E così i giornalisti italiani, domani, daranno questo bello spettacolo: sfileranno uniti, senza distinzioni di colori politici, per protestare contro una legge che non c'è, che non è imminente, che probabilmente non ci sarà mai, che comunque non è affatto importante, e che però - casomai ci fosse - darebbe un briciolo di fastidio alla categoria. Una volta si diceva: alla “corporazione”.
Sapete cos'è una corporazione? Una specie di Lega di mutuo soccorso che tiene insieme tutti gli appartenenti a una certa professione. Possibilmente a una professione potente. La corporazione dei medici, degli architetti, dei giudici, dei giornalisti. Tra tutte le corporazioni, quella dei giornalisti è la più potente, perché controlla, o comunque influisce sui giornali e sulle tv e dunque può determinare le fortune o la disgrazia dei gruppi politici.
La corporazione dei giornalisti usa con disinvoltura questo suo potere, e riesce spesso a deviare il corso della politica e delle leggi. Lo ha fatto anche stavolta. Domani - mentre le Regioni e gli enti locali attraversano la più grave crisi della propria storia, perché la manovra economica ha tolto loro i soldi per funzionare, mentre migliaia di donne fanno i conti con la pensione, che improvvisamente, nel giro di qualche ora, si è allontanata di quattro o cinque anni, mandando all'aria i loro progetti di vita, mentre gli operai di Pomigliano ignorano il loro destino, non sanno se la Fiat investirà o chiuderà lo stabilimento, mentre gli operai di tutt'Italia temono nuove Pomigliano, cioè la perdita di diritti, o del lavoro, la bastonata della globalizzazione (o, diciamo meglio: dell'uso padronale della globalizzazione), mentre tutte queste vicende richiederebbero la mobilitazione politica, per esempio, della sinistra, e l'impegno professionale, per esempio, dei giornalisti - domani invece, dicevamo, assisteremo a un fenomeno surreale: tutti i giornalisti, da Feltri a Travaglio, da Scalfari a Belpietro, dal sindacato Rai ai direttori e ai redattori di “Stampa” e” Corriere” di “Libero” e del “Fatto” e tutti gli altri - seguiti da una gran fanfara di televisioni, telegiornali, giornali, speciali, radio, eccetera eccetera - occuperanno la piazza per dire: no alla svolta autoritaria.
E in cosa consisterebbe questa svolta autoritaria (che comunque è rinviata a settembre, o forse a dicembre, o forse dopo le elezioni anticipate o forse sine die...)? Consiste nel limitare i poteri degli 007. Già, le cose stanno esattamente così: la discussione è tra chi - pochissimi, tra i giornalisti quasi nessuno - vorrebbe ridurre il potere spionistico e la sua capacità di condizionare - o addirittura di guidare, di dirigere - la vita pubblica e l'informazione, e chi invece crede che il potere spionistico, pur con i suoi difetti, comunque garantisce trasparenza e repressione e presunzione di colpa, e ritiene che la trasparenza e la repressione e la presunzione di colpa siano l'esigenza principale dell'Italia dei nostri tempi. E la sinistra, e i liberali, e gli intellettuali che per tanti anni sono stati la gloria di questo Paese? Tutti scomparsi, o silenziosi, o travolti dal nuovo amore per le manette e le spie.
I giornalisti dicono che le cose non stanno come dico io. Che quella contro la quale si battono è una legge-bavaglio. Che limita la nostra libertà, la nostra professione. Mi chiedo: quale libertà, quale professione? La libertà di pubblicare sul giornale paginate che ci sono state offerte da poteri che non conosciamo e per scopi che non conosciamo e che servono a tagliare le gambe a qualcuno, magari con l'uso dello sputtanamento della sua vita privata o cose del genere? Sarebbe libertà? Sarebbe professione quest'idea che il giornalista sia l'operatore di un computer che trasmette notizie o illazioni o gogne, che vengono dalle procure o dalle centrali di spionaggio, e vengono trasferite direttamente in edicola, senza la possibilità di chiedersi: che sto facendo? Per chi sto lavorando?
Mamma mia. Sapete cos'è che mi lascia davvero stupito? Questa domanda: ma i miei colleghi si saranno accorti in questi giorni che mentre su temi come la giustizia, o il berlusconismo, o le varie vicende di sesso e potere e vita pubblica, o la spartizione dei posti in Rai, su questi temi qui i giornali italiani si dividono e si accapigliano, succede che invece non si accapiglino per niente, e marcino come un sol uomo se il problema sul tappeto sfiora la Fiat? Si saranno accorti che tutti i giornali italiani, nei giorni della crisi di Pomigliano, hanno pubblicato editoriali, commenti, approfondimenti, schede e rubriche, e pezzi di colore, tutti, tutti, tutti gemelli? E non gli è venuto da chiedersi: hai visto mai che qualcuno ci stia mettendo il bavaglio? Non gli è venuto. Neppure il sospetto che gli editori su certi temi non amino le liberalità. Neanche a “Repubblica”, per dirne una.
E infatti domani sfileranno, i miei colleghi giornalisti, a braccetto con gli editori, dietro i loro leader che principalmente sono due: Carlo De Benedeti e Rupert Murdoch. Uno italiano e uno straniero. Sfileranno sotto il sole e grideranno: «Andremo in prigione se sarà necessario, ma sulla libertà non transigeremo mai». Non si preoccupino, nessuno li metterà in prigione. Né se la legge si farà, né se, come è molto probabile, non si farà. Hanno sbagliato Risorgimento, tutto qui. (il Riformista)
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