mercoledì 10 novembre 2010

Per assolvere la sinistra Saviano riscrive Falcone. Filippo Facci

Caro Roberto Saviano,
il tuo racconto sulla macchina del fango che non risparmiò Giovanni Falcone, lunedì sera, era infarcito di omissioni: nel senso, proprio, di nomi che non hai fatto o hai preferito non fare. Per farli hai avuto a disposizione una clamorosa mezz’ora televisiva, quindi è stata una scelta deliberata. E a me spiace, sia perché sono uno dei pochi che ti difende – da queste parti - sia perché in questo modo si accredita chi dice che il tuo punto debole sia un certo paraculismo: non una tendenza vera e propria all’intruppamento nella sinistra politically correct – quella no - ma quantomeno una propensione a non fartela nemica. Dalle parti di certi sancta sanctorum, diciamo così, il passo ogni tanto ti si fa felpato.

Tu hai parlato subito dell’Addaura, cioè un primo e sottovalutato attentato a Falcone: era il 20 luglio 1989 e il magistrato si trovava nella sua casa al mare, presa in affitto, in compagnia dei colleghi svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehman, impegnati in un’inchiesta sul narcotraffico che tu hai definito "riciclaggio". Hai detto che "tutti, a destra e sinistra" fecero capire che Falcone quella bomba poteva essersela messa da solo. Ma non è preciso. Gerardo Chiaromonte, comunista, defunto presidente dell’Antimafia, persona perbene e tu sai perché, scrisse che "i seguaci di Leoluca Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità". In prima fila c’era quella sinistra lì, oltre a il Giornale di Montanelli (dove ai tempi scriveva l’incolpevole Marco Travaglio) e altri personaggi menzionati da una sentenza della Cassazione: tra questi i giudici Domenico Sica, il defunto magistrato Francesco Misiani e il colonnello dei carabinieri Mario Mori, futuro capo del Sisde: chi più e chi meno, misero tutti in dubbio un attentato che in troppi cercarono di derubricare a semplice avvertimento. Già, perché un processo per i fatti dell’Addaura, appunto, c’è già stato, anche se nessuno lo nomina mai: il 19 ottobre 2004 la Cassazione ha confermato condanne a 26 anni per Totò Riina, Salvatore Biondino e Antonino Madonia; 9 anni e 4 mesi per Francesco Onorato e 2 anni e mezzo per Giovanni Battista Ferrante. La Suprema Corte, in 89 pagine, ha pure detto che i servizi segreti non c’entrano niente perché la responsabilità fu di Cosa Nostra, e, come era accaduto in primo e secondo grado, la sentenza ha ricostruito l’attentato nei particolari: lo chiamano "l’infame linciaggio", però adesso quella sentenza andrebbe dimenticata dopo l’annuncio di una nuova e fumosissima inchiesta della Procura di Caltanissetta, subito cavalcata da Repubblica e da Annozero. "Perché", è giunta a chiedersi Repubblica, "le indagini sull’attentato al giudice sono partite con vent’anni di ritardo?". In realtà partirono puntualissime.

Le lettere del corvo

Ma dicevamo della macchina del fango: tu, poi, hai parlato del "corvo" che scriveva lettere anonime per danneggiare Falcone, una dinamica che con la macchina del fango in effetti ebbe molto a che fare. Ma la stessa macchina, e tu non l’hai detto, colpì anche più gravemente il magistrato Alberto Di Pisa che fu accusato ingiustamente di essere il corvo: e proprio Giuseppe D’Avanzo, un altro che parla sempre di fango e dintorni, scrisse che "Di Pisa è soltanto un uomo frollato dalla lunga attesa di un pubblico riconoscimento, di popolarità e potere, un piccolo uomo sbriciolato dall’invidia e dalla gelosia, precipitato nel gorgo di un risentito rancore". Perché non ricordarlo? Alberto Di Pisa è stato assolto da ogni accusa: ma la macchina del fango, per lui, non si è fermata mai. Marco Travaglio, ancora nel marzo 2009, definiva Di Pisa nemico acerrimo di Falcone» e tutto perché aveva soffiato il posto di procuratore capo a Marsala – su decisione del Csm – battendo Alfredo Morvillo, amico di Giancarlo Caselli e dello stesso Travaglio.

La macchina del fango, già: hai ricordato quando Falcone accettò l’invito del Guardasigilli Claudio Martelli a dirigere gli Affari penali, quando cioè la gragnuola delle accuse si fece ancora più infame. Il pool di Falcone e Borsellino era stato praticamente cancellato e le istruttorie antimafia erano tornate all’età della pietra. Hai fatto vedere un filmato di una serata di Samarcanda (in abbinata col Maurizio Costanzo Show) ma non hai citato o mostrato la puntata di Samarcanda del 24 maggio 1990, quella in cui Leoluca Orlando disse che Falcone aveva una serie di documenti sui delitti eccellenti ma li teneva chiusi nei cassetti, anzi, in otto scatole chiuse in un armadio. L’accusa verrà ripetuta a ritornello anche da molti uomini del movimento di Orlando, tra i quali l’avvocato Alfredo Galasso. personaggio che tu hai fatto vedere nel filmato, come no, senza neppure spiegare chi era: lo hai soltanto definito "perbene". Ma allora lo erano tutti, perbene. La sinistra in sostanza accusava Falcone di connivenze pericolose solo perché aveva fiutato alcune calunnie del pentito Pellegriti ai danni di Salvo Lima e Giulio Andreotti: l’11 settembre Falcone 1991 dovette addirittura discolparsi davanti al Csm dopo un esposto di Orlando, sodale di Galasso: ma erano persone perbene, giusto? Hai detto che qualcuno definì Falcone "guitto televisivo": era un giornalista di Repubblica, e allora perché non nominarlo? Ecco la frase precisa, Roberto: "Non si capisce come mai Falcone non abbandoni la magistratura… s’avverte l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste dei guitti televisivi". Sempre nel filmato con l’avvocato Galasso, poi, Falcone si spingeva a dirsi favorevole alla responsabilità civile dei giudici, eresia per cui oggi qualche deficiente gli attribuirebbe direttamente qualche vicinanza alla P2. E qui capisco che tu abbia preferito trasvolare.

E così hai fatto con tutti gli articoli dell’Unità contro Falcone, titoli come "Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché", scritto dal membro pidiessino del Csm Alessandro Pizzorusso; parlo della stessa Unità che poco tempo prima aveva titolato "Falcone preferì insabbiare tutto". Hai citato le parole dolorose di Ilda Boccassini, e hai fatto bene, ma ne hai menzionato solo una parte. C’erano anche queste: "Avete fatto morire Giovanni Falcone, lo avete fatto morire con la vostra indifferenza… a Palermo non poteva più lavorare, per questo ha scelto la strada del ministero… Lui non voleva essere lasciato solo ed essere… Due mesi fa ero a Palermo in un’assemblea dell’Associazione nazionale magistrati. Non dimenticherò quel giorno. Le parole più gentili erano queste: Falcone si è venduto al potere politico… L’ultima ingiustizia l’ha subita proprio da voi di Milano… Mi telefonò quel giorno, e mi disse “che tristezza, non si fidano del direttore degli Affari Penali”".

Certo, Roberto, non potevi citare tutto e tutti, lo so. La tv è maledetta, il tempo è sempre poco: e pensa che tu ne hai avuto come nessuno. Il problema è che altri nomi, altri personaggi, altre testate, altri presunti e più recenti macchinatori del fango, tu li hai invece pronunciati o fatti intuire con furba chiarezza. Un filo troppa, secondo me. (Tratto da Libero)

7 commenti:

Anonimo ha detto...

(...) sostenendo di essere stato presente a eventi o circostanze che giammai lo hanno visto presente», come nella prima uscita processuale del boss Paolo Di Lauro.

In particolare negli atti depositati al processo di Napoli, Di Meo cita un passaggio di un suo articolo del 17 dicembre 2005 riguardante il boss Raffaele Amato, riportato pari pari nel libro da Saviano: «... quando venne arrestato in un hotel a Casandrino insieme a un altro luogotenente del clan e a un grosso trafficante albanese che si faceva aiutare per concludere gli affari di un interprete, il nipote di un ministro di Tirana». Nel libro si parla del boss che «godeva di un credito illimitato presso i trafficanti internazionali» mentre nell’articolo si scriveva sempre del boss e del «credito illimitato di cui godeva presso i cartelli internazionali». Oppure. «Il clan di Lauro - si legge nell’edizione 2006 di Gomorra - è sempre stato un’impresa perfettamente organizzata, il boss lo ha strutturato con un disegno d’azienda multilevel». Un articolo sul clan del 2005 lo ricalca così: «La struttura organizzativa del clan di Lauro sembra copiata dai management dei guru dell’economia americani: è l’applicazione del principio multilevel». E ancora. A proposito del rinvenimento del corpo di Giulio Ruggiero subito dopo l’arresto del boss Cosimo Di Lauro, si leggeva nell’articolo di Cronache: «Poi la macabra esecuzione della decapitazione, eseguita con un flex, la sega elettrica utilizzata dai tagliatori e tornitori per tranciare anche il ferro. Non un colpo netto, ma una lenta operazione da macellai». Invece Gomorra: «Non il colpo netto dell’accetta ma col flex: la sega circolare dentellata usata dai fabbri per limare le saldature». E via discorrendo. Frasi più o meno simili, forse copiate o forse no. Passaggi interi in cui, dopo più solleciti, «la fonte viene finalmente citata all’undicesima ristampa» allorché si affronta il capitolo dei «quattro punti» del patto di sangue tra gli Spagnoli e i Di Lauro. Questo ed altro c’è nel processo sul presunto plagio di Saviano. Per saperne di più l’appuntamento è alla prossima udienza, 7 luglio, ore 9, tribunale di Napoli.

fuoco amico ha detto...

«Roberto mi ha saccheggiato e pensare che eravamo amici»

Simone Di Meo, perché ha citato per danni Roberto Saviano?
«Se colleghi e avvocati napoletani sfottono chiamandomi “il Saviano dei poveri” ci sarà un perché».
Si spieghi meglio.
«La causa per plagio, chiamiamola così, si sviluppa su due livelli. Il primo è la mancata citazione, nel libro, di alcune parti di miei articoli che sono state letteralmente saccheggiate e riproposte senza alcuna variazione. Una sorta di copia-incolla di pezzi miei e di altri cronisti. In altri casi non c’è la traslazione integrale, ma Saviano ci gira intorno, usa spesso termini e riferimenti precedentemente utilizzati dal sottoscritto. Gli esempi sono numerosi».
E il secondo livello del (presunto) plagio?
«Ci sono notizie che sono state da me pubblicate su Cronache durante la faida di Secondigliano che sono diventate parti integranti della narrazione di Gomorra senza, anche qui, alcun riferimento alle fonti. Cioè a me. Di questi passaggi non esiste traccia in atti giudiziari, in agenzie di stampa o in reportage giornalistici».
Non le sembra di esagerare? Saviano di fonti importanti ha sempre detto di averne consultate tante...
«Sul capitolo di Secondigliano, Roberto ha preso tanta roba da me ed ha attinto a piene mani dal mio immenso archivio. Un giorno venne in redazione per intervistarmi, era ancora un free lance. Parlammo tantissimo, gli diedi casse di materiale, ci sentimmo anche dopo, al telefono e via mail. Lo aiutai sempre. Dopodiché scomparve non appena Gomorra andò in stampa. Non lessi subito il libro ma quando alcuni avvocati e diversi colleghi iniziarono a parlare di scopiazzature palesi di articoli a mia firma, allora lo acquistai. Ben scritto, indubbiamente. Un prodotto di marketing più che culturale.

Anonimo ha detto...

Di inedito, però, aveva davvero poco, e non solo perché riportava i contenuti di cronache locali. Leggendo quanto riportavano persone che frequentano il suo blog ho saputo che lui non mi avrebbe citato per il mio bene, non voleva che passassi per un cronista che utilizzava informazioni pericolose. Per non dire poi della sua presenza all’udienza del boss Di Lauro».
A che cosa si riferisce?
«A un certo punto lui descrive, minuziosamente, alcuni atteggiamenti tenuti dal boss durante il processo. Ma Saviano non c’era, lo sanno tutti che non era in aula. Però dopo che gli ho raccontato le fasi salienti dello show in aula, lui se ne è appropriato e l’ha raccontata come fosse un’esperienza vissuta in prima persona. Niente di male a riportare le notizie. Ma che almeno dicesse da dove provengono. C’è ad esempio un sito casertano che riportava una certa cosa e lui, rimasticandola un po’, l’ha riproposta. Poi, dalla 20ª ristampa in poi è misteriosamente scomparsa...».
Poi lei è corso a citarlo per danni.
«I miei avvocati hanno scritto alla Mondadori che almeno dall’undicesima ristampa ha disposto l’inserimento del mio nome in un passaggio obiettivamente scandaloso. Abbiamo insistito per avere lo stesso trattamento in molti altri passaggi del libro, ma non siamo stati accontentati. Per la casa editrice erano fonti personali dell’autore. Ecco il perché della causa».
Nel suo libro Saviano cita spesso le fonti. Tutte tranne lei. Perché?
«Forse perché appartenevo a uno di quei piccoli giornali, tra il Napoletano e il Casertano, considerati erroneamente proprio da Saviano un’emanazione editoriale dei clan. Quindi prendere le notizie da un sedicente dipendente della camorra e riportarle in un libro anticamorra, non sarebbe stata un gran furbata».Non è che lei è solo geloso del successo di Roberto Saviano?
«Geloso io? Iatavenne»
GMC

Anonimo ha detto...

sostenendo di essere stato presente a eventi o circostanze che giammai lo hanno visto presente», come nella prima uscita processuale del boss Paolo Di Lauro.

In particolare negli atti depositati al processo di Napoli, Di Meo cita un passaggio di un suo articolo del 17 dicembre 2005 riguardante il boss Raffaele Amato, riportato pari pari nel libro da Saviano: «... quando venne arrestato in un hotel a Casandrino insieme a un altro luogotenente del clan e a un grosso trafficante albanese che si faceva aiutare per concludere gli affari di un interprete, il nipote di un ministro di Tirana». Nel libro si parla del boss che «godeva di un credito illimitato presso i trafficanti internazionali» mentre nell’articolo si scriveva sempre del boss e del «credito illimitato di cui godeva presso i cartelli internazionali». Oppure. «Il clan di Lauro - si legge nell’edizione 2006 di Gomorra - è sempre stato un’impresa perfettamente organizzata, il boss lo ha strutturato con un disegno d’azienda multilevel». Un articolo sul clan del 2005 lo ricalca così: «La struttura organizzativa del clan di Lauro sembra copiata dai management dei guru dell’economia americani: è l’applicazione del principio multilevel». E ancora. A proposito del rinvenimento del corpo di Giulio Ruggiero subito dopo l’arresto del boss Cosimo Di Lauro, si leggeva nell’articolo di Cronache: «Poi la macabra esecuzione della decapitazione, eseguita con un flex, la sega elettrica utilizzata dai tagliatori e tornitori per tranciare anche il ferro. Non un colpo netto, ma una lenta operazione da macellai». Invece Gomorra: «Non il colpo netto dell’accetta ma col flex: la sega circolare dentellata usata dai fabbri per limare le saldature». E via discorrendo. Frasi più o meno simili, forse copiate o forse no. Passaggi interi in cui, dopo più solleciti, «la fonte viene finalmente citata all’undicesima ristampa» allorché si affronta il capitolo dei «quattro punti» del patto di sangue tra gli Spagnoli e i Di Lauro. Questo ed altro c’è nel processo sul presunto plagio di Saviano. Per saperne di più l’appuntamento è alla prossima udienza, 7 luglio, ore 9, tribunale di Napoli.

Anonimo ha detto...

saviano ha copiato gomorra

Lui è Roberto Saviano. L’altro si chiama Simone Di Meo. Il primo ha sbancato con Gomorra, il secondo è rimasto un free lance dopo l’esperienza a Cronache di Napoli. Saviano è diventato una star, Di Meo è rimasto un giornalista di nera. In apparenza hanno in comune solo una cosa: la camorra. In realtà uno (Di Meo) accusa l’altro (Saviano) d’averlo turlupinato, fingendosi amico e copiando i suoi articoli sui clan senza nemmeno degnarsi di una citazione a pie’ di pagina. Per questo il cronista ha prima riempito di richieste di rettifiche la casa editrice di Gomorra (Mondadori) eppoi è passato alle vie di fatto citando per danni l’autore del best seller: 500mila euro.
Di Meo ha già imputato a Saviano, sulle pagine del «Roma», di aver preso pezzi di suoi articoli sulla faida di Secondigliano e sul clan Di Lauro, di averli riportati pari pari nel libro (oppure di averli riassunti e rielaborati) omettendo di citare la fonte. In più lo accusa di aver appreso direttamente da lui notizie poi confluite nel libro (indiscrezioni giudiziarie, atti investigativi e processuali) come fossero farina del suo sacco. Persone vicine a Saviano precisano che non esiste alcun plagio e che per il libro lo scrittore ha attinto da fonti pubbliche, desumibili anche da giornali, e da fonti compulsate direttamente. La casa editrice, nello scambio epistolare con i legali di Di Meo, ha ripetutamente negato «ogni indebita appropriazione da parte di Saviano» limitandosi ad accettare «la circostanza concretatasi in un’omissione della fonte in occasione di una riproduzione testuale di un articolo».

Anonimo ha detto...

Nella causa intentata contro Saviano, Di Meo osserva nero su bianco: «Non ci sono parole per esprimere la grande sorpresa avuta nel leggere il contenuto del libro: tutto ciò che avevo scritto per il giornale circa determinati argomenti, tutto ciò che avevo raccontato confidenzialmente, in totale buona fede ed in modo del tutto ignaro dai reali propositi del giovane free lance (quale era all’epoca Saviano, ndr)» a Saviano «era stato lievemente manipolato e, in alcuni casi, trasposto integralmente senza citare la fonte, per dar vita a un libro che da molti veniva salutato come un lavoro inedito». Svariati passaggi del libro, a detta di Di Meo e di altri cronisti napoletani citati, «sembravano essere il risultato di un evidente rimaneggiamento di articoli di cronaca nera di altrui paternità che senza difficoltà Saviano amava attribuirsi

Anonimo ha detto...

(...) sostenendo di essere stato presente a eventi o circostanze che giammai lo hanno visto presente», come nella prima uscita processuale del boss Paolo Di Lauro.

In particolare negli atti depositati al processo di Napoli, Di Meo cita un passaggio di un suo articolo del 17 dicembre 2005 riguardante il boss Raffaele Amato, riportato pari pari nel libro da Saviano: «... quando venne arrestato in un hotel a Casandrino insieme a un altro luogotenente del clan e a un grosso trafficante albanese che si faceva aiutare per concludere gli affari di un interprete, il nipote di un ministro di Tirana». Nel libro si parla del boss che «godeva di un credito illimitato presso i trafficanti internazionali» mentre nell’articolo si scriveva sempre del boss e del «credito illimitato di cui godeva presso i cartelli internazionali». Oppure. «Il clan di Lauro - si legge nell’edizione 2006 di Gomorra - è sempre stato un’impresa perfettamente organizzata, il boss lo ha strutturato con un disegno d’azienda multilevel». Un articolo sul clan del 2005 lo ricalca così: «La struttura organizzativa del clan di Lauro sembra copiata dai management dei guru dell’economia americani: è l’applicazione del principio multilevel». E ancora. A proposito del rinvenimento del corpo di Giulio Ruggiero subito dopo l’arresto del boss Cosimo Di Lauro, si leggeva nell’articolo di Cronache: «Poi la macabra esecuzione della decapitazione, eseguita con un flex, la sega elettrica utilizzata dai tagliatori e tornitori per tranciare anche il ferro. Non un colpo netto, ma una lenta operazione da macellai». Invece Gomorra: «Non il colpo netto dell’accetta ma col flex: la sega circolare dentellata usata dai fabbri per limare le saldature». E via discorrendo. Frasi più o meno simili, forse copiate o forse no. Passaggi interi in cui, dopo più solleciti, «la fonte viene finalmente citata all’undicesima ristampa» allorché si affronta il capitolo dei «quattro punti» del patto di sangue tra gli Spagnoli e i Di Lauro. Questo ed altro c’è nel processo sul presunto plagio di Saviano. Per saperne di più l’appuntamento è alla prossima udienza, 7 luglio, ore 9, tribunale di Napoli.
di Gian Marco Chiocci