martedì 9 settembre 2008

Eppure il vero errore è quello degli studiosi. Giordano Bruno Guerri

Il concetto di male assoluto riguarda più la linguistica e la teologia che la storia e la politica. Non a caso il caotico dibattito di questi giorni nasce perché l’espressione è stata applicata, da un politico, alla storia. Allora cominciamo col dire che la definizione di «male assoluto» può essere associata soltanto al Maligno, al Diavolo (per chi ci crede, s’intende). Il demonio è un male assoluto in quanto tende - esclusivamente, totalmente – al Male. Si può dire la stessa cosa di un sistema politico?
Il regime fascista, come quello staliniano, ripugnano alla coscienza della maggioranza dei contemporanei perché entrambi portatori di un male facilmente riconoscibile come tale, ovvero la privazione della libertà, per i singoli individui come per i popoli. Entrambi, poi, commisero errori e ebbero colpe che sono la negazione di ciò che consideriamo bene: le guerre, l’imperialismo, la soppressione degli avversari politici e via via, in un elenco che ognuno può allungare a piacimento. Ma è insostenibile che tendessero lucidamente, istituzionalmente, soltanto al male. Vi si aggiunga che qualcosa di apprezzabile fu fatto da entrambi i regimi; basta citare l’aumento della scolarizzazione e il miglioramento dei sistemi assistenziali e sanitari.
Il nazismo si avvicina molto di più all’idea di «male assoluto», perché ha nella sua più intima essenza un concetto di superiorità razziale – e di sterminio - dei popoli «inferiori». Ponendo come bene la superiorità e la purezza della propria razza, a danno di altre, il nazismo va - in piena lucidità e volontà - contro la scienza, la filosofia, la storia: e, più semplicemente ma ancora più gravemente, contro un’evoluzione millenaria del pensiero e della civiltà. Inoltre, il nazismo perseguiva obiettivi dissimulati con piena coscienza del perché non dovevano essere manifesti. In definitiva, dunque, finisce per avere ragione Alemanno, quando sostiene che il razzismo fu un male assoluto, e il fascismo no: non lo fu perché le sue leggi razziali, i suoi progetti, non puntavano a cancellare dalla faccia della terra un’intera razza, peraltro nobilissima.
A questa considerazione si obietta che il fascismo fu, però, alleato con il nazismo. E qui si arriva all’altra polemica di oggi: le dichiarazioni del ministro La Russa, che ha voluto onorare anche i caduti della Repubblica Sociale Italiana. I quali erano alleati dei nazisti, e quindi ne condividerebbero – secondo un giudizio diffuso – la responsabilità. Si sa invece che, nella Rsi come nel resto del mondo, quasi nessuno era a conoscenza di quanto avveniva ad Auschwitz, a Dachau e negli altri turpi campi di concentramento nazisti. Ed è lecito supporre che, se lo avessero saputo, molti non avrebbero accettato di combattere ancora al fianco di un simile alleato. Sbagliarono, certo, ma perché anteposero al valore universale della libertà quello nazionale della patria. Proprio come altri anteponevano al valore universale della libertà quello ideologico del comunismo. Però il giudizio storico, per essere tale e non distorto, deve tenere conto dell’epoca in cui si svolsero i fatti. Quei giovani, e quegli adulti, erano stati educati tutta la vita al culto della patria, prima con le lezioni sul Risorgimento, poi con il gran macello della prima guerra mondiale, poi con la propaganda del nazionalismo fascista. Stato, scuola, genitori avevano inculcato loro concetti di patria e di onore difficili da estirpare nel corso di una notte, proprio quando sembrava averli traditi lo stesso re che di quei principi doveva essere il custode. Sbagliarono, sì, ma non è giusto disprezzarne la memoria, se non si macchiarono di delitti che con la guerra nulla avevano a che fare.
Infine una considerazione, anche personale. Dispiace che queste polemiche nascano sempre da dichiarazioni di uomini politici di destra, siano o no al potere. Perché, inevitabilmente, si finisce per sospettarli di interessi di parte e per coinvolgere nel sospetto chi – come me – arriva alle stesse conclusioni per tutt’altre vie, storiografiche e non politiche. Dispiace anche di più che la responsabilità, forse, sia proprio degli storici, che non hanno ancora fornito ai politici – di destra e di sinistra – gli strumenti per una comprensione meno manichea del nostro passato. (il Giornale)

8 commenti:

Anonimo ha detto...

Capisco perfettamente questa tesi e, in parte, la condivido.
Le mie perplessità nascono quando mi sovviene alla memoria i compiti che i militanti della RSI di accollarono. Parlo dei RASTRELLAMENTI dei partigiani e dei renitenti (cosiddetti) alla leva, nonchè delle fucilazioni dei malcapitati caduti nelle loro mani: fucilati, ma anche impiccati con i cavi di accaio.
Chi vuol dire qualcosa sulla X Mas, del simpatico Valerio Borghese? Chi ha visto il film "Sciuscià"?
Sono di destra, sono anticomunista, per chiarire la mia posizione, ma non riuscirò mai in cuor mio a difendere coloro che, in nome della patria (ma quale patria?) commisero queste nefandezze.
Nel senese la Milizia fascista catturò, di notte, in un bosco, 12 sciagurati giovani di 18 anni, "renitenti", che si erano andati a nascondere.
Li fucilarono lungo la strada che porta a Monticiano. Fu un massacro orribile. E chi si sente di difendere questi assassini?

Anonimo ha detto...

E le stragi dei partigiani come le classifichiamo?

Anonimo ha detto...

Caro Pansa, ti racconto mio nonno fascista
di Redazione


Dario Franceschini*

Ho letto con stupore, e con un po’ di amarezza, l’intervista di Luca Telese a Giampaolo Pansa pubblicata ieri dal Giornale. Non solo perché per Pansa nutro un affetto sincero (sin dai tempi in cui, giovane della Dc, provavo un misto di rabbia e fascino per gli articoli impietosi in cui lui, da sinistra, attaccava la Balena Bianca, il partito in cui militavo con entusiasmo, credendo fosse possibile cambiarlo senza demolirlo) ma anche perché gli ho riconosciuto che con la sua serie di libri sui «vinti» ha aperto una finestra di luce su un pezzo di storia del nostro Paese che non può essere per sempre accantonato e dimenticato solo perché scomodo.
Ed è anche per questo che ho accettato volentieri di presentare nella mia città, Ferrara, uno dei suoi libri, cogliendo quell’occasione per raccontare pubblicamente la storia della mia famiglia.
Ora l’accusa che Pansa mi ha formulato è di avere «ringhiato» contro La Russa e le sue affermazioni sui giovani di Salò mentre non avrei potuto farlo proprio per la mia storia.
Innanzitutto non mi pare di aver «ringhiato», ma a una domanda di un giornalista ho educatamente risposto che condividevo le parole del presidente della Repubblica, così diverse da quelle del ministro della Difesa pronunciate poco prima, e ho tentato di ricordare che l’antifascismo è un elemento fondante della nostra democrazia repubblicana e pertanto dovrebbe essere un valore condiviso da tutte le forze politiche.
Ma poi credo, francamente, che proprio la mia vicenda familiare, molto simbolica come molte storie italiane, mi consenta di esprimere qualche giudizio non ideologico, ma vissuto.
Ripercorro con poche parole questa storia nella sue completezza, per i lettori più che per Pansa, che la conosce tutta anche per averla riportata in uno dei suoi libri e che ieri invece nell’intervista (e questa è la parte che mi ha lasciato un po’ di amarezza) ha raccontato solo in parte, omettendo il finale.
Mio nonno materno, cui ho voluto un gran bene, aderì prima al fascismo, poi alla Repubblica di Salò. Ci credeva, e negli incarichi amministrativi che ebbe riuscì a farsi benvolere da tutti. Dopo la Liberazione per qualche anno restò lontano dalla famiglia e dal suo paese natale, Poggio Renatico, per evitare le vendette e le rappresaglie che segnarono drammaticamente quel tempo.
Così mia mamma, innocente e bambina, il mattino andava a scuola con la testa bassa, per non leggere sui muri del paese le frasi minacciose contro suo papà.
La parte che Pansa non ha raccontato, ma è quella che più simbolicamente dimostra come gli italiani abbiano costruito la riconciliazione nazionale molto prima delle loro classi dirigenti, è che, poco tempo dopo la Liberazione, quella ragazza, mia mamma, si fidanzò e poi si sposò con mio padre, un giovane ex partigiano, componente il Cln sfuggito alla fucilazione, da poco diventato deputato della Democrazia cristiana. Mio nonno approvò quella scelta e la mia famiglia è stata per anni unita sull’affetto e sul rispetto.
Anche l’Italia, dopo le laceranti ferite del primissimo dopoguerra, è stata in fondo così.
Ora la domanda è: perché questa mia vicenda familiare dovrebbe ostacolare un mio giudizio sul fascismo e una mia contrarietà al tentativo, oltre mezzo secolo dopo, di mettere tutti sullo stesso piano: chi combatteva per una causa giusta e chi dalla parte sbagliata?
Non è un problema di rispetto per la vita di tutti. È che la storia non può essere cambiata e che la nostra democrazia ha le radici in quel riscatto nazionale reso possibile dalle donne e dagli uomini della Resistenza, dopo le vergogne della dittatura, degli omicidi politici, delle leggi razziali, dell’alleanza col nazismo, dei morti di una guerra tragica e folle.
Quando si piange in Normandia di fronte a quel prato struggente pieno di croci bianche, quando si visita Auschwitz, quando si prega a Marzabotto o alle Fosse Ardeatine, a qualcuno può venire in mente di mettere sullo stesso piano i soldati americani e i loro nemici, le vittime innocenti dell’odio razziale e i loro carnefici?
Furono in molti, e fu così anche per mio nonno, a trovarsi dalla parte sbagliata in buona fede, spesso anche solo per ubbidienza e non facendo del male a nessuno, ma non si può riscrivere la storia, non si può cercare di equiparare ciò che non è equiparabile soltanto per giustificare, come è stato forse, anche inconsapevolmente, in questi giorni per Alemanno e La Russa, le proprie passate imbarazzanti militanze.
In ogni democrazia matura lo scontro politico, anche il più duro, avviene sempre dentro un sistema di regole e di valori comuni.
Gli episodi e le frasi infelici di questi giorni proprio su questo devono interrogarci. Possono gli avversari politici anche in Italia, più di sessant’anni anni dopo la fine del fascismo, ormai vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, condividere senza distinguo i valori fondanti della nostra Costituzione e riconoscere una storia nazionale condivisa?
O dobbiamo aspettare che passi un’altra generazione?
Grazie della cortese ospitalità.
Dario Franceschini
* vicesegretario del Partito democratico

Anonimo ha detto...
E le stragi dei partigiani come le classifichiamo?

Le classifichiamo nella stessa classe di delitti.
Quando ho citato il film "Sciuscià" ho fatto riferimento anche a quelle.
Le stragi sono stragi. E basta.
I Fascisti (quelli delle Brigare nere, per intenderci, quelli che hanno servito il nazismo fino all'ultimo giorno, non sono degni di essere chiamati combattenti: sono stati una masnada di briganti, assassini, prevaricatori, servi agli ordini di Hitler).
Il Fascismo non ha alibi. Dovunque vai, è sempre fascismo.
Altrettanto dicasi per il Comunismo e per tutte le altre dittature. Senza distinzioni di sorta.

Anonimo ha detto...

PS
E altrettanto si deve dire per le stragi commesse da certe bande di Partigiani, che di partigiano avevano solo il nome, ma nella sostanza erano dei delinquenti alla pari, o peggio, dei fascisti. Vedi opere di P. Pansa.

Anonimo ha detto...

ari PS
Sono scandalizzato dal fatto che ancora oggi si voglia da parte di qualcuno, con il pretesto di "rileggere" la storia", difendere i "valori" del fascismo.
Altrettanto mi scandallizza l'idea che altri si diano da fare per ripescare quelli del Komunismo.
Come mi scandalizza l'idea che si tolleri l'intolleranza religiosa dei mussulmani. A questo proposito il filosofo Locke, parlando della tolleranza, disse che si tollera tutto, ma si possono tollerare gli intolleranti.

Anonimo ha detto...

errata corrige

ma NON si possono tollerare gli intolleranti.

Anonimo ha detto...

citazione:

E qui si arriva all’altra polemica di oggi: le dichiarazioni del ministro La Russa, che ha voluto onorare anche i caduti della Repubblica Sociale Italiana. I quali erano alleati dei nazisti, e quindi ne condividerebbero – secondo un giudizio diffuso – la responsabilità. Si sa invece che, nella Rsi come nel resto del mondo, quasi nessuno era a conoscenza di quanto avveniva ad Auschwitz, a Dachau e negli altri turpi campi di concentramento nazisti. Ed è lecito supporre che, se lo avessero saputo, molti non avrebbero accettato di combattere ancora al fianco di un simile alleato. Sbagliarono, certo, ma perché anteposero al valore universale della libertà quello nazionale della patria.

osservazione
Ma nel combattere fianco a fianco con i nazisti, ammesso che ignorassero quanto sopra, si macchiarono di atroci delitti. Anzi, peggio. I Nazisti scelsero Loro per compiere le stragi più efferate, delegandoli e relegandoli al nobile rango di Boja.
E qui non c'è giustificazione che tenga.
La Russa e Alemanno hanno perso una bella occsasione per stare, almeno, zitti.

Anonimo ha detto...

ERRATA CORRIGE
il film cui ho fatto riferimento è
PAISA'
e non Sciuscià.