Da studente universitario, a Bologna, ero iscritto all’Unione goliardica, la fatidica Ugi che vide le gesta di tanti "fuori corso" (ricordiamo, per tutti, Marco Pannella e Bettino Craxi) che poi avrebbero avuto un ruolo nella politica italiana.
Erano i primi anni ‘60 e si parlava di un progetto di riforma universitaria presentato dal ministro democristiano Giovanni Gui. Noi ci riunivamo frequentemente alla Casa della Cultura (un’altra istituzione di quei tempi) e ascoltavamo lunghi interventi contrari al cosiddetto piano Gui (la scenografia era molto simile alla descrizione del cineforum in cui Fantozzi smitizzava con una battuta il celebre film "La corazzata Potiemkin", ma nessuno all’Ugi di Bologna aveva il coraggio di imitarlo).
Per capirci un po’ di più mi ero procurato il documento incriminato e lo avevo persino letto senza riuscire a capire i motivi per cui ricevesse tante critiche. Così, una sera mi rivolsi ad un ragazzo seduto vicino a me e gli chiesi a bruciapelo: "Perché siamo contrari al piano Gui?". L’interpellato rimase di stucco e mi guardò con l’aria di uno che si chiede: "Ma questo che cosa vuole da me? Che cosa gli ho fatto di male?". Poi capì che non poteva cavarsela e assumendo un’aria seria e compunta rispose: "Il piano Gui vuole l’efficienza dell’Università ma non l’Università efficiente". In quel momento pensai di aver smarrito qualche passaggio essenziale e non mi azzardai più a chiedere ulteriori spiegazioni. Mi restò tuttavia la convinzione - sempre confermata durante lo scorrere dei decenni e l’assistere ai tanti movimenti studenteschi succedutisi nel tempo - che a chiedere spiegazioni sui motivi di tante lotte, occupazioni, manifestazioni e scontri con le forze dell’ordine avrei ricevuto sempre la medesima evanescente risposta di quella nottata bolognese. Ecco perché trovo inutile "dialogare" con gli studenti che manifestano contro il disegno di legge Gelmini.
Mettono a soqquadro le città esibendo slogan deliranti, parole d’ordine stupidine, come se anche in politica si dovesse pagare il fio delle malattie esantematiche. Diverso è il caso dei ricercatori (ne parlano come se i nostri Atenei abbondassero di futuri premi Nobel incompresi, pronti ad essere ricevuti - se solo lo volessero - all’estero con tutti gli onori, ma desiderosi di dare il loro indispensabile contributo ad una patria matrigna). La realtà è un’altra ed è sempre la solita.
Da noi per decenni è valsa la seguente regola: chiunque fosse riuscito a varcare la soglia di un ministero, di una scuola, di un Ateneo o di un qualsiasi ufficio pubblico e a sedersi dietro ad una scrivania o ad una cattedra, magari restandoci per anni sulla base di rapporti di lavoro precari, acquistava un diritto a rimanerci, prima o poi, in maniera stabile. Così, anche in seguito ai vari blocchi del turn over, si sono accumulati centinaia di migliaia di precari, fino a quando non ci si è resi conto – con la crisi della finanza pubblica - che era impossibile stabilizzarli. Ma il cosiddetto precariato è diventato il metro di misura della qualità delle riforme, in quanto nessuno dei progetti di riordino dei diversi settori della pubblica amministrazione adottati da questo Governo è stato ritenuto adeguato dalla sinistra se non risolveva interamente – e non poteva farlo – la stabilizzazione dei precari.
E’ stato così con la riforma Brunetta. Poi è stata la volta della scuola primaria e secondaria (nonostante che il Governo avesse esteso ai precari rimasti senza incarico l’indennità di disoccupazione). Adesso siamo arrivati all’Università.
La pressione è tanto forte che gran parte dello stanziamento (circa un miliardo di euro) previsto nella legge di stabilità per gli Atenei è destinato alla riapertura dei concorsi per professore associato. Nessuno, tanto meno i media o quelli che salgono sui tetti, si è preoccupato di fornire qualche dato all’opinione pubblica che osserva esterrefatta il disordine creato nelle città contro il ddl Gelmini in discussione alla Camera.
In Italia esiste il medesimo numero di Atenei della Germania, una nazione che ha qualche decina di milioni di abitanti in più. Tenendo conto delle tre fasce del personale docente (ordinari, associati e ricercatori) da noi esiste un docente universitario ogni 27,7 studenti iscritti.
Nella scuola primaria e secondaria uno ogni 10 circa. Che altro dire, se non porre qualche semplice domanda ai manifestanti: impiegare più proficuamente le risorse non è forse un modo per averne di più a disposizione? E ancora: è possibile risolvere i problemi del sistema universitario soltanto garantendo posti di lavoro? (l'Occidentale)
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