Sentenza non digeribile e gravida di conseguenze, quella che condanna Marcello Dell’Utri a sette anni di carcere, per concorso esterno in associazione mafiosa. La formula di rito è: attendiamo di leggere le motivazioni. Ma questa è una posizione ipocrita, perché quella lettura sarà un problema dei soli avvocati, i quali dovranno redigere il ricorso in cassazione. Il dato pubblico e politico è evidente: Dell’Utri è un uomo decisivo nello sviluppo sia dell’impresa che della politica di Silvio Berlusconi, appartiene al ristretto gruppo dei fondatori, in entrambe le avventure, una sua collusione con la mafia porrebbe (la sentenza non è definitiva) un problema insuperabile.
La Corte d’appello di Palermo ha dovuto ragionare di politica e politicamente. Lo rilevo come fatto oggettivo, sottolineato anche dal procuratore generale (rappresentante dell’accusa) che si dice “profondamente deluso” perché ritiene che “l’aspetto politico era la parte della vicenda sulla quale l’accusa aveva quagliato meglio”. “Quagliato”, ha detto proprio così, testimoniando l’alta scuola giuridica spesa nel corso del processo. La sentenza è politica perché Dell’Utri è assolto per tutti i reati contestati dopo il 1992, ritenuti non esistenti. Le accuse di Spatuzza, tutte le chiacchiere sulla trattativa fra mafia e Stato, l’ipotesi che Berlusconi e Dell’Utri fossero i mandanti delle stragi, è tutta roba da buttare nella spazzatura. Chissà se avranno voglia di rovistarvi ancora, i molti che si sono distinti in questi ultimi mesi, a partire dal Presidente Emerito della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.
Di queste stesse cose abbiamo scritto ripetutamente, argomentando il perché quelle accuse erano prive di senno. Restando ai giudici, naturalmente, stabilire se suffragate da prove e riscontri. Ora conosciamo il loro giudizio: il fatto non sussiste. Si può ben titolare, dunque, che il teorema dell’accusa crolla, che l’inchiesta iniziata nel 1994, il processo avviato nel 1997, la sentenza di primo grado, del 2004, e i successivi sei anni che hanno portato all’attuale verdetto, sono stati sedici anni di calunnie, che il fantasticare di una politica asservita alla mafia è stato un delirio. Sono sicuro che molti imboccheranno questa strada. Ma noi, che lo avevamo già detto, non possiamo in nessun modo trascurare l’altra parte della sentenza, quella che condanna. Siamo tenuti a ragionarne, anche perché il concorso esterno di Dell’Utri si concretizzerebbe proprio nel difendere gli interessi di Fininvest e Standa, vale a dire delle aziende di Berlusconi. Qui si apre un problema di diritto, che non può non avere conseguenze politiche. Per questo la sentenza della cassazione sarà decisiva.
Lo schema sarebbe questo: uomini della mafia minacciarono gli interessi di quelle società, mentre Dell’Utri li protesse, giungendo a patti con loro. Vale per tutti gli imprenditori che pagano il pizzo o vale solo per Dell’Utri? Vale per la Standa o vale anche per le Coop rosse e per le imprese nazionali di costruzione? Qual è il confine fra l’essere vittima di un ricatto e l’essere complici di un crimine? E’ ovvio che pagando il pizzo, o fornendo altre utilità, si rafforza l’organizzazione criminale, ma vale per ogni dove, mica solo in questo caso. Il codice penale descrive una condotta specifica per chi non concorre a commettere un reato, ma ne favorisce l’esecuzione o gli artefici, e la chiama “favoreggiamento”. Si sa, insomma, cosa sia il “concorso” e si conoscono i contorni del “favoreggiamento”, nell’un caso come nell’altro dovendosi provare specifiche condotte. Quel che non si sa, invece, è cosa sia il “concorso esterno in associazione mafiosa”, e non si sa perché nel codice non c’è scritto, essendo un reato frutto della giurisprudenza, delle sentenze, non della volontà del legislatore, con il risultato che tale reato è stiracchiabile quanto lo scroto e non è affatto chiaro come lo si dimostri, quindi come ci si difenda.
Se Dell’Utri fosse stato condannato per favoreggiamento o per concorso nel reato la partita sarebbe esclusivamente giudiziaria e a giocare dovrebbero essere solo gli avvocati. Ma la condanna per concorso esterno pone un problema politico, perché quel reato è un’arma puntata contro chiunque abbia un ruolo pubblico. Come, infatti, testimoniano i casi di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, assieme a molti altri. Tocca al legislatore intervenire, restaurando la sovranità della legge e senza lasciarsi intimidire. Da anni, invece, è immobilizzato dal timore e dal ricatto.
Puntare tutto, invece, sull’assoluzione per i fatti politici, ritenendo accettabile la condanna per quelli criminali, significa dimenticare che questi ultimi sarebbero stati commessi nell’interesse dell’attuale presidente del Consiglio, del capo della maggioranza parlamentare. Impossibile essere ciechi al punto da non vedere l’inconciliabilità di quella verità processuale con la realtà istituzionale. Diciamolo in modo più piatto e ruvido: qui non si parla di qualche fattura falsa, o di qualche furbata in bilancio, che sono attività illecite ma ricompresse nella normale amministrazione, qui si parla di avere favorito la mafia. Con una sentenza simile non si convive. Né gli interessati né l’Italia.
I giudici di Palermo, come qui denunciammo, sono stati a loro volta intimiditi, al punto da sentire il bisogno, prima d’entrare in camera di consiglio, di comunicare che avrebbero fatto il loro dovere senza condizionamenti. Roba mai vista. La loro sentenza annienta un pezzo, il più eclatante, del teorema accusatorio, ma non risolve il problema. E il problema non è salvare Dell’Utri dalla condanna, ma salvare il codice penale dal fai da te giurisprudenziale. Noi non facciamo processi a mezzo stampa, né per accusare (come fanno tutti gli altri) né per difendere (quando si tratta di loro amici), noi avvertiamo che senza certezza del diritto un Paese affonda nella palta e nel ricatto. Dove noi, del resto, già mariniamo da tempo.
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