martedì 5 aprile 2011

Quanto è "deliziosa" la primavera araba. Bari Weiss

Pubblichiamo l’intervista rilasciata da Bernard Lewis, uno dei più illustri studiosi del medio oriente, al Wall Street Journal.

"Cosa è andato storto?", è l’esplosivo titolo del libro pubblicato nel dicembre 2001 dallo storico Bernard Lewis, dedicato al declino del mondo musulmano. Già in stampa al momento dell’attentato dell’11 settembre, il libro ha portato l’illustre professore al centro dell’attenzione pubblica, e le questioni affrontate hanno tormentato gli americani per un intero decennio.

Ora, improvvisamente, una nuova domanda occupa la mente degli americani: cosa potrebbe andare per il verso giusto?

Per scoprirlo, ho fatto un pellegrinaggio nel suo appartamento di Princeton, New Jersey, dove risiede dal 1974, dopo aver lasciato la School of Oriental and African Studies di Londra ed essere divenuto professore all’Università di Princeton.

Ormai quasi novantacinquenne, Bernard Lewis ha iniziato a scrivere saggi ancor prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Negli anni Cinquanta erà già riconosciuto come una delle massime autorità sul mondo arabo, e dopo l’11 settembre il vicepresidente e il capo del Pentagono lo hanno convocato per chiedergli consigli.

“Penso che le tirannie abbiano il destino segnato”, esordisce Lewis mentre mi siedo vicino alla finestra della sua biblioteca con migliaia di libri, scritti in almeno una dozzina di lingue diverse. “La vera domanda, invece, è che cosa accadrà dopo”.

Per gli americani che hanno osservato i manifestanti protestare contro i regimi in Tunisia, Egitto, Iran, Libia, Bahrein e Siria, è alquanto difficile non rimanere affascinati da questa esplosione rivoluzionaria. Lewis si dichiara “deliziato” da questi movimenti popolari e ritiene che gli Stati Uniti dovrebbero fare tutto il possibile per incoraggiarli e sostenerli. Ma è anche convinto che non bisogna spingere per elezioni in stile occidentale nei paesi musulmani.

“Abbiamo un’opportunità decisamente migliore per stabilire, se non delle vere e proprie democrazie, almeno un tipo di società più aperta e tollerante, purché ci manteniamo nel solco delle loro stesse tradizioni. Perché dovremmo volere da loro un sistema di governo di tipo occidentale? E perché dovremmo aspettarci che possa poi funzionare?”, domanda Bernard Lewis.

Lewis cita l’esempio della Germania nel 1918. “Dopo la Prima guerra mondiale, i vincitori alleati cercarono di imporre un sistema parlamentare in Germania, che invece aveva una tradizione politica alquanto diversa. E il risultato è stato l’ascesa al potere di Hitler. Hitler ha conquistato il potere grazie a brogli elettorali”, ribadisce Lewis, che ha prestato servizio nell’esercito britannico nella guerra contro il nazismo. E se si vuole un esempio più recente, basta considerare il trionfo elettorale di Hamas a Gaza nel 2006.

Le elezioni, sostiene Lewis, devono essere il culmine conclusivo – e non l’inizio – di un processo politico graduale. Perciò “concentrare costantemente l’attenzione su elezioni parlamentari in stile occidentale non è altro che una pericolosa illusione”.

Non perché il Dna culturale musulmano sia irrimediabilmente refrattario a tale soluzione, anzi è esattamente il contrario. “Tutta la tradizione islamica si oppone decisamente a un governo autocratico e irresponsabile. Esiste una solida tradizione, sul piano storico, pratico e teorico, di governo limitato e controllato”.

Ma le elezioni di tipo occidentale hanno dato risultati ambigui e incerti nello stesso occidente. “Persino i francesi, che si gloriano di avere inventato la libertà, si trovano già alla Quinta Repubblica e chi sa quante altre ne passeranno prima che si mettano il cuore in pace”, dice Lewis ridendo. E subito dopo aggiunge: “Non penso che possiamo considerare il sistema democratico anglo-americano come una specie di ideale planetario”. Al contrario, ai musulmani dovrebbe essere “permesso di elaborare una propria via e un proprio sistema”.

In altre parole: per trovare il mezzo più adeguato per costruire società migliori e più libere, i musulmani non hanno bisogno di guardare al di là dell’oceano. E’ sufficiente che guardino la propria storia.

Bernard Lewis mi mostra una lettera scritta dall’ambasciatore francese a Istanbul poco prima dello scoppio della Rivoluzione francese. Il governo di Parigi era irritato perché l’ambasciatore impiegava troppo tempo a portare avanti dei negoziati. Ecco la sua replica: “Qui non è come in Francia, dove il re è il solo padrone e può fare tutto quel che vuole. Qui il sultano è costretto a consultarsi”.

Nella storia mediorientale “la parola magica è proprio la consultazione. Ricompare continuamente nei testi classici. E risale allo stesso profeta”, ribadisce Lewis.

Il suo significato fondamentale era che i leader politici dovevano necessariamente stabilire accordi con altri elementi della società: i leader delle corporazioni dei mercanti, degli artigiani, degli scribi, dei proprietari terrieri, ecc. Ogni corporazione sceglieva i propri leader al suo stesso interno. “I governanti, e persino i grandi sultani ottomani, dovevano consultarsi con questi gruppi per realizzare i propri progetti”.

Non si deve naturalmente credere che le società dell’epoca ottomana fossero modelli di una saggezza politica à la Madison. Ma il potere era strutturato in modo da poter tenere sotto controllo i governanti: quindi le comunità arabe e musulmane del vasto impero ottomano prevedevano alcuni sistemi tipici di un governo non assoluto, ma limitato.

Gli americani spesso fanno coincidere il concetto di un governo limitato con quello di “libertà”; ma Lewis afferma che questa parola non ha un preciso equivalente in arabo. “Libertà significa non essere uno schiavo. Libertà era un termine con una connotazione giuridica e sociale, non politica. E non veniva usato come concetto per definire uno status politico”. La parola araba che più si avvicina al nostro concetto di libertà è “adl”, vale a dire “giustizia”. “Nella tradizione musulmana, la giustizia è lo standard” di un buon governo. (Tuttavia, almeno a giudicare dall’enorme folla di persone che la scorsa settimana si è raccolta davanti alla moschea degli Omayyadi di Damasco urlando “libertà, libertà”, questa parola, pur non avendo ancora il significato che noi le attribuiamo, vi si è certamente avvicinata).

Il tradizionale processo di consultazione è stato una delle vittime principali della modernizzazione, e proprio questo aiuta a comprendere perché la modernizzazione abbia una dubbia reputazione in varie parti del mondo arabo e musulmano. “La modernizzazione ha aumentato enormemente il potere dello stato. E tende a minare, se non addirittura a distruggere completamente, i vari poteri intermedi che precedentemente avevano limitato l’autorità dello stato”. Proprio questo è stato il fine dell’astuzia dei Mubarak e degli Assad, insieme a “sistemi di comunicazione moderni, armi moderne e tecnologie moderne di sorveglianza e repressione”. Risultato: questi autocrati hanno preso nelle loro mani “più potere di quanto ne avesse mai avuto anche il più potente di tutti i sultani”.

Dunque la domanda essenziale è la seguente: il medio oriente può riuscire a recuperare questa tradizione e adattarla in modo adeguato alle nuove circostanze? Lewis mi ricorda che la sua professione è quella di storico e che pertanto le previsioni non sono certo la sua specialità. Ciononostante, è disposto a offrirci qualche indicazione.

In primo luogo, la Tunisia ha la possibilità concreta di realizzare la democrazia, grazie soprattutto al ruolo che le donne hanno in questo paese. “La Tunisia, per quanto ne so, è il solo paese musulmano che prevede l’istruzione obbligatoria per le donne, e nel quale le donne possono svolgere qualsiasi tipo di professione”. “Ritengo che il maggiore difetto dell’islam e la principale ragione del suo ritardo rispetto all’occidente sia proprio il trattamento che riserva alle donne”, ribadisce Lewis, sostenendo che una vita domestica fondata sulla repressione è ciò che più contribuisce alla imposizione di un governo repressivo: “Pensate soltanto a un bambino che cresce in una famiglia musulmana nella quale la madre non ha alcun diritto e vive in una condizione di autentico asservimento. Questa è la via maestra per una vita fondata sul dispotismo e la sottomissione. Apre le porte all’affermazione di una società autoritaria”.

Il caso dell’Egitto appare più complesso. I giovani manifestanti liberali che hanno guidato la rivoluzione in piazza Tahrir sono già ora relegati in disparte dalla combinazione fra apparato militare e fratellanza musulmana. Elezioni troppo affrettate, che potrebbero tenersi il prossimo settembre, potrebbero portare al potere i Fratelli musulmani. Questa sarebbe “una situazione estremamente pericolosa. Non dobbiamo farci illusioni sui Fratelli musulmani, su chi sono e cosa vogliono veramente”.

Tuttavia i media occidentali sembrano decisi a nutrire queste illusioni. Basta pensare a come presentano Sheikh Yusuf al Qaradawi: questo popolarissimo e carismatico leader religioso ha dichiarato che Hitler “era riuscito a mettere gli ebrei al loro posto” e che l’Olocausto “è stata la punizione divina che si erano meritati”. Eppure, dopo il sermone che Sheikh al Qaradawi ha pronunciato davanti a un milione di persone al Cairo all’indomani della cacciata di Mubarak, il giornalista del New York Times David K. Kirkpatrick ha scritto che Qaradawi aveva “ribadito i temi della democrazia e del pluralismo, che sono sempre stati caratteristici dei suoi scritti e delle sue prediche”. E poi ha aggiunto: “Gli studiosi che hanno esaminato la sua opera dicono che Sheikh al Qaradawi ha sempre sostenuto che la legge islamica appoggia l’idea di una democrazia civile pluralista e multipartitica”.

Il professor Lewis conosce già questo tipo di meccanismo.

Quando, alla fine degli anni Settanta, stava scoppiando la rivoluzione iraniana, sulla stampa occidentale iniziò ad apparire il nome dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. “In quel momento mi trovavo a Princeton e devo confessare che non avevo mai sentito parlare di Khomeini. E chi aveva mai sentito il suo nome? Perciò, feci ciò che normalmente fa uno storico: andai nella biblioteca dell’università e cercai qualcosa su Khomeini. E la trovai”.

Si trattava di “un breve libro intitolato ‘Islamic Government’” (ora noto come il Mein Kampf di Khomeini), disponibile in persiano e in arabo. Lewis se ne procurò una copia in entrambe le lingue e iniziò a leggerlo: “Mi risultò immediatamente chiaro chi fosse in realtà e quali erano i suoi obiettivi. E che tutto quello che si diceva su di lui e sul fatto che rappresentasse un passo in avanti verso una maggiore libertà era completamente privo di senso”.

“Cercai di farlo capire agli americani. Ma il New York Times non era disposto a toccarlo e ricevetti la seguente risposta: ‘Non crediamo che ciò possa interessare i nostri lettori’. Poi il Washington Post accettò di pubblicare un articolo, ma fu immediatamente rimproverato dalla Cia. Alla fine, comunque, il messaggio arrivò, ma soltanto grazie allo stesso Khomeini”.

Oggi, sempre grazie al perdurante khomeinismo di Teheran, il regime iraniano è impopolare e rischia di cadere. “C’è una forte opposizione al regime, anzi due opposizioni: l’opposizione all’interno del regime e l’opposizione contro il regime. E io penso che prima o poi verrà rovesciato e che emergerà qualcosa di più aperto e democratico. Per la maggior parte i patrioti iraniani sono contro il regime. Sono convinti che sia un’infamia e un disonore per il paese. E, naturalmente, hanno ragione”, dice Lewis.

Il disprezzo degli iraniani nei confronti dei loro mullah al governo è la ragione più profonda per cui Lewis ritiene che gli Stati Uniti non devono pensare a interventi militari in Iran: “Infatti, sarebbe come offrirgli su un piatto d’argento un vantaggio di cui al momento il regime non dispone: il patriottismo iraniano”. A suo giudizio, la politica più efficace è quella di incoraggiare il movimento democratico verde e fare una netta distinzione fra il regime e il popolo. “Quando è salito alla Casa Bianca, il presidente Obama ha inviato un messaggio di saluto al regime. E’ stato un atto gentile e cortese, ma sarebbe stato meglio inviare un messaggio al popolo iraniano”.

La speranza è proprio che questo movimento possa avere la forza di cambiare le cose. Infatti, a giudizio di Lewis, se riuscisse a diventare una potenza nucleare l’Iran non potrebbe essere più contenuto.

“Durante la Guerra fredda, sia l’Unione sovietica sia gli Stati Uniti avevano armi nucleari ma entrambi sapevano che nessuno dei due aveva realmente intenzione di usarle, a causa di ciò che allora veniva chiamato Mad (Mutual Assured Destruction). Ed è proprio per questo che, anche nei momenti più difficili, non c’è mai stato il vero pericolo di un conflitto nucleare”.

Ma i mullah sono “fanatici religiosi con una mentalità apocalittica. Nell’islam, esattamente come nel cristianesimo e nel giudaismo, c’è l’idea di uno scenario da fine dei tempi, e i mullah sono convinti che sia già iniziato. Perciò il concetto di una distruzione reciproca non è affatto un deterrente, bensì addirittura un incentivo”.

Un’altra variabile da tenere presente nelle dinamiche regionali è rappresentata dalla Turchia, terreno nel quale Bernard Lewis si è specializzato. E’ stato il primo occidentale al quale, nel 1950, è stato aperto l’accesso agli archivi ottomani di Istanbul. I recenti sviluppi che si sono verificati in questo paese lo allarmano profondamente: “In Turchia, si osserva la tendenza verso una crescente reislamizzazione. Il governo è mosso proprio da questa volontà, che si sta estendendo a settori sempre più vasti della società turca: dall’economia, all’impresa, alla comunità accademica e al mondo dei media. E ora sta prendendo piede anche nell’apparato giuridico, che in passato è stato il baluardo del regime repubblicano”. Fra una decina d’anni, sostiene Lewis, il posto dell’Iran potrebbe essere preso dalla Turchia.

Così, mentre guarda con gioia i giovani attivisti mediorientali sollevarsi contro le tirannie che li hanno oppressi, Lewis osserva anche con estrema preoccupazione la diffusione del fondamentalismo islamico. E’ una minaccia particolarmente grave e difficile, perché “non ha un centro politico o una precisa identità etnica, è allo stesso modo arabo, persiano e turco. E’ definito esclusivamente sul piano religioso. E può conquistare il sostegno di persone di qualsiasi nazionalità. Sta proprio qui la differenza”.

“Penso che la battaglia continuerà fino a quando i fondamentalisti realizzeranno il proprio obiettivo o vi rinunceranno. E al momento entrambe le soluzioni hanno le stesse probabilità di concretizzarsi”, conclude Lewis. (il Foglio)

di Bari Weiss, Wall Street Journal, per gentile concessione di MF
(traduzione di Aldo Piccato)

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