Giovani svogliati, non competitivi, creativi solo a chiacchiere. La fotografia è stata scattata, ancora una volta, dall’Istat, che osserva la lievitazione inquietante dei “neet”, giunti a due milioni, vale a dire che già avevano un lavoro e sono divenuti not in education, employment or training, cioè non lavorano, non studiano, non si formano. A questi si aggiungono quelli che a lavorare non hanno mai cominciato. Dal 1983 sono cresciuti del 28,9% coloro che, fra i 30 e i 34 anni (giovani?), rimangono a vivere con mamma e papà. Non escono perché non hanno soldi e lavoro, mica perché si sono affezionati, e non hanno soldi e lavoro perché non escono. Gli esclusi da ogni attività sono aumentati considerevolmente, nel corso del 2009, sia al nord (+ 85 mila) che al centro (+ 27 mila), ma superano il milione al sud.
Quel che spaventa non è solo il dato, ma la tendenza a credere che lo si possa accettare. Tanto per fare un esempio: dovendosi varare misure per fronteggiare la crisi non si aprono i mercati, non si chiamano i giovani all’impegno, ma si fa l’esatto contrario, congelando l’esistente e prorogandolo finché possibile. Le colpe dei nonni si abbattono sui nipoti, dopo avere fatto dei padri una generazione di mantenuti. Un giorno si dirà che era evidente, che nessuno poteva realmente credere si potesse andare avanti tenendo all’infinito i giovani in scuole non formative e in piazze festeggianti non si sa cosa. Ma nel giorno che viviamo, al contrario, sono in tanti a credere che si possa far finta di niente.
C’è un giacimento con un’enorme falla, che disperde la ricchezza tutt’intorno. Quel che colpisce non è solo lo spreco, ma l’inquinamento che produce, il progressivo sporcarsi dell’intero ambiente. Non mi riferisco al petrolio del golfo del Messico, ma ai giovani d’Italia. Li bruciamo ogni giorno, con allegria e rassegnazione. Li consideriamo eterni debuttanti, anche ad età che furono quelle dei padri di famiglia. Li mariniamo in un sistema dell’istruzione non meritocratico e non competitivo, addestrandoli alla condotta dell’avanzamento per anzianità, invitandoli non all’eccellenza, ma alla non bestialità. Li teniamo fuori dal mercato del lavoro, facendo loro credere che si tratta di un modo per preservarli dalla precarietà. In compenso finanziamo, per il tramite delle famiglie, e finché possibile, svaghi e perdite di tempo, inducendo la convinzione che il consumo sia un diritto e la produzione un’eventualità. Tutto questo ha effetti devastanti sull’intero ambiente.
L’economia italiana cammina ad una velocità inferiore a quella dei grandi Paesi sviluppati, che pure non se la passano bene. La distanza relativa è aumentata, nel senso che le previsioni attribuiscono agli altri un pochettino di sviluppo in più, mentre noi siamo inchiodati ad uno zero virgola in meno. Queste, però, non sono previsioni meteorologiche, non sono l’anticipazione di ciò che non dipende dalla nostra volontà, sono le conseguenze dei nostri difetti. Il primo dei quali è avere cercato, in tutti i modi, di cancellare il valore del merito, lo stimolo della competizione, il premio alla qualità. I giovani ricercatori italiani, sia nel pubblico che nel privato, guadagnano la metà di quelli francesi o tedeschi. Cosa credete che facciano, i più bravi? Se ne vanno. I laureati fra i 24 e 34 anni raggiungono, quando va bene, l’80% del guadagno della media di tutti i laureati, in ambito Ocse. In Francia e Germania arrivano al 90, negli Stati Uniti al 93. Da noi essere giovani è uno svantaggio, nei mercati dinamici, invece, un’opportunità.
Abbiamo una disoccupazione giovanile impressionante, anche se gli indici complessivi ci collocano sotto la media europea. La spiegazione si trova nel modo in cui facciamo i conti: non consideriamo disoccupati quelli che non lavorano, ma avevano un posto e ricevono un sussidio; non quelli che, non avendo altro da fare, sono iscritti all’università; non le donne che non cercano attivamente lavoro. Abbiamo, contemporaneamente, bassi tassi d’attività e bassi tassi di disoccupazione. Una magia possibile solo perché i numeri non rispecchiano la realtà. Vale anche per i salari, a proposito dei quali Luca Ricolfi ha sostenuto che non è vero che i nostri lavoratori dipendenti sono i peggio pagati d’Europa, perché i conti vanno fatti considerando le minori ore lavorate e la minore qualità. Non ci si meravigli, allora, se non cresce un Paese nel quale lavorano poche persone, per poche ore al giorno, per pochi anni nella vita, e senza gran qualità. Il miracolo è che stia a galla.
Lo scrivo e riscrivo inutilmente, perché non si trova la chiave per aprire la porta del cambiamento. La ragione è che siamo ancora troppo ricchi per provare dolore, e i giovani sono tropo viziati e ben pasciuti per covare ribellione. Si tira avanti, osservando le scene di crisi, ammirando quelle di sviluppo, come fossimo al cinema, come se fossero finzione scenica, senza sentirci coinvolti.
Guardate quel che accade in Grecia, dove i problemi erano noti a tutti, i conti non tornavano in modo plateale, gli sprechi erano evidenti, eppure c’è voluta una micidiale batosta, una speculazione del mercato e un’umiliazione politica per trovare la forza di dire basta. E guardate in casa nostra: c’è voluta la fifa blu per arrivare a dire che, al momento buono, chiuderemo le province con meno di 220.000 abitanti, ma non quelle confinanti con l’estero (?!). Quando la casa brucia è naturale che si metta mano ai secchi, ma la saggezza consiste nel predisporre impianti antincendio. Nel caso delle nostre società, quelle dell’Europa occidentale, è necessario prendere atto di quanto si sia deformato il modello di welfare state, passato da solidarietà collettiva a protezione dei privilegi, da altruismo cosciente a egoismo incosciente, divenendo una macchina che droga la politica, pagandone il consenso. E’ un meccanismo costoso, non più sostenibile.
Proviamo a guardare, con un certo sforzo, le cose dal lato positivo: l’enormità dei problemi impone una rottura, consegnando alla politica una forza che questa, in sé, non aveva trovato. Il tempo, però, non scorre gratis. Ne abbiamo già buttato via parecchio.
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2 commenti:
Strano trovare in un blog votato al centrodestra un commento del genere.
Si, perché la causa della triste situazione che vede a casa milioni di giovani è nella politica attuata da Berlusconi e dai suoi.
Se c'è chi non trova lavoro e non gli viene rinnovato è perché magari ha un contratto a progetto, di quelli con cui è facile mandare a casa.
Il motto "meglio un lavoro precario che niente" è un grido al ribasso, ad una classe politica che non guarda al futuro. Ne sono dimostrazione i continui tagli alla ricerca attuati dai Governi Berlusconi.
Vergonatevi.
Sappiamo essere critici ed anche autocritici, cosa che la sinistra non sa fare.
Quanto alle colpe, andiamoci piano.
Berlusconi non è la causa di tutti i mali del nostro Paese: molto era già stato fatto.
Sul lavoro esprimo un parere: meglio flessibile, con poche rigidità, aperto e di facile accesso, piuttosto che blindato in entrata e in uscita.
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