lunedì 17 gennaio 2011

Pecoreccio giudiziario. Davide Giacalone

L’idea di dover subire un nuovo capitolo della telenovela politico-giudiziaria è sconfortante. Fra le cose di cui l’Italia ha bisogno non c’è un’ennesima inquisizione, con l’ennesima accusa di strumentalizzazione. Basta. Tutte le persone intelligenti sanno che si tratta di una patologia pericolosa, sebbene tutti restino prigionieri di una faziosità dissennata, talché le inchieste su Silvio Berlusconi portano a tutto, tranne che a ragionamenti razionali. Si passa dalla mafia al pecoreccio, senza in nulla scalfire le contrapposte tifoserie. Forse si crede che la materia, proprio perché licenziosa, intrighi il pubblico ed ecciti la fantasia. Credo, all’opposto, che annoi e ammosci. E’ tutto inutile, già scritto, scontato. Anche deprimente.

Dal punto di vista formale e istituzionale esiste un solo modo serio di affrontare la questione: a. nessun cittadino può mai essere considerato colpevole di niente, fino ad una sentenza definitiva che lo condanni, e un’inchiesta non somiglia, neanche minimamente, a un verdetto; b. la magistratura indaga laddove ritiene esista una notizia di reato, essendo a questo tenuta dall’obbligatorietà dell’azione penale. Ma neanche la correttezza formale ha più senso, perché quindici anni d’inquisizione inutile, inconcludente o pretestuosa stroncano qualsiasi fiducia nella giustizia. Sul caso specifico, sull’ultimo grido dell’indagine inutile, noi peripatetici da strada sappiamo già quel che c’è da sapere: 1. un presidente del Consiglio non può consentirsi una condotta così priva di rispetto per il decoro; 2. una magistratura seria non spreca tempo e denaro per indagare debolezze privatissime, che solo l’incubo inquisitorio può considerare reato. Il resto sono solo settimane e mesi di masochismo nazionale.

E’ scontato che si scateneranno nuove polemiche, tendenti a negare le due evidenze che abbiamo appena riassunto. Ma se si solleva la testa dal caos e dal vociare non può non essere evidente che la radice del problema sta nel biennio 1992-1994, quando l’azione delle procure si sostituì alla volontà popolare e una classe politica fu cancellata senza che abbia mai perso le elezioni. Se non si torna a esaminare e onestamente descrivere quegli eventi, se si continua nella contrapposta finzione del presupporre infondate tutte le accuse o cospiratori gli inquisitori, si resterà ad annaspare in una pozza melmosa, ove l’Italia ha disperso e continua a disperdere molte energie.

La condotta privata di un governante può, e per certi aspetti deve, essere oggetto di pubblica discussione. Ma la pretesa che sia l’ordine giudiziario a utilizzare quel tema per cancellare o ribaltare i giudizi elettorali è fuori da ogni logica del diritto. Se una tale demolizione dell’ordinamento continua a esistere è perché l’Italia continua ad essere inzuppata di cultura antidemocratica, quella, per intenderci, secondo cui il “giusto” e il “vero” devono sempre trionfare, anche contro la volontà della maggioranza. Dottrina dispotica e liberticida, perché trascura un dettaglio: chi stabilisce cosa siano il giusto e il vero? Se la risposta è: un pubblico ministero, la controrisposta può lecitamente essere una pernacchia.

E’ non solo normale, ma doveroso, che il governo si difenda da questo genere d’assalti. Ferma restando la necessità di condotte meno indifferenti al ruolo che si ricopre. Non è normale e non è giusto che si continui a farlo senza andare al cuore istituzionale del problema, ponendo rimedio al dilagare della malagiustizia, della giustizia negata, di quella politicizzata. Nell’interesse di tutti.

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