Così non va. Meglio dirlo in modo ruvido: così la baracca viene giù. Il presidente del Consiglio non aveva ancora finito di decollare per il Canada che i problemi non risolti hanno innescato conflitti destinati ad aggravarsi. Poco male, potrà pensare qualcuno, è la solita sceneggiata politica. Ma non è così, perché i nodi non sciolti rischiano di bloccare tutto, soffocando anche quella ripresa economica intravista da Confindustria e, comunque, penalizzata da tagli alla spesa che, in assenza di riforme e liberalizzazioni, hanno un effetto recessivo.
Dentro la maggioranza non mancano i problemi, visto che le tre aree che la compongono non si risparmiano pubbliche tortorate. Il tutto aggravato da una gestione non sempre lucida della compagine. Non sono fra quanti pensano che non si riesca a campare se non si nomina un titolare al ministero dello Sviluppo Economico, e neanche ritengo che l’efficienza di un governo sia data dal numero dei suoi componenti, per cui non mi scandalizzo affatto se si aggiunge un posto a tavola, però, che diamine, nominare un nuovo ministro senza avere idee chiare sulla funzione e delega, al punto che questa cambia con il passare delle ore e il vice presidente sconfessa l’originaria missione, nominarlo nel momento in cui si trova a doversi avvalere del legittimo impedimento, quindi in coincidenza con l’opportunità di non recarsi davanti ai magistrati, il tutto mentre resta vuota la poltrona di un ministero che ha, fra le sue competenze, il futuro energetico dell’Italia, insomma, è un andazzo da sconsiderati.
Stiano attenti, i capi della maggioranza, non ritengano che l’inesistenza dell’opposizione, la sua inconsistenza politica, li metta al riparo da possibili guai. E non ritengano che gli elettori cui devono la vittoria, e il sedere al governo, siano struzzi pronti a deglutire di tutto. Anche perché, in cambio, non ricevono politiche convincenti. Silvio Berlusconi tornerà in Italia il 4 luglio. Dieci giorni senza gatto non saranno dieci giorni di danza, per i topi casalinghi, ma un periodo in cui sono in grado di rodere gli stessi pilastri sui quali sono seduti.
Gli italiani guardano, e sanno valutare. Come credete che siano accolti gli annunci sulla semplificazione, sulla possibilità di aprire le aziende in un solo giorno, salvo subire successivamente i controlli? Con grande scetticismo, quando non con amara ironia. Il problema delle nuove aziende italiane non è quello di nascere, ma quello di sopravvivere e crescere. I costi intollerabili non sono quelli di partenza, ma quelli di permanenza in vita. Se posso avviare l’attività semplicemente comunicandolo lo farò, ma non investirò un tallero (che nessuna banca mi presterebbe, oltre tutto) fin quando non si saranno esauriti i controlli e messi tutti i bolli perché, altrimenti, rischio di perderlo non appena ad una qualche burocrate non salta lo sghiribizzo di considerare non in regola lo scarico del lavandino. E, anche qui, non farò nessuna apertura di credito ad un governo che m’induce a partire promettendo benevolenza ma, al tempo stesso, mi comunica che in caso di accertamenti fiscali e relative cartelle esattoriali sono tenuto a pagare tutto subito, senza fiatare, salvo poi chiedere l’intervento del giudice, che deciderà quando sarò fallito da un pezzo. La gente sa far di conto, e sa che, in questo modo, si nasce al solo scopo d’essere macellati.
C’è un grosso lavoro da fare, nel campo della semplificazione, ma non consiste nel posticipare la tortura burocratica, bensì nel rendere certo il diritto. I controlli non possono essere omessi, ma vanno cancellati quelli inutili e centralizzati gli altri. Insomma, la strada non è quella del decreto buttato giù in fretta e furia, per accompagnare i tagli con quello che sembra zucchero e, invece, è sale.
Prendete poi il capitolo del conflitto con le regioni. Prima si è mosso Roberto Formigoni, presidente della Lombardia e, da sempre, esponente del centro destra, avvertendo che non era possibile tagliare la spesa in quel modo. Non entro nel merito, che è complesso, in una mescolanza di torti e ragioni, mi limito ad osservare che, già dopo la presentazione del decreto, il capo del governo aveva accolto l’idea di alcune modifiche. Formigoni ha insistito, non fidandosi (e non avendo torto a diffidare), ma la risposta governativa è stata una sostanziale chiusura. A questo punto è ovvio che il posto in prima fila, nell’attacco all’esecutivo e alla manovra, viene preso da Vasco Errani, presidente della conferenza delle regioni ed esponente della sinistra. Che si aspettavano? pensavano che un uomo dell’opposizione potesse essere più accomodante di uno della maggioranza?
Intendiamoci, anche Giulio Tremonti ha scarsissimi margini per modificare la manovra, dovendone lasciare intatti i saldi (e sperando che siano sufficienti), ma proprio per questo era necessario un di più d’iniziativa politica, un maggiore sforzo di ricondurre ciascun pezzo dentro il senso di un’azione ben spiegata, attorno alla quale si doveva costruire il consenso. Invece è palese che neanche dentro al governo s’è raggiunto questo risultato.
Il resto dello scenario non aiuta, con le inchieste giudiziarie che precedono di anni i giudizi, un commissario dell’Autorità per le comunicazioni che si dimette, fucilato dalle intercettazioni, e la maggioranza che non riesce ad essere tale neanche nel regolarle in modo razionale e risolutivo, tenendo assieme il diritto alla sicurezza, quello alla privacy e quello di cronaca. I segnali di ripresa sarebbero dovuti servire per suonare la riscossa, invece avvertono che non si va lontano, senza darsi una mossa.
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