mercoledì 8 agosto 2007

Non sparate sulla Cina. Enzo Bettiza

Da oggi inizia il conto alla rovescia dei 365 giorni. Porteranno la Cina non solo alle Olimpiadi dell’8 agosto 2008 ma addirittura, così scrivono pessimisti e supponenti tanti giornali, a una specie di sorda guerriglia civile con i ventimila giornalisti che per la grande occasione saranno presenti a Pechino. Più delle competizioni sportive, saranno in gioco, allora, i capisaldi della democrazia globalizzata: la libertà di informazione, la tutela dei diritti civili, l’abolizione della pena di morte, la scarcerazione di un’ottantina di dissidenti colpevoli di aver scritto di soprusi e perfino di calamità naturali.

Ritengo che qualunque persona di sane e buone opinioni liberali, magari gli stessi organizzatori indigeni dello storico evento, non possa sottrarsi all’idea che la bonifica democratica di un continente debba coinvolgere, assieme al mercato e al prodotto lordo, anche la vita quotidiana di molte centinaia di milioni di cittadini cinesi. Ma, per l’appunto, quando parliamo della Cina, non dovremmo mai dimenticare che non stiamo parlando dell’Olanda o della Svizzera; dovremmo sempre ricordarci che la Cina è un continente asiatico di oltre un miliardo di persone, presto un miliardo e mezzo.

Queste persone stanno emergendo a una nuova vita, spesso caotica e imperfetta, dagli abissi del peggiore inferno totalitario che il mondo novecentesco abbia mai conosciuto.

Quindi un minimo di relativismo non dico filosofico o culturale, ma almeno storico o semplicemente cronologico andrebbe preso in debita considerazione ogni volta che ci si abbandona a criticare l’esplosiva Cina di oggi dimenticando la Cina da incubo dell’altroieri. I quattro simpatici colleghi senza frontiere che in altri tempi, chissà, avrebbero magari inneggiato alla democrazia totale della rivoluzione maoista, hanno in fondo ottenuto quello che con la loro eccessiva provocazione volevano ottenere. Esibendosi in maglietta nera, con il disegno sul petto di cinque manette al posto dei cinque cerchi olimpici, hanno richiamato su di sé l’attenzione della platea mondiale, del Comitato internazionale dei Giochi e ovviamente, come desideravano, della polizia locale.

Sono andati così a rafforzare la frontiera dei khomeinisti dei diritti civili che, spesso, a cominciare da certi censori schematici di Amnesty International o di Greenpeace, danno l’impressione di badare più all’incasso pubblicitario che alla liberazione di dissidenti o alla pulizia dell’ambiente.

Da qualche tempo è di moda descrivere a tinte fosche la Cina che, sia pure disordinatamente, sta salendo al rango di grande potenza globale. La si racconta come una sentina di industrie sporche e fumiganti, spacciatrici di merci avariate e dentifrici tossici, irrispettosa della vita umana, produttrice di miseria e perfino di schiavitù nella tenebra delle campagne remote. Insomma: il capitalismo selvaggio degli impianti olimpici da una parte, le iniquità del vecchio comunismo dall’altra. Ho letto addirittura che la Cina resta tuttora «dov’era trenta, quaranta, cinquant’anni fa».

A questo punto sarà bene ricordare gli osanna che quarant’anni orsono, ai tempi del libretto rosso e del maoismo ruggente, si levavano dagli stessi ambienti progressisti che oggi denigrano la Cina solo perché non è più la Cina povera e terrorizzata delle «formiche blu» di allora. La Cina dei grandi balzi nella morte, quella che imitava in termini esponenziali asiatici le collettivizzazioni sovietiche, che falcidiava nelle carestie programmate decine di milioni di contadini espropriati, che incitava le guardie rosse imberbi a calpestare Confucio e trascinare nel fango i maestri anziani, non mi pare avesse mai suscitato in Europa lo stesso furor critico che invece attualmente suscitano Pechino e Shanghai inquinate dal capitalismo e dallo smog. I due pesi e le due misure appaiono, nel confronto, davvero stravolti.

La Cina che non offre più il modello di un’utopia alternativa, che va avanti e cresce per conto suo, che si democratizza a rilento senza badare troppo alle differenze tra capitalismo e comunismo, ha finito con l’attirare su di sé una sorta di astio ideologico vendicativo. Io ricordo lo squallore uniforme, da 1984 orwelliano, di Shanghai tutta vestita di blu, o la Macao Anni Settanta cui affluivano per i corsi d’acqua dal continente mucchi di cadaveri incatenati. Ritengo perciò che l’ondivaga emancipazione cinese, pur meritando qualche giusta e anche severa critica democratica, non meriti tuttavia l’affronto di provocazioni esibizionistiche che sembrano ignorare il rapporto tra l’inferno di ieri e il purgatorio di oggi.

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