venerdì 22 aprile 2011

Breve storia dell'Anm. Francesco Natale

L'Anm è quella organizzazione che rappresenta tutta la magistratura, sia essa giudicante, inquirente, contabile, amministrativa. I suoi organi direttivi (presidente, segretario, consiglieri) esprimono ufficialmente l'opinione dell'intero corpo giudiziario sulle varie problematiche che investono la categoria, esercitando così una attività parasindacale adattata alla peculiarità del ruolo degli associati. E' infatti grazie a tale attività parasindacale o lobbistica dell'Anm che la categoria dei magistrati è riuscita ad ottenere e a consolidare i propri particolari privilegi: basti pensare alla progressione stipendiale automatica od alla esenzione da ogni responsabilità civile anche per i comportamenti che integrino gli estremi della grave negligenza.

Ma, oltre a questa attività parasindacale, l'Anm è depositaria di un potere veramente grande e delicato: infatti attraverso essa o, meglio, attraverso le sue correnti organizzate, viene canalizzato il voto degli aderenti per la designazione dei membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura. Ovvero: la maggioranza ideologica e parapolitica che controlla l'Anm riesce ad esprimere la maggioranza che controlla il Csm, atteso che fra i membri cosiddetti «laici», cioè di nomina politica-parlamentare, esiste sempre una frazione consistente pronta ad aggregarsi alla corrente maggioritaria dei membri togati. E il Csm è l'organo che determina le carriere dei magistrati e che, se del caso, irroga le sanzioni disciplinari nei loro confronti, oltre a pretendere sempre più spesso, se pur non è dato di sapere a quale titolo giuridico, il ruolo di terza Camera legislativa per tutti i provvedimenti che riguardano la categoria.

Richiamiamo ora molto sobriamente alcuni significativi momenti della storia dell'Associazione Nazionale Magistrati, perché questo ci può aiutare a capire in qualche modo la ragione e l'origine di certune tensioni che, in tema di giustizia, stanno stressando pesantemente il sistema Italia.

Certamente c'è stato un periodo in cui il problema giustizia, nel nostro Paese, non era assolutamente drammatizzato, anzi, non era avvertito affatto. E' vero che i tempi processuali erano pure allora abbastanza lunghi, sia in penale che in civile, che ogni tanto un incidente probatorio trascurato portava all'irrogazione di un ergastolo che dopo un decennio si palesava «fortuitamente» come «errore giudiziario», ma tutto questo non turbava più di tanto la pubblica opinione. Il magistrato era, secondo il comune sentire, il custode dell'ordine costituito, che, vagliando gli elementi probatori raccolti in sostanziale autonomia dalla forza pubblica, provvedeva a sanzionare con adeguato castigo il delinquente, cioè quel soggetto che con mascherina, maglietta a righe e grimaldelli vari si introduceva nel domicilio altrui a scopo di furto: tale era nell'immaginario collettivo il ladro da punire. E ancor più da punire erano i rapinatori, per non parlare degli assassini, le cui torbide storie appassionavano l'opinione pubblica quando essi avevano assassinato per motivi passionali.

Le cose sono rimaste così fino alla metà degli anni '70, cioè fino a quando la maggioranza dei magistrati si riconosceva nella corrente di Magistartura Indipendente. Corrente che potremmo definire con una certa approssimazione «moderata-conservatrice», dal momento che essa riteneva che il giudice dovesse applicare con equilibrio, umanità e buon senso la legge esistente, nel solco tracciato dalla giurisprudenza tradizionale. Ma nella seconda metà degli anni '70 hanno iniziato a prevalere, all'interno dell'Anm, le correnti di sinistra come Magistratura Democratica, o di matrice azionista come Unità per la Costituzione. Hanno cominciato, insomma, ad avere un ruolo pesante e significativo le nuove leve formatesi nell'esperienza sessantottina e post-sessantottina.

Secondo queste correnti ormai prevalenti, attraverso una interpretazione «innovativa» ed una applicazione «creativa» della legge, pure in quel contesto nel quale è fatto esplicito divieto di applicazione analogica della legge, ovvero quello penale, la magistratura doveva «farsi carico» della «negligenza», della «sordità», delle «inadempienze» del legislatore, ponendosi come avanguardia generatrice di nuove sensibilità, di nuove prassi, di nuovi istituti: e quante saranno, infatti, le «nuove norme» (giuridicamente sostanziate sul nulla) che saranno introdotte dai combinati disposti dei vari gradi di giurisdizione. In una parola, era ora di farla finita con il perseguire i «ladri di mele»: si doveva punire la criminalità annidata fra i colletti bianchi (ed è per questo che oggi denunciare il furto della propria auto diventa una triste incombenza che suscita tutt'al più il garbato compatimento dell'agente che redige il verbale...): ormai la correttezza politica esigeva che le devianze sociali fossero patologie non particolarmente allarmanti, da comprendere e soccorrere. Giammai da condannare.

Come si può facilmente intuire, è a partire da questo momento di svolta che si creano le premesse per un durissimo confronto tra il potere legislativo, espressione della sovranità popolare, e l'ordine giudiziario che pretende di essere la sua «mosca cocchiera», una mosca che nel corso degli anni diventerà un elefante.

Perché questa pericolosissima deriva raggiungesse il livello di scontro apparentemente incomponibile che sta squassando il Paese, occorreva completare il mosaico con alcuni significativi tasselli. Di questo, paradossalmente, si occupò proprio la legislazione emergenziale pensata per annientare il terrorismo, vale a dire l'istituto dei collaboratori di giustizia: strumento efficacissimo contro le Brigate Rosse, ma che, applicato all'esercizio ordinario dell'azione penale, metteva nelle mani del magistrato inquirente un potere immenso e insindacabile per indirizzare e manipolare le indagini, come riscontrò e denunciò Giovanni Falcone nel caso Pellegriti, verso l'obiettivo che gli suggeriva il proprio «libero convincimento».

Altro tassello fu introdotto dalla riforma del processo penale, una imitazione parziale e molto malriuscita del modello anglosassone, con la quale si volle rendere il pubblico ministero dominus delle indagini, sottoponendogli in toto le forze di polizia giudiziaria, col solo tangibile risultato di mortificarne le professionalità e disperderne la preziosissima esperienza. «Inconvenienti», questi, cui si cercò di ovviare con un ricorso sempre più massiccio e sistematico allo strumento delle intercettazioni: tutto questo, come logica conseguenza, non poteva che aumentare in misura patologica il potere e la discrezionalità assoluta della magistratura inquirente.

Un'ulteriore tessera in questo drammatico mosaico fu l'affermazione esasperata del principio di indipendenza nell'ambito degli inquirenti, svuotando di fatto il ruolo equilibratore dei capi degli uffici e lasciando libero campo, in nome del principio della cosiddetta «obbligatorietà dell'azione penale», ai soggetti più «estrosi» e «creativi», magari sensibili alla seduzione mediatica, alla cui discrezione veniva affidato un potere immenso e inimmaginabile solo fino a due decenni prima.

L'ultimo pezzo di questo problematico puzzle fu collocato grazie all'uragano del manipulitismo, che tolse al legislatore le guarentigie previste dall'articolo 68 della Costituzione, e contenute in tutte le Costituzioni moderne e democratiche.

In definitiva, di materia su cui riflettere ve ne è davvero in abbondanza, perlomeno se non ci si rifiuta di prendere atto che lo squilibrio - perché, sia chiaro, di squilibrio si tratta - creatosi tra legislativo e giudiziario è all'origine di un conflitto pregiudizievole, se non addirittura esiziale, per le istituzioni stesse. (Ragionpolitica)

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