In questi giorni tutti i giornali parlano della tragedia di Rivoli, ma non vorrei che ce ne dimenticassimo troppo presto, come purtroppo è successo tante volte in passato.
Perché tendiamo a dimenticare? E perché, soprattutto, non impariamo mai dall’esperienza? Lo stato disastroso dei nostri edifici scolastici era noto da tempo, come è documentato da varie accurate rilevazioni del ministero della Pubblica Istruzione, nonché dalla lunga serie di interventi legislativi che in materia di edilizia e di sicurezza si sono susseguiti nell’ultimo quindicennio, a partire dalla legge 626 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Nonostante ciò, e a dispetto di alcune lodevoli eccezioni (tra cui quella del Comune di Torino), pochissimo è stato fatto. Lo stato delle nostre scuole, specie nel Mezzogiorno ma anche in parecchie realtà del Centro-Nord, è spesso poco degno di un Paese civile: difettano protezioni contro i sismi, gli incendi, i cedimenti strutturali, i cortocircuiti elettrici, ma mancano anche, semplicemente, le condizioni minime di decoro, tutto ciò che può ricordare ai ragazzi che il luogo in cui studiano non è un luogo qualsiasi ma è un’istituzione, che merita il loro pieno rispetto. Un analogo degrado pervade in misura inaccettabile quasi tutti i grandi pilastri della vita sociale. Gli ospedali, ad esempio, alle volte malandati perché troppo vecchi, a volte malandati perché mai nati (sono oltre 100 gli ospedali finanziati e mai completati). O le caserme, i posti di polizia, i palazzi di giustizia, gli uffici che ti fanno sentire suddito più che cittadino.
Per non parlare delle aule universitarie ricavate in cinema, capannoni, o semplici alloggi. O delle carceri, che tutti i governi hanno lasciato in uno stato di deplorevole degrado. O delle strade pericolose, delle ferrovie antiquate, delle discariche illegali. Dei treni sudici, dei bagni sempre guasti, delle strade coperte di immondizia. Non è solo la scuola che è in stato di abbandono, ma lo sono quasi tutte le grandi infrastrutture fisiche del paese. È di qui che dobbiamo ripartire se vogliamo che tragedie come quella di Rivoli o di San Giuliano non si ripetano più. Quel che dobbiamo chiederci non è semplicemente perché tante scuole siano fatiscenti, ma è come mai, lentamente, le grandi strutture materiali del Paese - il suo hardware, verrebbe da dire - si stiano sbriciolando come grissini.
Una prima ovvia risposta è che l’hardware si sbriciola perché pensiamo quasi soltanto al software. Da almeno quindici anni, ossia da quando il debito pubblico è diventato la priorità delle priorità, la politica economica risparmia sistematicamente sulla manutenzione delle infrastrutture fisiche (l’hardware del sistema Italia), e dilapida le poche risorse disponibili in spese improduttive e stipendi pubblici (il software del sistema Italia). La storia sarebbe lunga da raccontare tutta quanta e nei dettagli, ma la realtà è che negli ultimi quindici anni - quale che fosse il colore politico dei governi - in quasi tutti i settori della pubblica amministrazione la maggior parte delle risorse disponibili sono state convogliate sugli avanzamenti di carriera e sottratte agli investimenti e agli acquisti.
È accaduto così che tra avanzamenti automatici, corsi di formazione più o meno fasulli, lauree facili (primo fra tutti lo scellerato programma «laureare l’esperienza»), la piramide gerarchica della pubblica amministrazione è stata stravolta, con due conseguenze fondamentali: una contrazione delle ordinarie risorse per il funzionamento (dalla benzina, alla carta, ai computer) e una grave perdita di efficienza organizzativa (perché un esercito di generali non combatte). In questa triste vicenda la scuola è stata colpita due volte: come gli altri settori della pubblica amministrazione è rimasta a corto di ossigeno sul versante degli investimenti edilizi e su quello delle risorse per il funzionamento, ma a differenza degli altri settori della pubblica amministrazione non ha potuto beneficiare di significativi avanzamenti perché non esiste una vera e propria carriera degli insegnanti, come ne esistono invece per i medici, i professori universitari, i magistrati, i militari, i poliziotti, i burocrati.
Dobbiamo dunque prendercela con i politici, ciechi di fronte ai veri interessi del paese?
Forse no, se riflettiamo su come funziona l’opinione pubblica e su cosa davvero riesce a scuotere la cosiddetta società civile. L’opinione pubblica dimentica con sorprendente rapidità le tragedie collettive, quelle che oggi ci fanno stringere intorno alle famiglie dei ragazzi di Rivoli, ma è estremamente vigile sugli interessi particolari delle innumerevoli categorie, corporazioni, lobby che si contendono quel che resta della nostra povera Italia. Se i politici, quando hanno 100 euro da spendere, ne destinano così pochi all’hardware del paese e così tanti al suo software, è perché hanno capito che quest’ultimo ci interessa molto più del primo. Possiamo indignarci quando crolla una scuola, quando deraglia un treno, quando un ospedale è invaso dagli scarafaggi, ma non siamo disposti a rinunciare a un pezzettino del nostro modesto benessere per vivere in un paese in cui queste cose non succedano più. I consumi privati ci interessano di più degli investimenti pubblici, lo Stato sociale, fatto di sanità, pensioni e assistenza, ci interessa di più dello Stato minimo, fatto di infrastrutture fisiche e funzioni fondamentali.
Proviamo a immaginare che cosa succederebbe se un ministro dicesse: la messa in sicurezza delle scuole costa 5 miliardi, per finanziarla propongo di bloccare tutti gli aumenti retributivi nel pubblico impiego (ad esempio: 1 anno gli stipendi bassi, 2 quelli medi, 3 quelli alti). Ci sarebbe una sollevazione, e mille eloquenti argomentazioni e sottili distinguo farebbero immediatamente naufragare la proposta, o qualsiasi altra idea consimile. I politici l’hanno capito, sanno perfettamente che l’agonia dello Stato minimo non è la prima delle nostre preoccupazioni. Sta a noi dimostrare che si sbagliano. (la Stampa)
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3 commenti:
leggere l'intero blog, pretty good
imparato molto
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