinque milioni di cinesi sono tenuti rinchiusi dentro i lager (che in Cina si chiamano laogai) e costretti a lavorare diciotto ore al giorno. Fanno di tutto, dalle scarpe ai computer. Vengono picchiati, umiliati, ammazzati. In Cina diecimila persone sono ogni anno condannate a morte e la pena capitale è prevista anche per l’evasione fiscale. In Cina per recitare un’Ave Maria ci si deve rinchiudere nei sotterranei, con l’incubo che arrivi la polizia e arresti tutto, compreso la preghiera. In Cina trenta poliziotti sono andati ad arrestare e malmenare un povero vescovo con suore e preti alla vigilia dell’arrivo dei “nostri prodi”; e succede così ogni anno, ogni mese, ogni settimana, ogni giorno. L’elenco e i numeri degli orrori cinesi li trovate dettagliatamente all’interno. E non è vero che la situazione sta migliorando: no, è sempre peggio.
Prima o poi esploderà tutto.
Giancarlo Politi, un sacerdote che ha passato più di 20 anni in Cina, ci ha detto: «Rischia di finire come una Jugoslavia moltiplicata per cinquanta. Molto peggio della Russia». Ma le sanno Prodi e i suoi compari tutte queste cose? Possibile che una gran donna come Emma Bonino si sia così inchinata al dio danaro? «Perché la democrazia non si può esportare», parole sue, ma questa è una frase un po’ pilatesca e tanto pericolosa perché recitata in quel tour sembra quasi voler dire: «a noi interessano i nostri affari, il resto sono affaracci cinesi».Perché il resto non è il resto.No, c’è qualcosa che viene prima dell’affare inteso dai “nostri prodi”.
Forse è il caso che ci si cominci anche a interessare degli affaracci cinesi. E questo non vuol dire non andare in missione, chiudersi a riccio, lasciare la miccia Cina laggiù in Oriente, sola soletta. No, sarebbe anacronistico, ovvio, e in fondo è da decenni che si va a Pechino, indifferentemente con governi di centrodestra o centrosinistra. Il guaio è che ci si va solo per firmare contratti economici e il “resto” (che non dovrebbe essere il “resto”, ma le fondamenta) è tutto un condensato di ipocrisie. «Dai, fate i bravi, rispettate i diritti umani, se no a noi dell’Ue ci tocca sgridarvi ancora con una letterina». E poi giù affari.In uno splendido articolo su Avvenire padre Bernardo Cervellera, una delle “sentinelle della libertà” più attente di tutto l’Occidente, ha chiuso un suo articolo così: «Un professore agnostico dell’università di Shanghai ci ha detto: “La Cina ha bisogno di una nuova rivoluzione culturale. Per millenni alcuni diritti sono stati una concessione dell’imperatore. è giunto il momento di scoprire che i diritti umani sono innati nella persona. Ma per fare questo, la Cina deve riscoprire che l’uomo è proprietà di Dio, non dello Stato”. Forse – è il commento finale di Cervellera – perché questo avvenga la Cina ha bisogno anche di occidentali che vadano in missione non soltanto per commerciare, ma per offrire il meglio della loro cultura: le radici cristiane, base dei diritti umani universali».
Una risposta ancora più concreta, immediata e facile facile su che cosa dovrebbe essere una missione in Cina, e su che cosa avrebbero dovuto fare i “nostri prodi” a Pechino, la dà il sessantanovenne Harry Wu, per 19 anni recluso in un laogai cinese. Ne è uscito solo perché è miracolosamente riuscito a fuggire; ora gira il mondo e racconta le vergogne cinesi e purtroppo in pochi lo ascoltano. Wu ha detto: «è molto semplice: quando gli italiani si siedono al tavolo per firmare un accordo, chiedano ai cinesi di mostrare i luoghi di lavoro, come sono pagati i lavoratori e come sono trattati. Se un governo non fa questo, allora vuol dire che pensa solo ai soldi».E quando si pensa solo ai soldi ci si chiude prima il cuore, poi gli occhi. E poi, nel trionfo dell’ipocrisia, ci si sbuccia le ginocchia.Peccato che il premier italiano non si sia portato dietro Gianni Morandi. Senza In ginocchio da te i nostri prodi si son dovuti sorbire in continuazione l’inno cinese. Si intitola La marcia dei volontari e fa così: «Avanti eroico popolo di tutte le nazionalità! Il grande partito comunista ci guida in una nuova marcia. Uniamoci! Come un sol uomo e marciamo verso il comunismo».
Questa è la Cina. Cos’è il comunismo, ormai lo sappiamo tutti. Auguri.

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