venerdì 26 novembre 2010

Mutazioni quirinalizie. Davide Giacalone

Giorgio Napolitano non faccia torto a sé stesso, inducendo i suoi portavoce a sostenere che mai e poi mai intendeva occuparsi dell’attuale legge finanziaria. Lo ha fatto ripetutamente, intervenendo anche sul calendario parlamentare. Possiamo snocciolare un lungo elenco d’iniziative quirinalizie fuori dal binario costituzionale. Ma non è una questione personale, e neanche un attacco all’istituzione (l’identificazione e propria delle monarchie, o dei regimi assoluti). Si deve essere capaci di guardare al nocciolo istituzionale e politico, senza esasperati personalismi. Il nostro sistema costituzionale è un motore che funzionava alimentato dal sistema proporzionale e dai partiti politici, costretto ad adattarsi, senza cambiare, all’alimentazione maggioritaria e leaderistica. Se in un motore diesel mettete la benzina non ci guadagna in scatto, si ferma. Così è successo a quello costituzionale. Non abbiamo più i partiti politici che compongono e scompongono i governi, in corso di legislatura, ma non abbiamo ancora un premierato con l’elezione diretta. Abbiamo un papocchio in cui si crede di votare il capo del governo, invece si vota una coalizione che poi si scopre (puntualmente) rissosa e divisa. E’ successo che mentre alcuni poteri costituzionali, come il legislativo e l’esecutivo, perdevano presa sull’albero di trasmissione, il Quirinale ha allargato le sue funzioni, fino a straripare.
Essendo, quello del Presidente della Repubblica, l’unico potere costituzionale al tempo stesso irresponsabile e non insidiabile, è anche quello ingigantito dal crollo dei partiti e dall’imbastardimento della politica. Il Quirinale ha sempre avuto notevoli poteri istituzionali, ma la rovina costituzionale ha gonfiato quelli politici. Fra i Presidenti del passato ce ne furono alcuni (si pensi a Giovanni Gronchi) senza alcuna vocazione notarile, anzi, decisamente interventisti. Ma dovevano sempre tenere conto o d’essere democristiani, quindi sottoposti al gioco delle correnti, o d’essere esponenti di partiti minoritari, il che suggeriva loro di non avventurarsi troppo sul terreno politico, se volevano finire il settennato. Antonio Segni non lo finì, e non solo per la trombosi (che non a caso lo colpì mentre litigava con Giuseppe Saragat e Aldo Moro), come non ci riuscì Giovanni Leone, e non perché la “macchina del fango” (si direbbe oggi) lo prese di mira, ma perché il suo partito lo lasciò esposto alle zolle umide.
Il punto di rottura arriva con Sandro Pertini, che i comunisti vollero al posto del candidato socialista, Antonio Giolitti (Napolitano s’è guardato dal ricordarlo, parlando di quel grande uomo della sinistra, che denunciò i carri armati sovietici a Budapest). Il vecchio partigiano adottò un piglio assai personale, dal contenuto piuttosto demagogico. E condusse in porto due operazioni complicate: il governo a Giovanni Spadolini e, poi, a Bettino Craxi. Con Francesco Cossiga si sarebbe dovuti tornare alla “normalità”, invece accadde l’opposto, perché si trovò al Quirinale nel mentre finiva la guerra fredda e crollava la Dc, cosa, quest’ultima, cui egli stesso collaborò. Oscar Luigi Scalfaro fu il democristiano craxiano che lasciò il suo partito e l’ex presidente del consiglio in balia del giustizialismo, pur di salvare se stesso. L’uomo della destra che avrebbe consegnato alla sinistra le chiavi d’Italia, pur di non restare fuori dall’uscio. Con Carlo Azelio Ciampi arrivò un senza partito, che, però, non fu il ritorno al tempo di Luigi Einaudi, bensì l’approdo all’Italia senza partiti. Questi quattro salti, nella padella costituzionale, hanno scodellato una presidenza apolide e autoreferente, che, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, talora supplisce ai guasti di una politica assai deficiente, o, a volerlo vedere mezzo vuoto, spesso usurpa poteri e funzioni altrui. E’ l’unico potere a poterselo permettere.
Giorgio Napolitano porta con sé un’ulteriore caratteristica: interpreta la tradizione che si oppone all’attuale sistema politico ed elettorale, ma ne è il più prezioso frutto. Non avrebbe mai potuto mettere piede al Quirinale, se non ci fosse stato il porcellum e la necessità di distribuire i pesi all’interno di una sola parte politica, anziché dell’intero sistema. Fu grazie al premio di maggioranza conquistato dalla sinistra prodiana (2006), per una manciata di voti, che uno schieramento privo di maggioranza parlamentare per reggere il governo fu capace di una maggioranza (nel diverso seggio delle Camere riunite più i rappresentanti delle regioni) per eleggere il Presidente della Repubblica. Napolitano, dunque, è tre volte svincolato: senza il proprio partito, senza la maggioranza che lo elesse, senza la legislatura che visse solo per dargli vita.
Non si arrabbi, allora, se ci capita d’essere occhiuti nel segnalarne gli sconfinamenti, perché a muovere le mani sulla tastiera è il nostro antico amore per la Costituzione, che vorremmo cambiata, non demolita. Non credo affatto che Egli ceda a tentazioni di parte, e sono convinto che detesti Silvio Berlusconi solo un capello meno di quanto detesta i suoi vecchi compagni (che gli davano sempre torto), ma è forte la spinta ad un ruolo protagonista, politico, d’indirizzo e di sanzione. Sconosciuto alla nostra Costituzione.

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