Come ogni bravo cronista, Roberto Saviano sa perfettamente che non fa notizia il cane che morde l’uomo ma il contrario sì. Quindi non può colpire l’attenzione del lettore (o dello spettatore tv) la collusione di un partito con la mafia. Roba già vista. Se, però, il ministro dell’Interno fa parte di quel partito colluso, allora le cose cambiano. Figuriamoci poi se è portato sugli scudi da tutti perché sotto la sua gestione, al Viminale, sono stati sequestrati alla mafia beni per 18 miliardi di euro e assicurati alle patrie galere 29 dei 30 latitanti più pericolosi. E fa notizia, ovviamente, il racconto carico di pathos della riunione dei boss di ’ndrangheta in un circolo culturale intitolato alla memoria di Falcone e Borsellino. Altro che uomo che morde il cane: Lega nord, ’ndrangheta, lo sfregio ai giudici uccisi dal tritolo. L’audience è assicurata. Ma come la volta scorsa, il Savonarola di Terra di Lavoro omette verità pruriginose per il centrosinistra di cui, ormai, è icona e megafono.
Il riferimento al summit di mafia del 31 ottobre 2009 nel circolo Falcone e Borsellino è da brividi, ma è monco. Non dice, il Nostro, che quel circolo è dell’Arci, associazione da sempre vicina al Pci-Pds-Ds-Pd, e il cui presidente (quello che aveva disposto i tavoli a ferro di cavallo ai trenta convenuti per eleggere il capomafia del nord) è il consigliere del Pd di Paderno Dugnano, Arturo Baldassarre. Si dirà: ma Baldassarre non è indagato, non è stato arrestato. Giusto. Anche il consigliere regionale della Lega che avrebbe incontrato il boss Pino Neri di Taurianova non è stato indagato, non è stato arrestato, ma è stato comunque «mascariato» da Saviano. Il quale, ovviamente, a proposito di ’ndrangheta, di infiltrazioni al Nord, di politici in contatto con personaggi calabresi, s’è ben guardato dal tirare fuori brutti scheletri. Citando a caso. Non ha fatto alcun riferimento all’operazione «Parco Sud» che a novembre portò in cella 14 affiliati alla famiglia Barbaro e che sfociò nell’arresto del sindaco Pd di Trezzano sul Naviglio, Tiziano Butturini, un ex Ds. Non ha ricordato che nel maxi-blitz del 13 luglio contro le cosche in Lombardia ci finì impigliato, per la conoscenza con un imprenditore vicino agli Strangio, un ex rappresentante della giunta di centrosinistra guidata da Penati, ovverosia Antonio Oliverio. Non ha rispolverato il caso di un altro ex assessore provinciale nella stessa giunta, Bruna Brembilla, indagata (e poi prosciolta) perché avrebbe chiesto voti ai calabresi immigrati.
Ragionando come ragiona il Savonarola casalese, si dovrebbe poi appiccicare la patente di mafioso anche a un politico dell’Udc del «nord» che indagato per mafia non è: Rosario Monteleone, presidente del consiglio regionale della Liguria e coordinatore del partito di Casini, il cui nome compare in una telefonata fra calabresi arrestati. E che dire di Pasquale Tripodi, già assessore «in trasferta» di Loiero, coinvolto due anni fa nel blitz della Dda di Perugia (arrestato e poi scarcerato dal Riesame, archiviato) su infiltrazioni del clan Vadalà nell’Umbria rossa. E che dire di quelle elezioni per il consiglio comunale di Cologno Monzese supervisionate dal clan Valle che tanto hanno imbarazzato i Riformisti ed il Pd. E che dire, inoltre, di Cinzia Damonte, candidata alle regionali liguri per l’Idv, non indagata, sorpresa a distribuire santini elettorali a una cena organizzata da calabresi come Onofrio Garcea, 70enne di Pizzo Calabro, oggi latitante, presente nelle maggiori inchieste sulle ’ndrine di Genova e dintorni. L’elenco a tema è lungo, da non leggere in tv perché finirebbe per smontare il gioco del novello professionista antimafia. Accreditare la sua tesi servendosi delle provocazioni culturali di Gianfranco Miglio (che non può protestare per questa strumentalizzazione) equivale a chiedere a una leggenda del Quattrocento di farsi documento giudiziario incontrovertibile. L’audience è una cosa, la fazio-sità cos’è? (il Giornale)
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6 commenti:
La trattativa dello stato con la mafia? sta a vedere che la fece il governo Ciampi
di Stefano Zurlo
La notizia è una profanazione al tempio del politicamente corretto: lo Stato si tirò indietro e non prorogò il 41 bis per 140 mafiosi. Correva il novembre ’93, il presidente del Consiglio era il tecnico Carlo Azeglio Ciampi e Guardasigilli era Giovanni Conso,l’insigne giurista di matrice cattolica già presidente della Consulta. Nei giorni scorsi, davanti alla Commissione antimafia, Conso è stato netto su un punto: «Non firmai per evitare altre stragi». Un’ammissione clamorosa che Conso ha provato a circoscrivere: «Fu una mia personale iniziativa». Inutile aggiungere che la postilla non convince. Davvero, il ministro della Giustizia prese una decisione di quella portata in totale solitudine?
Certo, fa riflettere che proprio il lodatissimo governo Ciampi, il governo tecnico, il Governo per eccellenza secondo molti commentatori, abbia aperto una falla così importante nella lotta a Cosa Nostra. Naturale pensare maliziosamente, ma neanche poi troppo: forse quella revoca inaspettata fu un segmento della mitica trattativa fra lo Stato e Cosa Nostra al centro di una complessa indagine della Procura di Palermo. Il contesto è quello terribile di quei mesi: la morte di Falcone e Borsellino nell’estate del ’92,poi le bombe alle chiese e ai monumenti del luglio ’93. All’inizio di novembre Conso decide di non rinnovare i decreti per 140 mafiosi. Una scelta temeraria che fa tornare a galla antichi e nuovi sospetti. Come mai Bernardo Provenzano già all’inizio del ’ 93 rassicurava i picciotti che il carcere duro sarebbe stato revocato?
Da dove gli arrivavano queste certezze?Siamo nell’epoca dei governi Amato e Ciampi, siamo nella stagione degli esecutivi tecnici, puri e immacolati per definizione. Tanto che molti vorrebbero riproporre un esecutivo tecnico anche ora, per uccidere dolcemente il berlusconismo. Eppure qualcosa non quadra e ora proprio Conso ci dice che certi retropensieri avevano un fondamento. C’era un canale di comunicazione fra i boss e lo Stato?
Attenzione: in un appunto del 6 marzo ’93 l’allora direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato consiglia a Conso, fresco guardasigilli, il dietrofront sul carcere duro per i mafiosi. Naturalmente le ragioni di questo passo indietro sono da cercare nel garantismo di Amato che, in una lettera a Claudio Martelli, specifica: «Non vi è dubbio che la legge chiaramente configura il ricorso a questi decreti come uno strumento eccezionale e temporaneo, appunto emergenziale». Però lo stesso Nicolò Amato ci fa sapere che questa linea soft era stata discussa il 12 febbraio ’93 in un comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza. Di più: al Viminale, nel corso di quella riunione, si sarebbe discusso senza tanti spagnolismi della possibilità di eliminare il carcere duro, scoperto e rilanciato invece dal «colluso» Andreotti. Insomma, un dato pare a questo punto pacifico: non è vero che lo Stato abbia sempre seguito, dopo la morte di Falcone, la strada della fermezza. No, non è così, e la marcia indietro passò proprio da uomini venerati come icone nazionali e considerati al di sopra delle beghe meschine della politica.
Il presidente dell’Antimafia Giuseppe Pisanu prova a mettere infila le date: fra il 27 e il 28 luglio avvengono le esplosioni diRomaeMilano.Il1˚novembre ’ 93 scade un altro blocco di provvedimenti 41 bis, ma nel frattempo Cosa Nostra tace. Imprevedibilmente, tre giorni dopo quella scadenza, il 4 e il 6 novembre, il ministro di Grazia e Giustizia non proroga il 41 bis a 140 detenuti. Se ne può desumere che la trattativa-ricatto abbia prodotto i suoi effetti fra il 29 luglio e il 6 novembre? Domanda inquietante cui Pisanu dà una prima risposta,nient’affatto tranquillizzante: «È comunque plausibile ritenere che l’organizzazione mafiosa avesse interpretato quella revoca come un cedimento o una concessione dello Stato per i colpi subiti».
Insomma, alla trattativa avviata nel ’92, secondo la magistratura palermitana, dal tandem Mori- Ciancimino si devono forse affiancare altri incroci fra pezzi delle istituzioni e frange criminali. E la scelta di Conso pare il punto d’arrivo di un percorso compiuto da diversi soggetti .
Ovvio, in questa situazione, porsi la solita domanda: ma se un’ammissione del genere,così devastante, l’avesse fatta Berlusconi o uno dei suoi ministri, che cosa sarebbe accaduto? Ora,battaglioni di scrittori e polemisti sarebbero all’opera, nel tentativo di far quadrare il cerchio e poter finalmente dimostrare antichi teoremi, da sempre insegnati anche se privi di riscontri. Invece, lo stesso Angelino Alfano alla fine dell’anno scorso consegnava alla stampa i numeri da guerra del 41 bis: «Ho disposto 168 provvedimenti in 580 giorni. I detenuti al 41 bis hanno raggiunto quota 645».
Giovedì prossimo i pm di Palermo ascolteranno proprio Nicolò Amato che a giugno ’93 è protagonista di un altro episodio controverso, da allineare alle anomalie di quel periodo oscuro: viene improvvisamente rimosso dalla direzione del Dap e torna alla sua professione di avvocato. Curioso: assume proprio la difesa di Vito Ciancimino. Tante suggestioni, anche contraddittorie, che precedono la svolta «umanitaria » di Conso. E dunque il regalo del governo Ciampi a Cosa Nostra sul 41 bis. Il no al carcere duro per paura delle bombe. Uno sfregio profondo alle istituzioni e un segnale di resa che, solo a ripensarci, fa venire i brividi.
Saviano , niente da dichiarare????
Esiste una moltitudine di Mafie.
Eliminandone una rimangono tutte le altre. Una di queste è lo Stato di polizia che succhia il sangue dei cittadini.
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