giovedì 18 settembre 2008

Comunicazionme di servizio: il capitalismo è ancora vivo, vegeto e bello. Carlo Stagnaro

Breaking news: il capitalismo è vivo e vegeto. Le analisi sulla crisi finanziaria hanno scomodato l’intero repertorio del Dr House: si è parlato di cancro, metastasi, infezione, contagio. In verità, il capitalismo sta funzionando, e bene. L’arrivo di una crisi non nega l’economia di mercato più di quanto una tempesta neghi il clima. L’una e l’altra sono anzi necessari mezzi di aggiustamento. Sul Corriere della sera di ieri, Angelo Panebianco ha preso in prestito la distruzione creatrice di Josef Schumpeter per interpretare quanto sta accadendo. Se si guardano le cose attraverso queste lenti, il marasma finanziario assume un aspetto diverso – anche se non meno doloroso. Non è la Caporetto del mercatismo: è il modo con cui il mercato corregge i suoi stessi errori.

Gli stessi che oggi brindano alla morte della finanza globalizzata, ieri si lamentavano del sovraconsumo e sovraindebitamento causati dal credito facile. Ecco, il mercato sta appunto mettendo una pezza a quegli eccessi. Attraverso le crisi, il mercato sposta risorse dalle mani relativamente meno produttive verso utilizzi più proficui. Dà il benservito ai manager incapaci, distrugge le imprese inefficienti, contribuisce alla ricerca di un nuovo equilibrio. Così come sa premiare straordinariamente bene le intuizioni più geniali, il sistema capitalista è anche implacabile nel sanzionare gli errori. È chiaro che a volte i costi di aggiustamento possano essere politicamente inaccettabili: l’impatto dello tsunami dei subprime è devastante. Ciò lascia un margine di discrezionalità alla politica nel decidere se e come attutire le cadute. I vari salvataggi che si sono succeduti nel corso dell’estate — da Northern Rock a Bear Sterns, da Fannie e Freddie a Aig — rispondono a questa logica. Ma non rappresentano una sconfitta del mercato in quanto tale — al massimo dimostrano che talvolta il pragmatismo di governo fa premio sulla purezza delle idee.

Friedrich von Hayek ha descritto il capitalismo come un processo di scoperta, nel quale vengono mobilitate tutte quelle informazioni disperse che sarebbe impossibile centralizzare in un cervellone burocratico. In senso profondo, è infondata la contrapposizione tra l’economia industriale e il capitalismo finanziario. Si tratta di strumenti diversi che svolgono una funzione comune: consentire agli imprenditori di muoversi al meglio nella loro ricerca del profitto, in virtù della quale essi sono obbligati a fornire ai consumatori ciò che essi vogliono e di cui hanno bisogno. Alcuni strumenti finanziari si sono rivelati patacche: il mercato ha dato il suo responso, come lo dà quando un produttore commercializza una merce scadente. Estremizzando, non c’è differenza sostanziale tra industria e finanza: come diceva Ludwig von Mises, “nell’economia reale ogni soggetto è sempre sia imprenditore, sia speculatore”. Chi fabbrica beni fisici non sa se essi incontreranno il favore del pubblico; scommette; si assume un rischio. Chi opera sui mercati finanziari il rischio lo gestisce, lo distribuisce, lo rende meno costoso. La finanza puntella l’impresa, ma senza impresa non potrebbe esistere. È pertanto assurdo pensare che la finanza possa fagocitare l’industria, o viceversa. Entrambe, poi, devono stare alle medesime leggi, eterne e immutabili, della domanda e dell’offerta. Che poi il compito dello Stato sia fornire delle regole che consentano di operare in un clima di ragionevole certezza e di smorzare i cambiamenti troppo bruschi, è nell’ordine delle cose: è corretto quindi affermare che anche le regole, come i processi produttivi, devono cambiare per essere efficaci. Questo non significa né che debbano moltiplicarsi, né che sia utile mutarle troppo spesso. È forse vero, quindi, che l’attuale crisi richieda alle istituzioni pubbliche di ripensare il loro set di regole nel momento in cui il mercato rialloca le risorse economiche. È quindi essenziale rispettare la divisione dei compiti tra Stato e mercato, senza consentire che ansie e paure spingano la mano pubblica a uccidere l’attività privata.

Le crisi sono un momento di transizione che l’intervento pubblico dovrebbe stare attento a non prolungare oltre il necessario (come accadde nel ’29), ma comunque non possono essere eliminate e vanno anzi viste, nel lungo termine, come passaggi inevitabili. Molto semplicemente occorre guardare al presente con cinico realismo. Qualcuno ha detto che il capitalismo è il peggiore dei sistemi economici, tranne tutti gli altri. Non è vero: il capitalismo è il migliore dei sistemi economici possibili, e l’unico che funziona. (il Foglio)

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