Guardatevi dai pifferai magici.
Scimmiottano tutti il primo, l'originale, quello che ad Hamelin, Bassa Sassonia, nel 1284 avrebbe imbesuito un centinaio di bambini facendo loro danzare il ballo di San Vito al suono del suo strumento. Nessuno sa che fine abbiano fatto. Più tardi, è stato aggiunto al dramma un happy end. Il borgomastro pagò al pifferaio la somma dovuta, e i piccoli rincasarono. Già, perché il musicista girovago aveva lavorato per il comune, prima. L'aveva liberato dai topi, pestilenziali invasori. E il capoccia aveva fatto il furbo, rinnegando il patto.
La morale è questa. Quando un pifferaio vi chiede di accodarvi a lui per strade e piazze, domandategli prima, a muso duro: «Tu, da che ratti hai liberato il paese?». In soldoni, che cosa hai fatto di positivo, di costruttivo, insomma di buono e di pratico, per chiederci di seguirti alla ventura? Mi sto rivolgendo a chi sta nelle aule, agli studenti, non solo a quelli che - per loro diritto, intendiamoci - hanno accantonato ieri banchi e libri per protestare contro i cambiamenti decretati dal governo alla scuola, ma a tutti coloro che operano nel mondo dell’istruzione, per obbligo, per scelta o per vocazione lavorativa. Sembra un riflesso pavloviano. Ogni tentativo di far sterzare di un millimetro il carrozzone pachidermico, genera cori e manifestazioni di dissenso. A leggere alcuni striscioni che impavesavano i cortei, il malumore rifluisce all'indietro, fino a Moratti, via Fioroni, senza troppo riguardo alle tinte delle casacche politiche e ideologiche. Forse è il mutamento in sé che allarma e disturba? Non ricordo, però, sussulti quando il responsabile di turno cambiò le carte in tavola, introducendo i tarocchi dei debiti, che per strano paradosso burocratico, furono definiti «formativi».
Anche Napoleone predicava che ogni fantaccino aveva nello zaino il bastone (virtuale) di maresciallo. Ma bisognava guadagnarselo sul campo. Una scuola che, per legge, tentenna gravemente sulla responsabilità di bocciare, è un sistema educativo che abiura al suo compito nobile di promuovere, nel senso etimologico di spronare al miglioramento, alla maturazione di sé, in capacità e competenze. C'era Luigi Berlinguer al timone, quando si ipotizzò un «concorsone», un test qualitativo per premiare (con parsimonia) economicamente e con scatti di carriera i prof più preparati e impegnati a fornire un servizio migliore. Non se ne fece nulla. Per la scuola nel suo complesso fu un autogol clamoroso, un danno oggettivo. Ma anche allora non scattarono reclami. Purché niente si agitasse nella gora vischiosa del tran tran ripetitivo. Meglio salvare la facciata di mediocrità egualitaria, che arrischiarsi a premiare un merito. Il merito: un valore che in qualsiasi altra sfera è sempre di segno positivo, ma nella scuola pubblica, chissà perché, fa scattare, inesorabile, il cartellino rosso. Dobbiamo interrogarci su chi abbia interesse a mantenere marmorea la superficie della palude. Cambiare per il puro gusto di farlo è un salto nel vuoto irrazionale. Ma altrettanto immaturo appare stracciarsi le vesti (o bruciare grembiulini, quali emblemi di oscurantismo) al primo rintocco di riforma. Cari studenti, ve lo proponiamo, questo problema, come tema di riflessione in classe. Come compito. In più, un aiutino di traccia. Valutate che nello slogan degli scaltri pifferai «stiamo lavorando per voi» non ci sia una nota falsa, il voi della chiusa che è un occulto noi. Per essere chiari: occhio ai pacchi. (il Giornale)
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3 commenti:
E venne il '68.
Tutti coloro che nella scuola avevano lavorato, vinto il concorso, tirata la cinghia, servito lo stato per quattro soldi, si accorsero che
più di metà del loro lavoro era andato a finire al sussi.
Questo perché con una "grandiosa conquista" sindacale (ma le tre confederazioni erano ormai una sola, la CGIL) si videro sorpassati da quelli che avevano appena 10 anni di servizio. Buono per loro, ma gli "anziani" non ricevettero mezza lira in più del
"dovuto". Correva l'anno di grazia (confederale) 1972.
Ma non è finita qui. Perché tutti coloro che non erano stati capaci mai di vincere un concorso entrarono in ruolo, si videro valutati TUTTI gli anni di supplenza, cosa che a molti fornì la possibiità di sorpassare alla grande molti vincitori di concorso.
I vincitori di concorso per direttore didattico (anno di grazia 1973) entrarono nel nuovo ruolo con lo stesso stipendio che riscuotevano da maestri (dopo 20anni circa di servizio). -Forse 5000 lire in più, su circa 300 mila)-
Come se non bastasse con i decreti delegati (reclamati ad voce dalla tripilce sindacale=CGIL) la scuola passò la staffetta ai vari "consigli" che di tutto discutevano e niente decidavano. I dirigenti erano ostaggio degli incompetenti e dei facinorosi; entrarono inoltre nell'ingranaggio della burocratizzazione, per cui si ritrovarono a maneggiare tonnellate di cartacce da smistare a destra e a sinistra.
La disciplina nelle classi andò a farsi benedire.
Il voto in condotta divenne una barzelletta.
Il giudizio annuale sugli insegnanti fu abolito (tutti bravi!).
Gli insegnanti più impegnati mandano avanti la scuola alla meno peggio. Gli altri non combinavano più niente.
Sui provvedimenti disciplinari venne deposta una pietra tombale.
Del famoso temuto7 in condotta non si faceva più menzione, neanche nelle barzellette.
Insegnanti (si fa dire) che non si erano mai sognati di affrontare il concorso direttivo (preside o direttore) dicevano sghignazzando che la differenza di stipendio era così ridicola che non metteva conto provarci.
Visite di controllo nelle classi, con relativo verbale di visita: abolite.
Il '68 aveva dato il "La" ad una nuova era di "democrazia" nella scuola.
E oggi, finalmente, si raccolgono i frutti avvelenati di quella stagione.
La scuola cambierà? Ma cambieranno i Bulli? cambieranno i fannulloni? Chi si ricorda, facciamo un salto all'Università, gli esami di gruppo e il 27 politico?
I bulli di oggi sono i figli dei "27 politici" di allora.
La scuola cambierà?
Sì. Forse in peggio. Ma non per colpa delle nuove leggi ...
ad voce leggi ad alta voce
mandano leggi mandavano
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