In tema di pensioni alle dipendenti pubbliche stiamo dando il peggio di noi stessi, e speriamo che l’idea di risolvere tutto in un colpo solo, con un unico scalone, indotto dal pungolo europeo, sia definitiva e immodificabile. La politica dell’opposizione è dissennata, perché pretendono d’opporsi ad una sentenza della Corte di Giustizia e ad un’intimazione della Commissione Europea che, per giunta, sono più che giuste. La politica del governo è stata tremula e improntata al rinvio, laddove invece, lo scrivemmo fin dall’inizio, non solo non ci sono difficoltà nel parificare, come si deve e come è bene, l’età pensionabile di donne e uomini, ma farlo subito neanche “danneggia” le interessate, che sono solo quelle la cui età raggiunge il limite da qui al 2018. Il risultato, paradossale e ridicolo, è che il Paese con un numero di lavoratrici scandalosamente basso e, quindi, con un numero enorme di donne che restano fuori dal mercato del lavoro, riesce a farsi punire per leggi che discriminano e danneggiano gli uomini. Roba da dar la testa contro il muro.
Il caso, ricordiamolo, nasce dal fatto che i dipendenti pubblici hanno un contratto con lo Stato, nelle sue varie articolazioni, ed in quello c’è scritto che se nasci femmina vai in pensione cinque anni prima. Discriminazione palese e irragionevole (che non avrebbe rilievo se fossero contratti fra privati), tenuto presente che la vita media delle donne è più lunga e che i bisogni legati alla prole non sopraggiungono a sessanta anni. Ma basta dir le cose come stanno, e dichiarare che va posto rimedio, che subito scatta la lamentazione per le donne “colpite”. Ma da che? Ci casca anche l’ottimo Tito Boeri, che leggo sempre con attenzione e gratitudine, il quale ha sostenuto che pagano le donne, anche perché hanno una carriera discontinua, in quanto a versamenti contributivi e rispetto agli uomini, anche in ragione dei bisogni e doveri familiari. Ma di che parla? Le dipendenti pubbliche non hanno nessuna discontinuità contributiva e hanno protezioni financo eccessive, per i periodi d’assenza. Anzi, è vero l’esatto contrario: fanno meno carriera e hanno pensioni mediamente più basse degli uomini anche perché vanno in pensione prima, quindi il “danno” è nell’attuale legislazione, non nella sua necessaria e opportuna modifica.
E, si badi, neanche utilizzo l’argomento dei risparmi, quindi dei tagli agli oneri pubblici, perché la parificazione dell’età pensionabile è un principio bastevole a se stesso, non bisognoso d’ulteriori fortificazioni. Non solo: se si mantenesse la distinzione per genere sessuale anche negli anni in cui, con una lentezza esasperante e non ragionevole, si va applicando la riforma pensionistica, quindi la parametrazione dell’età d’uscita dal lavoro alla speranza media di vita, ne deriverebbe che toccherebbe alle donne lavorare più a lungo, visto che soggiornano più a lungo su questo pianeta. Quindi, ai tanti che piagnucolano sul “danno” alle lavoratrici suggerisco di cambiare velocemente argomentazione, se non vogliono farsi inforchettare dalle loro presunte protette.
Il mercato del lavoro, per quel che riguarda le donne e non solo, ha certamente bisogno d’innovazioni profonde, ma nel senso opposto a quel che oggi suscita l’opposizione e il tremore di quanti fanno fatica a prendere atto della realtà: serve molta più elasticità, molte più porte girevoli, che consentano di entrare nel mercato e di uscirvi, per poi rientrarvi, perché il vero problema è che, in Italia, lavorano poche donne e poche persone in assoluto. Poi, oltre tutto, lo fanno per poco tempo.
Essendo conveniente cambiare, per ciascuna di loro, per ciascuno di noi, e per la collettività intera, guadagnando produttività e reddito, è stucchevole che ci si faccia bacchettare, come somari alle elementari, da una Commissione Europea che, di suo, non è esattamente il regno del libero mercato, ma, all’opposto, il guardiano ciccione dello Stato strabordante. Dovremmo correre noi, anticipando i tempi, invece ci facciamo prendere per le orecchie, sempre in ritardo. Ed i ritardi si devono anche all’inesistenza di un mondo giovanile consapevole e capace di far di conto, perché se ai ragazzi fosse chiaro che stanno pagando o pagheranno pensioni che loro non prenderanno, se ai lavoratori privi di sicurezza, temporale e reddituale, fosse chiaro d’avere pagato la cancellazione degli scaloni pensionistici, varata dal governo Prodi, senza che a loro sia stato dato nulla in cambio, se si accorgessero che i sindacati pensano solo ai lavoratori di un certo tipo, meglio se statali e meglio ancora se pensionati, e che il centro destra ha suonato la serenata alle “partite iva”, salvo lasciarle in balia della crisi, senza neanche offrire in contropartita aperture del mercato, tutta questa brava gente ce la troveremmo in piazza, animatamente protestante a favore, non contro la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro.
Invece siamo il Paese degli schieramenti ideologizzati, pur senza più ideologie. Paghi di fronteggiarsi e reciprocamente disconoscersi legittimità, ma troppo occupati ad odiarsi perché rimanga tempo da dedicare ai problemi concreti. Ancora, noi tutti e i giovani, troppo ricchi di un welfare sprecone e costosissimo, che speriamo sempre di mettere sul groppone d’altri, per potere supporre che questo mondo illusorio non sta per finire, è già finito, ma si trascina per inerzia e peso della zavorra.
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