lunedì 28 giugno 2010

Dopo Brancher. Davide Giacalone

Ha ragione Aldo Brancher: quanta cattiveria, quanta durezza, ha dovuto subire. Anche da parte nostra. Ma occorre si renda conto di quanta sprovvedutezza politica, quanto azzardo istituzionale, quanta dabbenaggine comunicativa e quanta arroganza sostanziale vi è nella catena di eventi di cui egli è più oggetto che protagonista.

La condotta di ciascuno si presta a critiche radicali. Lo stesso Presidente della Repubblica ha rotto quel che restava, di formale, a dividere la più alta carica dello Stato dalla battaglia politica più diretta e inzaccherata, accettando prima di nominare un ministro (perché è il Quirinale che lo ha fatto, così come prescrive la Costituzione) senza portafoglio nel mentre resta vacante una sede con portafoglio, il che, già da sé, esclude che a un politico esperto e di lungo corso, come Giorgio Napolitano, sembrasse normale amministrazione, salvo poi, con scelta improvvida, sentenziare che quel ministro non deve organizzare alcun dicastero, come se l’assenza di portafoglio comporti l’assenza di organizzazione, e sostituendosi al giudice nello stabilire se il legittimo impedimento è reale o pretestuoso. Forse non è ancora chiaro, ma quel comunicato presidenziale invade le competenze sia del governo che della giustizia.

Non per questo, però, si può tacere la condotta spericolata della maggioranza, che troppo tardi, troppo in fretta e troppo grossolanamente ha deciso di porre uno strumento di salvaguardia (il legittimo impedimento) al servizio di un proprio uomo, come se fosse possibile nominare un ministro e spingerlo a quella richiesta come primo atto della propria attività. Se ne erano consapevoli si tratta di arroganza. Se non lo erano d’imperdonabile insensibilità. In ogni caso si sono dimostrati degli incapaci, che ora hanno aumentato i guai di chi volevano aiutare.

E non basta, perché la maggioranza ha anche la colpa di non essere rimasta compatta, davanti all’errore commesso, aggravandolo. Brancher è, da molti anni, l’uomo di collegamento fra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. I guai giudiziari che lo riguardano (per i quali, vale per lui come per tutti, deve essere considerato innocente fino a sentenza definitiva contraria) si riferiscono ad una vicenda bancaria nella quale sono coinvolti interessi della Lega. Eppure è stato Bossi il primo a sparargli addosso, dal pratone di Pontida. E’ stato lui a disconoscerne la funzione, disvelando anche ai ciechi la strumentalità della nomina. La cattiveria comincia da lì. Ma non è stata una cattiveria gratuita, perché anche Bossi era a sua volta in difficoltà, visto che ai suoi elettori racconta storie non coerenti con quel che accade, e quelli se ne accorgono. Allo scarto leghista s’è subito unita la critica di Gianfranco Fini e dei suoi, cui non è parso vero di potere ficcare una lancia nella piaga apertasi sul fianco del rapporto che li esclude, dell’asse che li rende minoranza. Tutto questo capita dentro la maggioranza, e sarebbe un grave errore far credere che il problema consista nel pestar di piedi e nello straparlare di qualche esponente dell’opposizione.

Infine, l’opinione pubblica assiste allibita alla scena, scorgendo tracce di disperazione o di disperante inettitudine. Sia i simpatizzanti che gli antipatizzanti, paradossalmente, vengono spinti a ritenere che ci sia bel altro, dietro un errore così macroscopico. Non riesco ad immaginare come si potesse gestire peggio l’intera faccenda, né sistema più efficace per farsi del male e soffiare sul fuoco della cattiveria.

Il rimedio, ora, non consiste né nelle dimissioni né nella resa, ma neanche nella protervia del far finta di niente. L’unica cosa da farsi è cercare di dimostrare che dopo l’imbarazzante sdrucciolata si ha ancora la lucidità e la determinazione di far vedere al Paese di cosa altro è capace il governo. Altrimenti si vedrà di cosa altro è capace una società, lo ripetiamo da tempo, incattivita dalle tifoserie.

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