mercoledì 22 agosto 2007

Una marcia per la legge Biagi. Davide Giacalone

Una sinistra che avesse cultura di governo difenderebbe essa la legge Biagi, ne rivendicherebbe l’origine culturale, vi riconoscerebbe l’impegno per la difesa dei diritti dei lavoratori più giovani. Una sinistra approssimativa, orecchiante, ideologica ed incattivita dall’impotenza e dall’inutilità sta passando mesi a dire corbellerie ripugnanti sulla legge, attribuendole fenomeni, come il “precariato”, che quella combatte. Non è solo il caso di chi usa il linguaggio dei terroristi, senza neanche averne la totale e conseguente deficienza, perché a quello sport partecipano anche quanti si nascondono dietro l’ipocrisia di voler “superare” la Biagi. Ha, quindi, ragione totale Giuliano Cazzola, che convoca per il 20 ottobre una manifestazione a sostegno non solo di quella legge, ma di quel modo di ragionare sui temi del lavoro.Qualcuno ha osservato che non servono contrapposizioni e piazze di colori diversi. Avrebbe dovuto accorgersene nel mentre si diffondevano concetti e dati del tutto sballati, con i quali s’avvalorava l’idea che la fine del lavoro fisso ed a vita sia una specie di scelta politica e non un prodotto della realtà. Prodotto, oltre tutto, che non è affatto negativo in sé. E’ evidente che unire basso reddito ad instabilità dell’impiego rende difficile la costruzione del futuro, ma dato che l’alternativa è la disoccupazione, quindi l’impossibilità di quella costruzione, si deve mettere mano alla modifica di quel castello di garanzie tutto incentrato su un tipo di lavoro (quindi anche di cittadino) che c’è sempre meno. L’Italia ha una spesa pubblica enorme, in questa c’è una spesa sociale fra le più alte d’Europa, ma se poi si va a vedere quanto è destinato a giovani, disoccupati e svantaggiati scendiamo agli ultimi posti. Dove finiscono i soldi? In pensioni. Abbiamo scelto di privilegiare chi ha avuto un lavoro fisso piuttosto che aiutare chi non ce l’ha. Dobbiamo invertire la rotta, per ragioni d’equità e giustizia.Una politica che ozia attorno alle parole ovviamente banali del cardinal Bertone (pagare le tasse è un dovere, ma devono essere giuste), fatica a capire che il nostro fisco e la nostra spesa pubblica ci indeboliscono. Il realismo riformista della legge Biagi è un buon metodo per adattare gli ideali alla realtà. Va difeso con determinazione.

martedì 21 agosto 2007

Al direttore - I dati di un rapporto di Human Rights Firts sul continuo aumento dei crimini provocati in Europa dall’odio razziale, sessuale e religioso sono stati presentati ieri da Repubblica con questo intrepido titolo: “L’Europa è sempre più razzista. Cresce l’odio verso gay, ebrei e musulmani”. Quale equanime equidistanza equiparatrice! Una così concisa e toccante espressione del nostro profondo bisogno di scoprire la segreta equivalenza, l’intima equipollenza, insomma l’assoluta equiparabilità di tutti i razzismi oggi imperversanti in Europa non può non indurci a incoraggiare il grande quotidiano fondato da Eugenio Scalfari a rivelare al più presto i nomi di tutti quei gay e quei giudei europei che non fanno che sgozzare musulmani.
Ruggero Guarini

lunedì 20 agosto 2007

L'Invincibile Armata del sindacato. Antonio Mambrino

http://www.loccidentale.it/node/5561

A proposito di caste, quella del sindacato in Italia non è seconda a nessuno.
Un articolo da non perdere.

Ci vuole lo Stato. il Foglio

Il professor Prodi elude il problema ’ndrangheta con la sociologia.

Pare che la specialità di Romano Prodi sia diventata quella di eludere i problemi con qualche frase evocativa che ha solo l’effetto di spostare l’attenzione dalla durezza della realtà a un mondo rarefatto di buoni sentimenti puramente retorici. L’ultimo esempio di questa attitudine è il suo commento all’inesauribile faida calabrese, segno di una preoccupante incapacità dello stato di far rispettare le sue leggi. Invece di dire che cosa intende fare, se pensa di mandare nuove forze dell’ordine, se vuole impiegare l’esercito, come si è fatto altrove con effetti significativi, se pensa a un intervento straordinario sulle amministrazioni locali a rischio di inquinamento o su quella regionale ancora lacerata dall’insoluto caso dell’assassinio Fortugno, il capo dell’esecutivo si è lanciato in una lirica esaltazione della funzione risanatrice dei giovani in quella terribile situazione. Basta pensare all’effetto che faranno queste frasi sull’opinione pubblica internazionale, e soprattutto tedesca nel caso specifico, per rendersi conto della distanza incolmabile che si dimostra tra la gravità e l’urgenza di una situazione insostenibile e i vaneggiamenti retorici e sociologici proposti in alternativa a interventi concreti. D’altra parte i giovani che vivono in Calabria risentono della condizione generale che pesa come una cappa su molti territori nei quali la presenza dello stato è aleatoria o, peggio ancora, rappresentata solo dallo sfoggio di auto blu di sfrontati esponenti politici. In queste condizioni, l’appello a giovani che non trovano lavoro a causa di un’economia che non decolla per la morsa insopportabile della criminalità che si somma ai costi del clientelismo, un’arretratezza dalla quale non ci si libera senza un forte ancoraggio a una legalità garantita da uno stato che si fa rispettare, appare addirittura beffardo. Le speranze che la protesta dei giovani calabresi dopo l’assassinio Fortugno avevano suscitato sono destinate a disperdersi e rifluire se non si potranno appoggiare su un’azione decisa e crescente dello stato. Quest’azione non c’è stata, e la faida d’esportazione dimostra questo, non la tesi consolatoria che si uccide in Germania per evitare il controllo del territorio esercitato dalle forze dell’ordine in Calabria. E’ vero il contrario: la logica della vendetta, che è l’opposto della giustizia, cresce a dismisura a causa dell’impotenza di uno stato ridotto al ruolo di sociologo.

Ho querelato Bonini, D'Avanzo e Travaglio per diffamazione. Paolo Guzzanti

Quando ho promosso un’azione giudiziaria civile di danni per diffamazione da parte dei signori Travaglio, Bonini e D’Avanzo per alcuni loro articoli, qualcuno - specialmente sui blog nemici - ha avuto da ridire sostenendo che io avrei avuto paura a citare in giudizio i predetti signori affinché possano rispndere penalmente del loro operato.
Avendo trovato l’obiezione fondata ho dato mandato allo Studio Giordano di presentare querela per diffamazione contro i sunnominati giornalisti e ho appena ricevuto comunicazione che la querela è stata assegnata ad un pubblico ministero per le indagini preliminari.
Adesso posso dire soltanto che mi affido alla magistratura in cui dichiaro di avere piena fiducia.
Sono convinto che non tanto io, quanto il popolo italiano abbia bisogno di verità. Ricordo anche che quando io mi presentai il 1 dicembre 2005 alla televisione privata (dalemiana) “Nessuno Tv” diretta dal bravo Mario Adinolfi (www.marioadinolfi.ilcannocchiale.it”) io narrai tutti i dubbi che avevo fino a quel momento documentato sul passato del professor Romano Prodi e i suoi presunti rapporti con organismi speciali della vecchia Unione Sovietica.
La mia intervista, come riferisce Adinolfi, fu ripresa dal britannico Indipendent. Il giorno stesso Romano Prodi rilasciò alle agenzie una dichiarazione in cui si diceva che “Questa volta a Guzzanti risponderanno i miei legali”. Ma i legali di Prodi non si sono mai fatti vivi, con mia grande frustrazione.
Fu così che nel mese di dicembre 2006, un anno dopo e dopo la morte di Litvinenko, dagli studi Rai di RaiNews 24 io rivolsi un pubblico appello al Presidente del Consiglio Prodi affinché mi querelasse, allo scopo di fare agli italiani, noi due insieme, io e lui, il più bel regalo di Natale e cioè una promessa di cercare e mostrare la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità.
Purtroppo la mia accorata e sincera richiesta, espressa in modo rispettoso e persino amichevole, cadde nel vuoto e non fui querelato.
Nel maggio scorso raccolsi una feroce intervista a viso aperto del grande intellettuale in esilio Vladimir Bukovsky e la pubblicai sul Giornale. Il giorno successivo un comunicato alle agenzie di stampa annunciava che l’editoriale L’Espresso, editore di Repubblica, aveva dato mandato a due importanti studi legali, di agire nei confronti di intervistato e intervistatori.
Non se ne è più saputo nulla.
Di conseguenza, ho ritenuto un mio dovere, a prescindere da quanto riguarda l’eventuale risarcimento del danno subito, proporre alla Magistratura, in cui ho fiducia, di voler esaminare almeno alcuni aspetti della grave e complessa vicenda.
Vi sarò grato se vorrete esportare questo annuncio sui blog amici e meno amici, affinché la notizia almeno nella blgosfera sia pubblica.
Avverto inoltre tutti che ho difficoltà di collegamento e che quindi riesco a regolare il blog quando posso, ma spero da lunedì di tornare alla normalità comunicatva.
Un caro saluto a tutti
Paolo Guzzanti

Il ritorno del Cavaliere al movimentismo. Mario Sechi

Mancava all’appello e puntualmente è arrivato il tormentone di fine estate: il nuovo partito di Silvio Berlusconi. I rumors messi nero su bianco dai colleghi de La Stampa hanno avuto l’effetto di surriscaldare il clima nel partito e nel centrodestra. Berlusconi ha smentito che vi sia un progetto per costituire un nuovo partito, ma al di là del tourbillon di dichiarazioni e fibrillazioni varie (dentro e fuori Forza Italia), resta una domanda fondamentale sulla quale vale la pena riflettere: il centrodestra ha bisogno di un aggiornamento delle idee, dei programmi e - perché no? - del marketing politico? Noi crediamo di sì e questa «rifondazione» si può fare in vari modi. Silvio Berlusconi è un leader che ha sempre anticipato e interpretato l’umore del cittadino medio. È stata perfino inventata una categoria, il «berlusconismo», che in fondo ha fotografato un tratto importante della complessa società italiana. Il «tocco» di Berlusconi ha un nome, si chiama «carisma», merce ormai rara nel mondo della politica italiana. È per questo che Forza Italia secondo i politologi è un «partito carismatico». A sinistra - e vista la loro storia è un paradosso - si tende a dare una lettura negativa di questo fenomeno, ma in quasi tutte le democrazie occidentali si è assistito all’alleggerimento del peso dei partiti da una parte e alla crescita del potere e delle funzioni del leader dall’altra (pensate a Sarkozy in Francia e Zapatero in Spagna). Forza Italia in questo senso è certamente il partito più moderno sul mercato della politica e Berlusconi ne è consapevole. Forza Italia è un movimento che si è istituzionalizzato, ha governato e fatto opposizione a livello nazionale e locale, è un partito che ha radici più solide di quanto si creda: raccoglie il 33 per cento dei consensi, ha un gruppo di vertice che non è affatto al di sotto della media degli altri partiti, conta 500mila iscritti, 70mila eletti nelle istituzioni e alla fine dell'anno avrà celebrato 4mila congressi locali. Non ci pare un «partito di plastica».

È indubbio che Forza Italia dipenda dal suo leader, ma questo vale anche per gli altri partiti del centrodestra: cosa ne sarebbe di An senza Gianfranco Fini o dell’Udc senza Pier Ferdinando Casini? La «diversità» di Berlusconi è nel suo ruolo trainante sull’elettorato moderato, nella sua capacità di catturare voti (e questi in politica si contano, non si pesano) e nella sua immagine di «outsider», uomo «dentro» la politica e nello stesso tempo «fuori» dal Palazzo. Queste qualità sono appunto quel «carisma» con il quale si possono fare molte cose - basta leggere un po’ di storia - tranne che però è fondamentale: trasferirlo agli altri. Forza Italia e i suoi alleati non devono preoccuparsi della «successione», è un tema che non esiste, è l’isola che non c’è, nel momento in cui Berlusconi continua a fare Berlusconi, un mix di fantasia e improvvisazione che ha evitato a Forza Italia e al suo leader di diventare un prodotto «fuori moda» nel mercato della politica. Ci sarà da preoccuparsi, semmai, nel momento in cui Berlusconi dovesse usare - nella comunicazione e nel modo di fare - i metodi del classico uomo politico italiano.
Fin qui, abbiamo fotografato una situazione che non è statica, ma in rapido movimento e agganciata agli eventi in corso nel centrosinistra. Berlusconi ha in mente un possibile scenario di elezioni anticipate e - da grande organizzatore qual è - si muove di conseguenza. Ha perso le elezioni per 24mila voti e stavolta cerca di allargare il più possibile il consenso intorno al centrodestra. Non si ripetono gli stessi errori, ecco perché dialoga con le «nuove Dc» - senza pensare affatto che siano un’alternativa all’alleato Udc - e perché ha rimesso in moto uno schema già collaudato nel 1993 con la nascita di Forza Italia: i circoli. Nel momento in cui soffia il vento dell’antipolitica, il Cavaliere ritorna al movimentismo. E qui entra in gioco la figura di Michela Vittoria Brambilla. Fino ad oggi è stata un’invenzione di Berlusconi, ciò non toglie che possa diventare anche altro, ma per il momento dovrebbe pesare meglio la sua effettiva forza e crescere in autonomia. Il suo ruolo è quello di organizzare i circoli, portare un pezzo importante di società civile vicino alla politica, dalla quale si sente esclusa o addirittura respinta. È uno schema usato anche da altre formazioni, in vario modo: i Ds usano le associazioni e le feste dell’Unità, a destra esistono da anni circoli e fondazioni di varia ispirazione, i Verdi si rivolgono alle associazioni ambientaliste, i neocomunisti fanno riferimento ai centri sociali e al mondo noglobal, i post-democristiani dialogano con una rete di associazioni cattoliche. Forza Italia ha bisogno di una sua rete non-politica, non può dialogare in modo intermittente con la società.

Tutto questo significa - come qualcuno paventa - la fine di Forza Italia? Noi crediamo di no, per il semplice motivo che il partito azzurro «esiste» e cancellarlo sarebbe un’impresa titanica e politicamente dispendiosa. Detto questo, la struttura dirigente del partito dovrebbe essere abbastanza matura da sapersi rimettere in gioco e in discussione, accettando la competizione interna.
Ci si chiede: è possibile cambiare nome a Forza Italia? Certo che si può fare, ma è assai rischioso. Berlusconi è un uomo che conosce il marketing e sa valutare il valore del «brand», del marchio. Forza Italia, per intenderci, è conosciuta da tutti gli italiani di qualsiasi età ed estrazione sociale, persino all’estero ha avuto dei tentativi di imitazione. Il cambiamento del nome (e della ragione sociale), a nostro modesto avviso, potrebbe avvenire solo in alcune circostanze ben precise: una è endogena, cioè la fusione di più partiti del centrodestra (e presto si porrà sul tavolo dell’alleanza il tema della cooperazione e del programma); l’altra è esogena, perché se il Partito Democratico riuscisse miracolosamente a ridurre la polverizzazione a sinistra, arrivando a presentarsi come un partito da schema bipolare quasi-perfetto, allora a destra non potrebbero restare a guardare. Questo scenario, per ora, non è alle viste, ma poiché la politica è fatta soprattutto di fantasia e immaginazione, un leader di partito - Berlusconi più di tutti - non sbaglierebbe a rifletterci e valutare le mosse con largo anticipo.

L'ora dei nervi saldi. Tito Boeri

Non è bello scoprire di avere subito perdite in conto capitale. Sarà questo, tuttavia, il sentimento di molti piccoli risparmiatori italiani al rientro dalle ferie. Si sentiranno come traditi dai mercati, proprio mentre avevano staccato la spina. Il crollo dei listini scatenato dalla crisi dei mutui ipotecari statunitensi ha praticamente azzerato i guadagni di borsa degli ultimi 12 mesi, riportando gli indici di Piazza Affari sei punti al di sotto dei valori a inizio anno. Inevitabili, anche se in genere molto più contenute, le ripercussioni sul risparmio gestito. Anche chi non ha né direttamente né indirettamente sottoscritto obbligazioni strutturate o acquistato altri strumenti finanziari che contengono i debiti a rischio contratti sul mercato dei mutui ipotecari statunitensi si trova così a subire delle perdite. Il mercato tende in questo momento a drammatizzare ogni notizia negativa proveniente da ogni parte del mondo. Quindi non sono affatto da escludere nuove pesanti sedute di Borsa, non appena emergeranno sui mercati finanziari internazionali nuove istituzioni coinvolte nella crisi. E queste sorprese negative sono tuttora possibili perché le innovazioni finanziare degli ultimi 10 anni - a partire dalle cartolarizzazioni ben note al pubblico italiano per l'ampio ricorso fattovi dal governo italiano nella passata legislatura - fanno sì che sia molto difficile ricostruire chi esattamente detiene i debiti a rischio e in quale misura.

Eppure è bene tenere i nervi saldi, evitando di realizzare le perdite, soprattutto se si tratta di investimenti che hanno orizzonti lunghi. La crisi attuale è stata eccessivamente drammatizzata da molti giornali italiani (non dalla Stampa!).

Alcuni hanno addirittura voluto evocare la crisi del 1929! Niente di più diverso dalla crisi attuale. La Grande Depressione del secolo scorso era partita da un tracollo della produzione, da una crisi dell'economia reale, accentuata dalla reazione delle banche centrali, che avevano chiuso i rubinetti del credito alle imprese in difficoltà. Oggi veniamo da anni di forte crescita dell'economia mondiale e i banchieri centrali hanno bene imparato la lezione, come testimoniato dalle massicce iniezioni di liquidità di questi giorni. Non stupisce perché Ben Bernanke, oggi alla guida della Federal Reserve, è stato proprio uno dei maggiori studiosi della Grande Depressione del 1929. No, la crisi attuale ricorda semmai quella del 1998 di cui molti italiani hanno perso memoria, a riprova del fatto che queste crisi appaiono nell'immediato dirompenti, ma vengono anche rapidamente superate. A differenza del 1998 oggi molte attività, a partire dai titoli di Stato, sono rimaste fortemente liquide. L'uso dei titoli di Stato come bene rifugio contribuirà tra l'altro a ridurre, almeno transitoriamente, gli oneri sul nostro debito pubblico. Quindi non tutte le notizie sono negative, soprattutto per chi aveva titoli di Stato in portafoglio.

I nervi saldi li dovrà tenere anche il governo, spinto in queste ore in tutte le direzioni. Il sindacato, per bocca di Bonanni, chiede imprecisate «garanzie» che nessuno, neanche la Fed, può dare e si sentono da più parti richieste di accentuare ulteriormente il grado di regolamentazione del nostro sistema bancario. Non bisogna invece dimenticare che proprio la forte regolamentazione del nostro sistema bancario, la sua arretratezza di fronte alle innovazioni finanziarie, non ci hanno posti al riparo dalla crisi. E che una reazione alla crisi che dovesse oggi ulteriormente scoraggiare le banche italiane dal prendersi rischi avrebbe effetti pesanti e, questo sì, duraturi sull'economia reale. Se c'è una cosa che difetta al nostro Paese è proprio la presenza di banche disposte a rischiare capitali in progetti innovativi, business angels e venture capitalists che consentano a idee nuove di essere finanziate e sviluppate.

Sbagliato anche chiudere le porte alla diffusione di quegli strumenti finanziari oggi messi alla gogna, perché consentono una migliore e più ampia ripartizione del rischio di insolvenza. Il vero problema legato alla diffusione di questi prodotti è che possono indebolire ulteriormente la capacità dei nostri intermediari finanziari di selezionare il rischio, di fatto deresponsabilizzando molti gestori. Il modo giusto di uscire dalla crisi consiste allora nel rafforzare il rating non solo degli strumenti finanziari, ma anche delle banche e dei gestori, mettendo al contempo in luce i conflitti di interesse che caratterizzano i responsabili del collocamento di molti prodotti finanziari. Bene anche rafforzare la capacità di informare tutti i cittadini su prodotti finanziari oggi incomprensibili ai più come molte obbligazioni strutturate. È questo un compito che dovrebbe essere proprio delle stesse autorità di controllo dei mercati, come avviene in altri Paesi.

giovedì 16 agosto 2007

Hamas fa di Gaza un ghetto. il Foglio

Il gruppo islamico opprime la popolazione palestinese tenendola in ostaggio.

E’ in corso una campagna di opinione falsamente venata di spirito umanitario sulla condizione dei palestinesi di Gaza. La condizione di queste persone è tragica, e lo è da molti decenni, a cominciare dal periodo nel quale, sotto il governo egiziano, non si fece nulla per dare qualche soluzione ai problemi dei profughi che si erano riversati lì. Oggi, dopo il ritiro unilaterale delle truppe israeliane e la guerra intestina tra i palestinesi che ne è conseguita, Gaza è sotto il controllo della fazione terroristica di Hamas, che non accontentandosi di gestire il governo ha voluto prendere tutto il potere, com’è naturale che facciano i partiti armati. E’ di questa dittatura faziosa che soffre la popolazione, alla quale è vietato anche protestare per decisione del partito teocratico che la tiene in ostaggio. Eppure due giorni fa, al grido di “vogliamo la libertà”, ci sono stati manifestanti a Gaza pronti a sfidare i divieti di Hamas pur di farsi sentire anche dal presidente del Consiglio italiano Romano Prodi. Se a Gaza c’è un ghetto i suoi carcerieri sono i miliziani islamisti, non Israele, non l’Autorità palestinese che di lì è stata cacciata da un colpo di stato. L’idea che bisognerebbe finanziare gli aguzzini della popolazione di Gaza per ragioni umanitarie, concedendo ai terroristi dopo il golpe quello che fu negato loro quando rispettavano, almeno formalmente, le regole del gioco, è del tutto irragionevole, con buona pace di Massimo D’Alema e di Prodi, che hanno scelto la causa più sbagliata per segnare il loro distacco dall’Europa, dall’America e da Israele e, in sostanza, dal legittimo governo e dal popolo palestinese.

Una crisi annunciata. Emanuela Melchiorre

Come avevamo da tempo previsto, scrivendo per le pagine di questo periodico della crisi del mercato immobiliare statunitense prima e della crisi finanziaria asiatica poi, la crisi finanziaria odierna, che fa discutere i giornali specializzati e gli esperti di tutto il mondo, si è già diffusa a livello planetario ed è iniziata dal mercato dei titoli derivati dai mutui, in maggior misura da quelli relativi ai subprime, ossia i mutui «di seconda scelta». È notizia di questi giorni che la Banca centrale europea e la Federal riserve hanno immesso, a più riprese, liquidità nei rispettivi mercati creditizi, per tentare di arginare la crisi dell'insolvibilità dei mutui subprime.

La reazione a catena, che è stata innescata dal mercato finanziario connesso al mercato immobiliare statunitense, ha seguito un percorso tortuoso, ma in parte prevedibile. Sono stati concessi con facilità e in grande quantità mutui ad una clientela a forte rischio di insolvenza. Tali mutui sono divenuti titoli venduti sul mercato mobiliare e acquistati da fondi di investimento specializzati nelle transazioni ad alto rischio, ma anche da fondi comuni di investimento, e quindi sottoscritti da comuni risparmiatori, tramite il canale delle cartolarizzazioni. Allo stesso tempo, il mercato immobiliare statunitense, in particolare, e quelli di tutti gli altri paesi industrializzati, hanno visto un forte incremento del prezzo di mercato degli immobili, in seguito ad atteggiamenti fortemente speculativi degli operatori economici. Si è creata e sviluppata una grande bolla speculativa, che come tutte le bolle prima o poi doveva scoppiare. C'è stata una dissociazione mai vista prima tra il valore reale delle abitazioni e il loro prezzo di mercato, che in molti casi si è triplicato senza alcuna giustificazione.

La rivendita a prezzi speculativi degli immobili acquistati con mutui ha fatto sì che venissero liberate risorse e, quindi, che la liquidità generale aumentasse e con essa anche il consumo e la produzione, ma anche il rifinanziamento del mercato creditizio. Il circolo vizioso si è spezzato nel momento in cui i tassi sui mutui sono cresciuti e il prezzo delle case ha cominciato a scendere. Molti debitori subprime hanno cominciato a fallire in seguito alla perdita di valore delle case usate a garanzia dei propri debiti. L'insolvenza di tali debiti, data la loro diffusione, ha comportato una crisi di liquidità dell'intero sistema creditizio.

È presumibile pensare che gli effetti delle crisi di liquidità avranno ripercussioni anche nei «fondamentali», ossia nell'economia reale e della produzione. Infatti, il mercato immobiliare ha una natura di forte correlazione con gli altri mercati della produzione e dei servizi. Il cosiddetto «moltiplicatore> del settore delle costruzioni è molto elevato. Come si diceva una volta «quando la casa va, tutto va». L'indotto sia a monte che a valle è di grandi dimensioni. Il crollo della produzione di immobili potrebbe avere forti ripercussioni su tutta l'economia reale. La sensazione che si ha, inoltre, è che i mercati finanziari siano divenuti molto volatili e progressivamente più correlati tra loro, in seguito alla sempre più frequente pratica dell'investire in borsa, al «fare finanza» da parte degli imprenditori, ma anche da parte di piccoli risparmiatori, sicuramente disinformati e inesperti.

In una situazione di allarme, come quella attuale, due fatti salienti di cronaca monetaria ci fanno trasalire per la loro irresponsabilità e per gli effetti perversi che potrebbero generare. Il primo riguarda l'intenzione del nostro Governo di vendere le riserve auree della Banca d'Italia per fare fronte al debito pubblico. Inutile sottolineare quanto tale mossa abbia fatto perdere la faccia all'Italia di fronte all'intera Europa. Una simile pratica è, infatti, contraria al Trattato di Maastricht, che per quanto quest'ultimo sia d'ostacolo alla crescita dell'economia italiana, come più volte sottolineato, costituisce comunque un trattato sottoscritto e accettato dal nostro Paese e che, nel bene o nel male, va rispettato o altrimenti, come ci auguriamo presto, cambiato, ma comunque mai infranto. Dobbiamo, quindi, registrare un'altra bocciatura in sede comunitaria, che ironicamente è causata dalle illogiche scelte di politica monetaria ed economica proprio di colui il quale ricoprì la carica di presidente della Commissione europea. Sullo stesso piano deve essere posto il ministro dell'Economia, ex vicedirettore generale del nostro istituto di emissione ed ex membro del consiglio della Banca centrale europea. Non molto tempo fa fu definito il peggiore ministro dell'economia nell'ambito dell'eurozona.

Il debito pubblico italiano non può, inoltre, essere colmato dalla vendita delle riserve auree della Banca d'Italia poiché, oltre al vincolo di Maastricht (art. 105 del Trattato europeo), l'Italia è vincolata anche dal Central Bank Gold Agreement (Cbga), firmato nel settembre 2004 dalla Bce e da 14 delle Banche Centrali europee (Italia inclusa), che permette di cedere un massimo di 500 tonnellate di oro all'anno. La vendita di parte delle riserve auree effettuata dalle banche centrali aderenti alla Bce si inquadra nel contesto dell'euro, moneta più stabile delle singole ex monete nazionali, e che quindi non richiede le ingenti riserve accumulate nel passato dalle suddette banche centrali a difesa della propria moneta.

Dalle ultime statistiche risulta che nel 2007 siano state già vendute 294 tonnellate, altre 206 sono cedibili fino al prossimo settembre, quantità quest'ultima del tutto insufficiente per colmare il debito pubblico, come erroneamente sostenuto dal Governo. Inoltre, le vendite di oro seguono una prassi che ha confini ben precisi: i proventi delle vendite, che possono essere effettuate solo in piena autonomia dalla Banca centrale, entro i limiti del Gold Agreement del 2004, debbono essere reinvestiti in titoli di Stato, una voce che comporta un reddito in termini d'interesse. Questo reddito sarebbe l'unica parte iscritta al conto profitti e perdite della Banca centrale nazionale e, a fine esercizio, trasferita al Tesoro. In sostanza la vendita di riserve auree non farebbe altro che aumentare il debito pubblico e il carico degli interessi. Per ridurre il debito pubblico non c'è che una via, ridurre le spese correnti che al contrario, con l'attuale Governo, sono lievitate sensibilmente, sia a livello centrale che a livello locale.

Ma la chiave di volta per ridurre il peso relativo del debito pubblico rimane sempre la crescita del sistema economico italiano almeno del 3 per cento in media l'anno e il recupero della produttività del lavoro e della produttività totale. Per la cronaca, giova ricordare che la spirale del debito pubblico italiano fu innescata dal divorzio fra la Banca d'Italia e il Tesoro nel 1981 e successivamente con l'internazionalizzazione di detto debito con l'emissione di titoli della Repubblica italiana piazzati a Londra al tasso del 9 per cento per la durata di trent'anni. Gli autori di questi misfatti economici non sono stati mai puniti e nemmeno rimproverati, protetti dai cosiddetti «poteri forti».

Grazie all'agire tempestivo della Bce, che ha posto il veto alla vendita delle riserve auree, si è risolto questo angoscioso problema e la Banca d'Italia potrà ancora disporre dello strumento che garantisce l'immissione di liquidità nel mercato creditizio tramite il meccanismo del moltiplicatore monetario keynesiano. La stessa Banca centrale europea ha però minacciato, ancora una volta, di alzare i tassi di interesse a settembre, per tutelare l'economia europea dal rischio di inflazione. Vale la pena sottolineare che la situazione attuale di crisi finanziarie a catena, che stanno tormentando le borse di tutto il mondo, è stata innescata proprio dall'aumento del tasso di interesse sui mutui immobiliari, pertanto una scelta tanto intempestiva di aumentare ulteriormente i tassi di interesse equivarrebbe a gettare benzina sul fuoco dell'esplosione della bolla speculativa. Ma va anche detto che le bolle speculative debbono scoppiare e bene sarebbe non farle sorgere o almeno farle abortire appena si manifestano.

Sono, invece, confortanti le scelte e le parole di Bernanke, il governatore della Federal Riserve, il quale ha scelto di non aumentare i tassi di interesse e sostiene che, nonostante le avversità finanziarie, i fondamentali dell'economia statunitense «tengono», nel senso che l'economia statunitense non mostra segni evidenti di cedimento e che continua a crescere anche se non più a tassi elevati. Siamo di fronte a un rallentamento dell'economia internazionale e l'Italia non riuscirà a conseguire l'incremento del Pil contrabbandato dal governo. Non ci resta che augurarci che le previsioni del governatore della Fed siano corrette e che le aspettative degli operatori economici non siano realmente invertite, ossia che quelli che Keynes chiamava gli animal spirits continuino a credere nella crescita mondiale.

martedì 14 agosto 2007

Le code ai consolati ora ci fanno paura. il Giornale

Se qualcuno nutre ancora dei dubbi sugli effetti che l’azione del nostro governo sta provocando nelle comunità musulmane e nel Paese, ecco i dati di una nuova ricerca condotta dal giornale «Almaghrebiya». È stato chiesto a un campione di immigrati - uomini e donne, su tutto il territorio nazionale - se a loro avviso si stesse facendo abbastanza per contrastare l’estremismo islamico. Ha risposto di «no» il 65 % di loro e una percentuale ancora maggiore (oltre il 70 %) ha specificato che al contrario l’islam più radicale sta ampliando in Italia la sua presenza e la sua influenza. Una percentuale ridotta ma significativa (35%) ritiene anche che si stia diffondendo tra la popolazione musulmana un sentimento di «ostilità» superiore al sentimento di «fiducia» in una vera integrazione. Risposte impietose che trovano la loro prima motivazione, secondo l’80% degli intervistati, nel proliferare indisturbato di moschee e scuole islamiche che hanno ampliato l’area di intervento dell’islam più radicale e il suo peso nella vita delle comunità.
E, in secondo luogo, nell’avanzata dei «ghetti islamici» nelle periferie di molte città, terreno ideale per la propaganda e la cultura della «jihad». A proposito dei centri islamici, il 43% degli intervistati sottolinea come stia aumentando il numero di chi li frequenta e come questo incremento rappresenti un fattore di isolamento che aumenta il rischio di contrapposizione tra il mondo islamico e la società italiana. Alle donne del campione è stato poi chiesto se ritenevano che l’attuale governo si stesse adoperando efficacemente per la tutela dei loro diritti. Il fronte del «no» ha raccolto una percentuale che supera l’80%. In cima alle motivazioni la mancata tutela dalle violenze, l’assenza di un vero programma di istruzione e la sistematica mortificazione del ruolo delle immigrate nei luoghi dove si discute della loro situazione. L’ultima domanda riguarda le leggi sull’immigrazione. Di certo a sorpresa per chi si prepara a cancellare i provvedimenti della Bossi-Fini, una larga maggioranza degli intervistati (il 63%) si è pronunciata a favore di leggi rigorose che prevedano filtri, controlli e regolamentazione dei flussi. Uno dei promotori della ricerca di «Almaghrebiya» è appena tornato dal Marocco. Gli amici di laggiù gli hanno consigliato di fare una visita a Casablanca, in avenue Hassan Souktani: «Vedrai qualcosa che neanche riesci a immaginare».
Ha accolto l’invito e si è trovato davanti a una folla sterminata che prendeva d’assalto gli uffici del Consolato italiano. È così da tre settimane, da quando si è diffusa la notizia dell’ultima circolare emanata dal ministero dell’Interno, quella che di fatto spalanca le porte a un’immigrazione senza barriere. Al Consolato lavorano quattro impiegati che non sanno più come fare ad arginare quella marea umana, pronta a riversarsi nel nostro Paese. «Arrivano in massa», dicono: «Uomini barbuti che non spiccicano una parola in italiano e non hanno il minimo titolo di studio, donne avvolte nei loro veli, c’è anche chi si presenta con un paio di mogli al seguito». Fanno quello che possono ma ormai hanno le mani legate: «Con la nuova circolare non c’è più l’obbligo del permesso di soggiorno, basta la richiesta di un visto turistico e quello possiamo rifiutarlo solo nei casi più estremi. Ieri - raccontano - si è presentato un uomo con una moglie che avrà avuto sì e no quattordici anni, l’abbiamo pregato di ripassare quando sarà maggiorenne». A qualche centinaio di metri di distanza, in rue National, si affaccia il consolato olandese. Era quella, una volta, la porta girevole dei marocchini in cerca di un approdo in Europa: niente filtri e niente controlli. Ora la strada e quasi deserta: per immigrare in Olanda oggi devi dimostrare di conoscerne la lingua e di condividerne lo stile di vita.
L’Olanda sta ancora cercando di limitare i danni provocati dalla politica di un tempo. La nave del governo italiano ha imboccato la rotta opposta. E la conta dei danni, per noi, è appena all’inizio.

Quello squilibrio di pesi e misure. Paolo Guzzanti

Il magistrato è un garantista e voleva la pistola fumante. La videocassetta del primo omicidio non era conclusiva e le garanzie sono le garanzie: mica puoi sbattere in galera un cittadino senza avere una prova conclusiva. In fondo la custodia cautelare serve per arrestare qualcuno che potrebbe ripetere il crimine per cui è indagato (nel caso di Sanremo uccidere una donna) o inquinare le prove.
Il magistrato genovese, in tutta onestà, non se l’era sentita di ammanettare colui che poi si dimostrerà essere un serial killer psicotico e l’ha lasciato libero. Su un piatto della bilancia il rischio che si trattasse davvero dell’assassino del primo delitto e che ne potesse quindi commettere un secondo; sull’altro, il rischio di arrestare un innocente e farlo marcire in prigione per mesi. Il magistrato ha scelto il secondo piatto della bilancia: non ha arrestato e così l’assassino ha avuto modo di far morire un altro essere umano. Se il magistrato avesse messo in prigione l’uomo avrebbe evitato il secondo omicidio, ma avrebbe rischiato di rinchiudere in prigione un innocente. E adesso si trova di fronte ad uno spaventoso risultato e forse (non vorremmo essere nei suoi panni) a qualche problema di coscienza.
Sicuramente, ora egli è convinto d’aver agito bene, dal punto di vista dei principi giuridici generali (ci vuole l’habeas corpus per privare un cittadino del bene supremo della libertà), ma noi siamo invece convinti che abbia agito come se si trovasse nel Regno Unito, ovvero in Inghilterra, anziché in Italia.
In Italia, lo abbiamo visto l’anno scorso la sera di Natale, il consulente parlamentare Mario Scaramella fu arrestato a Napoli sotto la scaletta dell’aereo che lo riportava da Londra (dove aveva collaborato con Scotland Yard per l’omicidio Litvinenko magistralmente organizzato in modo da esporre proprio lui, Scaramella, al massacro mondiale come primo sospettato dell’avvelenamento del profugo russo) con l’accusa di aver calunniato qualcuno. Chi avrebbe calunniato Scaramella? Prodi, risponderanno molti lettori (stiamo parafrasando l’incipit del Pinocchio di Collodi) eh no, cari ragazzi, vi siete sbagliati: Scaramella fu arrestato e poi tenuto in galera per sei mesi con l’accusa di aver calunniato un signore che viveva a Napoli in clandestinità, un certo Oleksander Talik, il quale era un ex capitano ucraino del Nono Direttorato del Kgb, cioè della stessa sezione di cui faceva parte anche il signor Andrei Lugovoy, che secondo la Procura della Corona britannica sarebbe l’assassino materiale di Litvinenko. Una storia troppo intricata? Lo so, è estremamente complicata e ancora molto oscura.
Ma a noi oggi fa impressione lo squilibrio di pesi e di misure fra l’arresto di un uomo accusato di aver dato del terrorista ad un ex agente di una polizia segreta straniera, clandestino in Italia, e il mancato arresto di un altro uomo che molti elementi significativi indicavano come un assassino e che poi si è rivelato realmente un pazzo sanguinario che ha spento una vita che poteva essere salvata.

lunedì 13 agosto 2007

Il silenzio è d'oro quindi parlo. il Giornale

A Castiglione della Pescaia sabato pomeriggio Romano Prodi aveva paragonato il silenzio al digiuno. E ai giornalisti aveva promesso che la sua astinenza dalle parole sarebbe durata a lungo. Non sono passate 12 ore e domenica mattina il premier si è messo a parlare di tutto: dal Medioriente, alla Cina, ai rom. A proposito dei quali ha sentenziato: «Sono un problema».
E abbiamo capito perché gli avevano consigliato di stare zitto.

Garanzie e forche. Davide Giacalone

Dove la giustizia non funziona si diffonde il giustizialismo, una malattia mortale per il diritto. Il Parlamento s’occupa solo di come i magistrati fanno carriera. La politica pretende di darci lezioni e considera alla stregua di provocazioni i fatti e le cifre che ho usato per documentare la Malagiustizia.
Poi capita che un Tizio sgozzi per strada l’attuale fidanzata e si scopre che è indagato per avere accoltellato e sbudellato la precedente. Si scopre che non basta essere trovati ad incendiare boschi per garantirsi un’immediata pena. E dopo averlo scoperto s’invocano severità e pugni di ferro. Se li dia sulla testa, il governo. Se li diano dove sanno gli schieramenti politici che attorno alla giustizia animano una gran canizza senza mai occuparsi di quel che conta: renderla efficiente.
Le nostre galere sono stracolme di presunti innocenti, mentre a spasso c’è un esercito di probabili colpevoli. Grazie all’indulto dal carcere sono usciti solo i pochi sicuri colpevoli e più del novanta per cento dei processi in corso avrà esito inutile. L’Italia resta il Paese più condannato per violazione dei diritti umani, i nostri processi sono i più lenti del mondo civile, ma spendiamo quanto e più degli altri e abbiamo più magistrati e avvocati che altrove. Sono tutti indizi che gridano l’evidenza: la nostra giustizia è allo stato terminale, sempre di più il paradiso dei colpevoli e l’inferno delle persone per bene. Ma che importa? Quel che conta e riformare la carriera dei magistrati senza litigare con loro, senza provocare scioperi.
Se la politica esistesse, se gli intellettuali facessero il loro mestiere di coscienze ed informatori, se la realtà fosse chiara a tutti, non sarebbe difficile trovare la forza per cambiare quest’andazzo incivile, per fare riforme vere, per conciliare severità e diritti. Ma qui siamo alla faziosità senza contenuti, all’uso politico delle inchieste giudiziarie, ai forcaioli che diventano garantisti quando finiscono sotto inchiesta ed ai grantisti che si scoprono forcaioli quando tocca agli avversari mettere la testa nel cappio. Capita, così, che si chieda giustizia senza far funzionare i tribunali, che il ministro si dica stupito (tanto di giustizia non sa nulla, come lui stesso dice), e che si reclamino pene più severe. Tutta roba inutile.

venerdì 10 agosto 2007

Il risparmiatore paga la paura del contagio. Nicola Porro

http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=198423

Un articolo chiaro, comprensibile e scorrevole per capire cosa succede in questi giorni nei mercati internazionali.

giovedì 9 agosto 2007

Come liberarsi del lungo Sessantotto. Gaetano Quagliariello

http://www.loccidentale.it/node/5252

Del Sessantotto ci si libera solo se saranno gli studenti ad aprire la porta a tutto ciò che esso ha negato: autorità, merito, eguaglianza di opportunità e non di risultati.

IBL: solidarietà a Valentino Rossi.

L’Istituto Bruno Leoni ritiene che gli accertamenti fiscali nei confronti di Valentino Rossi siano “paradigmatici del rapporto fra contribuente e Stato nell’Italia di oggi”.

Secondo Carlo Lottieri, direttore “Teoria politica” dell’IBL, “Rossi si è semplicemente avvalso delle possibilità che la concorrenza istituzionale offre oggi ai contribuenti abbienti, per dichiarare i propri redditi in nazioni che siano meno vessatorie nei loro confronti, rispetto al Paese di appartenenza.”. Dice Lottieri: “Quello che è grave è che la pressione tributaria in Italia è talmente alta, che è pressoché automatico il nostro Paese perda contribuenti ‘importanti’, per il carico fiscale che potrebbero sostenere, come Rossi. Se un topo scappa dalla trappola, la colpa è del topo o del formaggio?”.

In conclusione, Lottieri e l’IBL esprimono “solidarietà a Valentino Rossi. È assurdo che uno dei più grandi talenti sportivi del nostro Paese venga trattato dal fisco come una pecora da tosare”.

La favola del risparmio energetico: uno spot dettato dal Governo. Franco Battaglia

A leggere le paginate pubblicitarie di alcune aziende coinvolte nella produzione e distribuzione dell’energia, ci si chiede spontaneamente che relazione ci sia tra queste e il governo. Come ben sappiamo, questo governo non ha alcuna politica energetica, il che è come dire che non ha quasi alcuna politica, se è vero, com’è vero, che è la disponibilità d'energia abbondante, a buon mercato, e rispettosa dell'ambiente ciò che accresce il nostro benessere. Ma, sia chiaro, tutti i settori sono paralizzati, non sono solo quello dell'economia: tanto per dirne uno, banale, lo è anche la sicurezza, visto che sono pressoché soppresse le ronde notturne delle forze dell'ordine, prive anche della benzina per le loro auto.
Dire che questo governo non ha alcuna politica energetica, però, è una litote che non rende giustizia alla realtà delle cose: in tema d'energia, siamo in piena antipolitica, visto che il governo esplicitamente promuove una disponibilità d'energia che sia il contrario di ciò che dovrebbe essere, promuovendola razionata, costosissima, e irrispettosa dell'ambiente. Le aziende coinvolte nel settore energetico si sono subito adeguate, e nei loro messaggi promozionali la compiacenza ai capricci del governo è tanto palese da far quasi tenerezza. Fino all'avvento di questo governo nessuna azienda sentiva il bisogno di esaltare il proprio impegno nella produzione d'energia elettrica, ad esempio, dalle orripilanti turbine eoliche, anche perché quella produzione è stata pressoché inesistente: continua ad essere inesistente anche oggi e così sarà nel futuro, ma da alcuni mesi sembra, a leggere i messaggi promozionali, che sia il vento a muovere il mondo. Leggiamo anche di messaggi di esortazione a risparmiare energia e, ancora una volta, l'ispirazione del governo ci sembra più che una semplice congettura. Ecco qua cosa ci tocca leggere: «Se ti abitui a spegnere gli elettrodomestici non lasciandoli in stand-by, puoi risparmiare oltre 50 euro l'anno». Messaggio con la pretesa della pubblicità-progresso, essendo arricchito dal monito: «Non lasciare gli elettrodomestici in stand-by è un bel segno di civiltà».
E invece è una cretinata, altro che storie. In casa godiamo di un bel mucchio di elettrodomestici, dal phon al frullatore, dalla lavatrice e lavastoviglie alla caldaia, dal rasoio elettrico alla sveglia elettronica. Se provate ad enumerare tutti quelli che avete in casa, ma proprio tutti, avrete una lista di alcune decine di oggetti che usano corrente elettrica, compresa la caldaia a gas. La maggior parte, però, quando non sono utilizzati sono completamente spenti. Altri (frigorifero, sveglia elettronica) devono rimanere sempre accesi. Pochissimi rimangono in stand-by, e, tra questi, molti non si possono spegnere senza fastidi. Pensate al telefono con segreteria telefonica incorporata o al lettore di dvd o di vhs: spegnerli significherebbe perdere ogni dato memorizzato nel loro orologio interno. Quanto al telefono cellulare, di notte possiamo anche spegnerlo, e di solito lo facciamo, ma anche lo allacciamo alla rete per caricarlo. Alla fine, gli unici elettrodomestici di cui possiamo sopportare il fastidio di accendere ogni volta che decidiamo di usarli sono il televisore e la caldaia a gas (che ci toccherebbe quindi accendere ogni volta che apriamo un rubinetto dell'acqua calda; ma dovremmo ogni volta anche chiudere e aprire il rubinetto del gas, sennò, in assenza di alimentazione elettrica non funzionano i dispositivi di sicurezza contro le fughe di gas).
Insomma, l'unico elettrodomestico che lasciamo in stand-by e che potremmo veramente spegnere è il televisore, il quale, quando in stand-by, assorbe sì e no 2 watt. Supponiamo ora che delle 8700 ore di un anno guardiate la Tv per 1700 ore e la lasciate spenta per 7000 ore: alla fine dell'anno avrete risparmiato 14 kWh d'energia elettrica che, a 18 centesimi al kWh fanno 2 euro e 50 centesimi e non gli «oltre 50 euro» vagheggiati dalle pubblicità di certe aziende troppo compiacenti alle cretinate di questo governo.

Avanti così verso la bancarotta. Claudio Borghi

Il governo sarà in vacanza, ma quando si tratta di escogitare idee dannose non riposa proprio mai. L'ultima trovata riguarda la possibilità di vendere le riserve d'oro della Banca d'Italia con il pretesto di ridurre il debito pubblico. Sotto l'ombrellone di Castiglion della Pescaia ieri Prodi ha detto che «è positivo che se ne parli» mettendo il suo sigillo sulla proposta buttata lì nelle ultime mozioni agostane di una svogliata Camera dei Deputati. Per una volta accogliamo la proposta e parliamone: è un'ipotesi giusta o sbagliata?
Semplice, è sbagliatissima: innanzitutto bisogna mettere in chiaro una cosa fondamentale, la ricchezza non si crea e non si distrugge, se si diminuisse il debito usando l'oro, l'Italia rimarrebbe tale e quale, avrebbe solo sostituito una ricchezza difficile da spendere con una facilissima. Da un punto di vista strettamente finanziario la scelta di mantenere buone riserve auree negli ultimi anni è stata ottima: nel 2001 l'oro quotava attorno ai 250 dollari per oncia contro i quasi 700 dollari attuali. Per intendersi, se il Governo Berlusconi, appena entrato in carica, avesse attuato questa idea malsana che sta ora solleticando Prodi, l'Italia avrebbe perso 25 miliardi di euro, un'enormità in confronto ai pochi interessi passivi che si sarebbero risparmiati sul debito.Il governatore Draghi pare sia in fase di allarme rosso, e anche nell'Ue le prime sirene di emergenza sembra abbiano cominciato a suonare. In teoria l'oro è al sicuro: il governo non può dare ordini alla Banca d'Italia, la cui indipendenza è tutelata da numerose leggi e trattati, fra cui il chiarissimo articolo 108 del Trattato Europeo, ma con Prodi, Visco e compagnia la fiducia è quella che è. Anche i più sprovveduti infatti capiscono che lo scambio oro/debito sarebbe solo un modo in più per consentire ad un esecutivo disperato quello di cui ha più bisogno per sopravvivere: vale a dire spendere.
E il Paese si sta avvitando in una spirale di spese certe a fronte di entrate quantomeno dubbie: se per un caso disgraziato l'economia mondiale dovesse rallentare (e la recente crisi dei mutui subprime americani, è stata un sufficiente campanello d'allarme) per le nostre finanze sarebbe un dramma di impossibile soluzione, avente come unico responsabile un governo che poteva mettere fieno in cascina, e che invece sta dilapidando tutto. Sarebbe (forse) ammissibile pensare di toccare le riserve in condizioni di assoluta emergenza: dilapidarle al massimo del ciclo economico, dietro la foglia di fico di ridurre minimamente un debito che, c'è da scommetterci, verrebbe immediatamente ricostituito per coprire i mille buchi che i provvedimenti senza vera copertura, come la controriforma delle pensioni, di sicuro apriranno, è criminale. Il solo fatto che un'idea del genere sia accolta da Prodi e persino da un ex banchiere centrale come Padoa-Schioppa dà la misura della mancanza assoluta di scrupoli e ritegno del premier e della sua maggioranza.

mercoledì 8 agosto 2007

Giù le mani da quella lista. Ma quella lista, dove sta? il Riformista

Ebbene sì, lo ammettiamo. A noi del Riformista la storia degli elenchi dei votanti alle primarie unioniste del 16 ottobre 2005 è sempre piaciuta. E non poco. Che bello - abbiamo detto e pensato più volte - sarebbe sapere la cifra esatta, precisa fino all’ultima unità, di coloro che due anni fa si misero in fila per quella competizione italiana studiata anche all’estero (pare addirittura che un giorno, tra gli appunti degli allievi di Science Po sia finito anche il nome di Vannino Chiti). Che la cifra desti una certa curiosità, in giro, è cosa normale. Le file ai gazebo c’erano, eccome se c’erano, e i tg dell’epoca le documentarono bene. Ma quella cifra, quei quattro milioni e passa, si è sempre portata dietro un codazzo di sospetti. Il sito Dagospia scrive di avere appreso da fonti ben informate che «quelle liste pro-Prodi, sulle quali Enrico Letta aveva chiesto lumi, non si possono scodellare perché furono gonfiate come soufflè». Le liste - ha aggiunto il sito - «le ha, chiuse nel cassetto, il ministro Vannini Chiti…» (ma non saranno troppi i nomi che le compongono per star chiusi in un cassetto solo?).
Fatta questa premessa, però, anche noi curiosi non possiamo che dare ragione a Ugo Sposetti. «Gli elenchi - ha detto ieri l’altro il tesoriere ds - sono dell’associazione dell’Unione e a disposizione del centrosinistra, non di questo o di quel candidato. Non sono dei candidati e non sono dei due partiti Ds e Margherita, ma sono di tutti i partiti dell’Unione». Il ragionamento di Sposetti, il primo a fare riferimento al misterioso armadio segreto, non fa una grinza. Non si misero in fila soltanto gli elettori dell’Ulivo, quel giorno di ottobre 2005. Ma anche quelli di Rifondazione che sostennero Bertinotti, i fan del Campanile che votarono Mastella, gli italiani di valore che si misero in fila per Di Pietro, i verdi di Percoraro, i no global della Panzino e i ggiovani con due g di Scalfarotto. Se vale questo ragionamento, allora nessuno del Pd dovrà mai più intestarsi quel sussulto del popolo di centrosinistra. L’Ulivo non deve più rivendicare come sua quella data. Altrimenti, anche noi - che per giunta siamo già curiosi - chiederemo il nome del custode (o dei custodi) e l’indirizzo in cui si trova l’armadio con le liste.

Non sparate sulla Cina. Enzo Bettiza

Da oggi inizia il conto alla rovescia dei 365 giorni. Porteranno la Cina non solo alle Olimpiadi dell’8 agosto 2008 ma addirittura, così scrivono pessimisti e supponenti tanti giornali, a una specie di sorda guerriglia civile con i ventimila giornalisti che per la grande occasione saranno presenti a Pechino. Più delle competizioni sportive, saranno in gioco, allora, i capisaldi della democrazia globalizzata: la libertà di informazione, la tutela dei diritti civili, l’abolizione della pena di morte, la scarcerazione di un’ottantina di dissidenti colpevoli di aver scritto di soprusi e perfino di calamità naturali.

Ritengo che qualunque persona di sane e buone opinioni liberali, magari gli stessi organizzatori indigeni dello storico evento, non possa sottrarsi all’idea che la bonifica democratica di un continente debba coinvolgere, assieme al mercato e al prodotto lordo, anche la vita quotidiana di molte centinaia di milioni di cittadini cinesi. Ma, per l’appunto, quando parliamo della Cina, non dovremmo mai dimenticare che non stiamo parlando dell’Olanda o della Svizzera; dovremmo sempre ricordarci che la Cina è un continente asiatico di oltre un miliardo di persone, presto un miliardo e mezzo.

Queste persone stanno emergendo a una nuova vita, spesso caotica e imperfetta, dagli abissi del peggiore inferno totalitario che il mondo novecentesco abbia mai conosciuto.

Quindi un minimo di relativismo non dico filosofico o culturale, ma almeno storico o semplicemente cronologico andrebbe preso in debita considerazione ogni volta che ci si abbandona a criticare l’esplosiva Cina di oggi dimenticando la Cina da incubo dell’altroieri. I quattro simpatici colleghi senza frontiere che in altri tempi, chissà, avrebbero magari inneggiato alla democrazia totale della rivoluzione maoista, hanno in fondo ottenuto quello che con la loro eccessiva provocazione volevano ottenere. Esibendosi in maglietta nera, con il disegno sul petto di cinque manette al posto dei cinque cerchi olimpici, hanno richiamato su di sé l’attenzione della platea mondiale, del Comitato internazionale dei Giochi e ovviamente, come desideravano, della polizia locale.

Sono andati così a rafforzare la frontiera dei khomeinisti dei diritti civili che, spesso, a cominciare da certi censori schematici di Amnesty International o di Greenpeace, danno l’impressione di badare più all’incasso pubblicitario che alla liberazione di dissidenti o alla pulizia dell’ambiente.

Da qualche tempo è di moda descrivere a tinte fosche la Cina che, sia pure disordinatamente, sta salendo al rango di grande potenza globale. La si racconta come una sentina di industrie sporche e fumiganti, spacciatrici di merci avariate e dentifrici tossici, irrispettosa della vita umana, produttrice di miseria e perfino di schiavitù nella tenebra delle campagne remote. Insomma: il capitalismo selvaggio degli impianti olimpici da una parte, le iniquità del vecchio comunismo dall’altra. Ho letto addirittura che la Cina resta tuttora «dov’era trenta, quaranta, cinquant’anni fa».

A questo punto sarà bene ricordare gli osanna che quarant’anni orsono, ai tempi del libretto rosso e del maoismo ruggente, si levavano dagli stessi ambienti progressisti che oggi denigrano la Cina solo perché non è più la Cina povera e terrorizzata delle «formiche blu» di allora. La Cina dei grandi balzi nella morte, quella che imitava in termini esponenziali asiatici le collettivizzazioni sovietiche, che falcidiava nelle carestie programmate decine di milioni di contadini espropriati, che incitava le guardie rosse imberbi a calpestare Confucio e trascinare nel fango i maestri anziani, non mi pare avesse mai suscitato in Europa lo stesso furor critico che invece attualmente suscitano Pechino e Shanghai inquinate dal capitalismo e dallo smog. I due pesi e le due misure appaiono, nel confronto, davvero stravolti.

La Cina che non offre più il modello di un’utopia alternativa, che va avanti e cresce per conto suo, che si democratizza a rilento senza badare troppo alle differenze tra capitalismo e comunismo, ha finito con l’attirare su di sé una sorta di astio ideologico vendicativo. Io ricordo lo squallore uniforme, da 1984 orwelliano, di Shanghai tutta vestita di blu, o la Macao Anni Settanta cui affluivano per i corsi d’acqua dal continente mucchi di cadaveri incatenati. Ritengo perciò che l’ondivaga emancipazione cinese, pur meritando qualche giusta e anche severa critica democratica, non meriti tuttavia l’affronto di provocazioni esibizionistiche che sembrano ignorare il rapporto tra l’inferno di ieri e il purgatorio di oggi.