mercoledì 17 novembre 2010

Quello che lo scrittore non dice sulla ’ndrangheta e la sinistra. Pier Francesco Borgia

Come ogni bravo cronista, Roberto Saviano sa perfettamente che non fa notizia il cane che morde l’uomo ma il contrario sì. Quindi non può colpire l’attenzione del lettore (o dello spettatore tv) la collusione di un partito con la mafia. Roba già vista. Se, però, il ministro dell’Interno fa parte di quel partito colluso, allora le cose cambiano. Figuriamoci poi se è portato sugli scudi da tutti perché sotto la sua gestione, al Viminale, sono stati sequestrati alla mafia beni per 18 miliardi di euro e assicurati alle patrie galere 29 dei 30 latitanti più pericolosi. E fa notizia, ovviamente, il racconto carico di pathos della riunione dei boss di ’ndrangheta in un circolo culturale intitolato alla memoria di Falcone e Borsellino. Altro che uomo che morde il cane: Lega nord, ’ndrangheta, lo sfregio ai giudici uccisi dal tritolo. L’audience è assicurata. Ma come la volta scorsa, il Savonarola di Terra di Lavoro omette verità pruriginose per il centrosinistra di cui, ormai, è icona e megafono.
Il riferimento al summit di mafia del 31 ottobre 2009 nel circolo Falcone e Borsellino è da brividi, ma è monco. Non dice, il Nostro, che quel circolo è dell’Arci, associazione da sempre vicina al Pci-Pds-Ds-Pd, e il cui presidente (quello che aveva disposto i tavoli a ferro di cavallo ai trenta convenuti per eleggere il capomafia del nord) è il consigliere del Pd di Paderno Dugnano, Arturo Baldassarre. Si dirà: ma Baldassarre non è indagato, non è stato arrestato. Giusto. Anche il consigliere regionale della Lega che avrebbe incontrato il boss Pino Neri di Taurianova non è stato indagato, non è stato arrestato, ma è stato comunque «mascariato» da Saviano. Il quale, ovviamente, a proposito di ’ndrangheta, di infiltrazioni al Nord, di politici in contatto con personaggi calabresi, s’è ben guardato dal tirare fuori brutti scheletri. Citando a caso. Non ha fatto alcun riferimento all’operazione «Parco Sud» che a novembre portò in cella 14 affiliati alla famiglia Barbaro e che sfociò nell’arresto del sindaco Pd di Trezzano sul Naviglio, Tiziano Butturini, un ex Ds. Non ha ricordato che nel maxi-blitz del 13 luglio contro le cosche in Lombardia ci finì impigliato, per la conoscenza con un imprenditore vicino agli Strangio, un ex rappresentante della giunta di centrosinistra guidata da Penati, ovverosia Antonio Oliverio. Non ha rispolverato il caso di un altro ex assessore provinciale nella stessa giunta, Bruna Brembilla, indagata (e poi prosciolta) perché avrebbe chiesto voti ai calabresi immigrati.
Ragionando come ragiona il Savonarola casalese, si dovrebbe poi appiccicare la patente di mafioso anche a un politico dell’Udc del «nord» che indagato per mafia non è: Rosario Monteleone, presidente del consiglio regionale della Liguria e coordinatore del partito di Casini, il cui nome compare in una telefonata fra calabresi arrestati. E che dire di Pasquale Tripodi, già assessore «in trasferta» di Loiero, coinvolto due anni fa nel blitz della Dda di Perugia (arrestato e poi scarcerato dal Riesame, archiviato) su infiltrazioni del clan Vadalà nell’Umbria rossa. E che dire di quelle elezioni per il consiglio comunale di Cologno Monzese supervisionate dal clan Valle che tanto hanno imbarazzato i Riformisti ed il Pd. E che dire, inoltre, di Cinzia Damonte, candidata alle regionali liguri per l’Idv, non indagata, sorpresa a distribuire santini elettorali a una cena organizzata da calabresi come Onofrio Garcea, 70enne di Pizzo Calabro, oggi latitante, presente nelle maggiori inchieste sulle ’ndrine di Genova e dintorni. L’elenco a tema è lungo, da non leggere in tv perché finirebbe per smontare il gioco del novello professionista antimafia. Accreditare la sua tesi servendosi delle provocazioni culturali di Gianfranco Miglio (che non può protestare per questa strumentalizzazione) equivale a chiedere a una leggenda del Quattrocento di farsi documento giudiziario incontrovertibile. L’audience è una cosa, la fazio-sità cos’è? (il Giornale)

6 commenti:

fuoco amico ha detto...

La trattativa dello stato con la mafia? sta a vedere che la fece il governo Ciampi
di Stefano Zurlo

La notizia è una profanazione al tempio del politicamente corretto: lo Stato si tirò indietro e non prorogò il 41 bis per 140 mafiosi. Correva il novembre ’93, il presidente del Consiglio era il tecnico Carlo Azeglio Ciampi e Guardasigilli era Giovanni Conso,l’insigne giurista di matrice cat­tolica già presidente della Consulta. Nei giorni scorsi, davanti alla Commissione antimafia, Conso è stato netto su un punto: «Non firmai per evitare altre stragi». Un’ammissione clamorosa che Conso ha provato a circoscrivere: «Fu una mia personale iniziativa». Inutile aggiungere che la postilla non convince. Davvero, il mini­stro della Giustizia prese una decisione di quella portata in totale solitudine?

Certo, fa riflettere che proprio il lodatissimo governo Ciampi, il governo tecnico, il Governo per eccellenza se­condo molti commentatori, abbia aperto una falla così im­po­rtante nella lotta a Cosa No­stra. Naturale pensare mali­ziosamente, ma neanche poi troppo: forse quella revoca ina­spettata fu un segmento della mitica trattativa fra lo Stato e Cosa Nostra al centro di una complessa indagine della Pro­cura di Palermo. Il contesto è quello terribile di quei mesi: la morte di Falcone e Borsellino nell’estate del ’92,poi le bombe alle chiese e ai monumenti del luglio ’93. All’inizio di novem­b­re Conso decide di non rinno­vare i decreti per 140 mafiosi. Una scelta temeraria che fa tor­nare a galla antichi e nuovi so­spetti. Come mai Bernardo Pro­venzano già all’inizio del ’ 93 ras­sicurava i picciotti che il carce­re duro sarebbe stato revocato?

fuoco amico ha detto...

Da dove gli arrivavano queste certezze?Siamo nell’epoca dei governi Amato e Ciampi, sia­mo nella stagione degli esecuti­vi tecnici, puri e immacolati per definizione. Tanto che mol­ti v­orrebbero riproporre un ese­cutivo tecnico anche ora, per uccidere dolcemente il berlu­sconismo. Eppure qualcosa non quadra e ora proprio Con­so ci dice che certi retropensie­ri avevano un fondamento. C’era un canale di comunica­zione fra i boss e lo Stato?

Attenzione: in un appunto del 6 marzo ’93 l’allora diretto­re del Dipa­rtimento dell’ammi­nistrazione penitenziaria Nico­lò Amato consiglia a Conso, fre­sco guardasigilli, il dietrofront sul carcere duro per i mafiosi. Naturalmente le ragioni di que­sto passo indietro sono da cer­care nel garantismo di Amato che, in una lettera a Claudio Martelli, specifica: «Non vi è dubbio che la legge chiaramen­te configura il ricorso a questi decreti come uno strumento eccezionale e temporaneo, ap­punto emergenziale». Però lo stesso Nicolò Amato ci fa sape­re che questa linea soft era stata discussa il 12 febbraio ’93 in un comitato nazionale per l’ordi­ne e la sicurezza. Di più: al Vimi­nale, nel corso di quella riunio­ne, si sarebbe discusso senza tanti spagnolismi della possibi­lità di eliminare il carcere duro, scoperto e rilanciato invece dal «colluso» Andreotti. Insomma, un dato pare a questo punto pa­­cifico: non è vero che lo Stato ab­bia sempre seguito, dopo la morte di Falcone, la strada del­la fermezza. No, non è così, e la marcia indietro passò proprio da uomini venerati come icone nazionali e considerati al di so­pra delle beghe meschine della politica.

fuoco amico ha detto...

Il presidente dell’Antimafia Giuseppe Pisanu prova a mette­re infila le date: fra il 27 e il 28 luglio avvengono le esplosioni diRomaeMilano.Il1˚novem­bre ’ 93 scade un altro blocco di provvedimenti 41 bis, ma nel frattempo Cosa Nostra tace. Im­prevedibilmente, tre giorni do­po quella scadenza, il 4 e il 6 no­vembre, il ministro di Grazia e Giustizia non proroga il 41 bis a 140 detenuti. Se ne può desu­mere che la trattativa-ricatto abbia prodotto i suoi effetti fra il 29 luglio e il 6 novembre? Do­manda inquietante cui Pisanu dà una prima risposta,nient’af­fatto tranquillizzante: «È co­munque plausibile ritenere che l’organizzazione mafiosa avesse interpretato quella revo­ca come un cedimento o una concessione dello Stato per i colpi subiti».

Insomma, alla trattativa av­viata nel ’92, secondo la magi­stratura palermitana, dal tan­dem Mori- Ciancimino si devo­no forse affiancare altri incroci fra pezzi delle istituzioni e fran­ge criminali. E la scelta di Con­so pare il punto d’arrivo di un percorso compiuto da diversi soggetti .


Ovvio, in questa situazione, porsi la solita domanda: ma se un’ammissione del genere,co­sì devastante, l’avesse fatta Ber­lusconi o uno dei suoi ministri, che cosa sarebbe accaduto? Ora,battaglioni di scrittori e po­lemisti sarebbero all’opera, nel tentativo di far quadrare il cer­chio e poter finalmente dimo­strare antichi teoremi, da sem­pre insegnati anche se privi di riscontri. Invece, lo stesso Ange­lino Alfano alla fine dell’anno scorso consegnava alla stampa i numeri da guerra del 41 bis: «Ho disposto 168 provvedi­menti in 580 giorni. I detenuti al 41 bis hanno raggiunto quo­ta 645».

fuoco amico ha detto...

Giovedì prossimo i pm di Pa­lermo ascolteranno proprio Nicolò Amato che a giugno ’93 è protagonista di un altro epi­sodio controverso, da allinea­re alle anomalie di quel perio­do oscuro: viene improvvisa­mente rimosso dalla direzio­n­e del Dap e torna alla sua pro­fessione di avvocato. Curioso: assume proprio la difesa di Vi­to Ciancimino. Tante sugge­stioni, anche contraddittorie, che precedono la svolta «uma­nitaria » di Conso. E dunque il regalo del governo Ciampi a Cosa Nostra sul 41 bis. Il no al carcere duro per paura delle bombe. Uno sfregio profondo alle istituzioni e un segnale di resa che, solo a ripensarci, fa venire i brividi.

fuoco amico ha detto...

Saviano , niente da dichiarare????

Anonimo ha detto...

Esiste una moltitudine di Mafie.
Eliminandone una rimangono tutte le altre. Una di queste è lo Stato di polizia che succhia il sangue dei cittadini.