giovedì 21 novembre 2013

Centrodestra: perché i fusionisti servono ancora. Andrea Mancia e Simone Bressan

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Siccome ci siamo a lungo occupati di cavalli, ci pare brutto rinnegare le nostre origini e metterci a disquisire di ornitologia. Il mondo dei volatili è per noi di poco interesse e l’unica cosa che possiamo affermare con quasi granitica certezza è che per il centrodestra, se il vento non cambia, saranno uccelli per diabetici. Almeno nel breve termine.

Detto questo ci corre l’obbligo di ribadire l’ovvio: l’Italia è un paese molto strano. L’unico in cui soggetti che in tutto il mondo civile starebbero nello stesso partito litigano sui giornali ormai da mesi, costringendoci a discutere del nulla mentre davanti abbiamo un deserto che potrebbe essere trasformato in prateria, solo ad averne un po’ di voglia. Il nostro è anche uno dei pochi schieramenti conservatori e liberali al mondo in cui la maggioranza della sua classe dirigente (sia su “classe” che su “dirigente” nutriamo molti dubbi) fa il tifo per Barack Obama e per i democratici americani, condannando molti elettori a diventare di sinistra di fatto, magari inconsapevolmente. È un tema che considererete marginale, ma siamo convinti che le basi culturali per vincere e governare si costruiscano soprattutto cercando di capire chi siamo e cosa vogliamo.

La scissione di questi giorni ci consegna una situazione paradossale: le lancette del tempo sono ritornate molto indietro, ai tempi per noi tutt’altro che memorabili del pentapartito. Una cinquina che oggi si compone di Fratelli d’Italia, Alleanza Nazionale, Forza Italia, Nuovo Centrodestra e Lega Nord. Con possibili, future, aggiunte di movimenti popolari in libera uscita da Scelta Civica e dall’universo che fu montiano.

Bene, dicono i sondaggisti, perché la somma algebrica di questo casino è comunque positiva. Male, diciamo noi. Perché questo spezzatino di movimenti, partiti, aggregazioni basate su singole persone, su ricordi del passato che fu, su distinzioni personali e poco politiche finisce per garantire al centrodestra italiano una cosa soltanto: l’irrilevanza politica e la subalternità culturale. Una subalternità che non è per forza nei confronti di certa sinistra ma che assume i contorni delle geometrie variabili, così come variabile – a seconda dei rapporti di forza – diventerà il profilo di questo rassemblement. Direte: ma anche il partito conservatore e quello repubblicano abbracciano sensibilità molto diverse e che in larga parte sono simili a quelle di cui parliamo qui. Vero: ma lì ci sono partiti che durano da decenni, che si sono dati regole di discussione interna e che, anzi, sulla dinamiche delle discussioni interne e del vaglio delle primarie hanno costruito coalizioni che avevano un profilo o l’altro, a seconda dei fattori che ne determinavano la formazione.

Qui è l’esatto contrario: invece di discutere per convergere, ci si separa per discutere. Perché stando insieme era impossibile, a meno di non volersi dividere nelle molto interessanti cateogrie di “ribelli”, “scissonisti”, “lealisti” o “traditori”. Così, mentre il partito repubblicano americano discute di Tea Party che fanno il tifo per la chiusura del governo federale e di deputati più moderati che propongono, numeri alla mano, soluzioni diverse e mentre il movimento conservatore inglese si interroga sul concetto di “modernisation” e su quanto “green” è opportuno diventare, qui da noi – ecologisti di frontiera – il vero tema è se sei falco, colomba o pitone.

Complimenti vivissimi, cari amici. Alle elezioni (perse di poco) del 2006 , il centrodestra “valeva” 19 milioni di voti. Nel 2008, senza Casini, 17 milioni e mezzo. Nel 2013 poco più di 10 milioni. Se un partito, una coalizione, un movimento, perdono in 7 anni la fiducia di 9 milioni di persone e vedono crollare il loro consenso del 47% qualche domanda in più su quello che sta accadendo sarebbe giusto porsela. Sarebbe giusto, logico, salutare, interrogarsi sulle modalità di selezione di leader e classe dirigente, di candidati e rappresentanti sul territorio. Invece niente, tutto procede liscio come l’olio, nessuno discute di nulla. Fino alle scissioni e alle rifondazioni (di Forza Italia, di An, ecc) con i temi giusti affrontati a divisioni già consumate. E quando ormai tra ex colleghi di partito vola di tutto.

Che fare, quindi? Ripartire da dove eravamo rimasti, perché persone perbene che si interessano di politica ce ne sono ancora. Nonostante in questi anni il centrodestra abbia fatto qualsiasi cosa per allontanarle, marginalizzarle, umiliarle. Alcuni hanno fatto passi indietro più o meno rumorosi, altri non si sono abbattuti e hanno proseguito in una lunga e spesso sfiancante battaglia contro un modello politico che stava creando le condizioni per la sua stessa distruzione e le vendeva all’esterno come scintillanti vittorie. È morto il centrodestra, secondo alcuni. Proprio per niente: viva il centrodestra. E lunga vita a quelli che lavorano per unire, per ricucire, per dibattere. Per far diventare l’ambito culturale e politico che si definisce conservatore e liberale un luogo di incontro, di sintesi, di elaborazione. Non una ridotta in mano al leader di turno (turno che magari dura da qualche decennio), ma una base solida su cui costruire la nostra casa comune. Una casa sufficientemente grande per ospitare la maggioranza silenziosa degli italiani.

(notapolitica.it)

 

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