Sono convinto che il capo della Procura milanese dica il vero, se non proprio il giusto: i brogliacci di quelle quattro telefonate di un parlamentare, che la legge vuole inutilizzabili senza un’autorizzazione della Camera d’appartenenza, non sono finiti per errore fra le carte processuali, ci sono stati messi deliberatamente. La Procura ha scelto di compiere l’atto propedeutico alla pubblicazione su tutti i giornali, benché, come subito precisa Edmondo Bruti Liberati, “non è compito di questo ufficio esprimere valutazioni sulla pubblicazione di atti su cui è venuto meno il segreto d’indagine”. Detto con un linguaggio corrente: l’abbiamo fatto apposta. Le domande sono due: perché? e come è stato possibile?
La cosa fu teorizzata da grossi calibri della magistratura: può capitare che il processo in aula si svolga quando la sentenza pubblica sia già stata emessa. Lo constatavano senza orrore, con non celata soddisfazione. Da allora a oggi si è andati avanti, nel senso che s’è andati peggiorando, sicché fascicoli di 26 mila pagine, quindi non gestibili e non leggibili da alcun essere umano, sono depositati allo scopo d’indicare ai giornalisti le parti sulle quali puntare. Da lì in poi la corte si riunisce al bar, dove le chiacchiere portano a sentenza. E nel processo Ruby (scritto sempre con disagio) il dispositivo è già chiaro: una condotta deplorevole. Anche un reato? Non si sa. Non mi pare. Secondo me non pare neppure alla Procura, che si ritrova la parte lesa testimone di difesa e non parte civile. Aggiungo: credo che alla procura non dispiacerebbe perdere la competenza del processo, per mano della Corte Costituzionale. Perché ciò avvenga occorrono mesi, nel corso dei quali la partita pubblica sarà già giocata e terminata.
Se questo è il “perché”, resta da stabilire il come è stato possibile. Le spiegazioni della Procura sono paradossali: dato che il parlamentare è stato intercettato indirettamente, nel mentre s’intercettavano altre persone, visto che in quel momento il parlamentare (oggi imputato) non era neanche indagato, quindi non si doveva chiedere alcuna autorizzazione, e considerato che quei brogliacci furono depositati innanzi al Gip per ottenere la proroga delle indagini, ecco che oggi possono finire nel fascicolo della difesa, a sua tutela. E’ una roba che neanche Don Abbondio avrebbe osato sostenere, innanzi a un confuso, ma recalcitrante, Renzo Tramaglino.
Questa storia delle intercettazioni telefoniche è guasta nel manico. Di una cosa potete essere assolutamente certi: nelle leggi si può scrivere quel che si vuole, ma se un’intercettazione telefonica entra a far parte di un processo è matematicamente certo che la leggeremo su tutti i giornali, non escludendosi neanche l’audio. E quando l’intercettazione entra nel processo lo corrompe, perché si traveste da prova quel che è solo parola, potendosi giungere alla conclusione che anche adesso va propiziandosi: devastazione di vite private in assenza di reati, quindi di conseguenti condanne. La via maestra è una sola: escludere l’uso delle intercettazioni come prove, quindi impedirne il deposito in qualche sia modo. Osservo, con soddisfazione, che una proposta di legge, depositata il 3 marzo scorso da Maurizio Bianconi, alla Camera dei Deputati, va in questa direzione. Da destra e da sinistra, quanti hanno a cuore lo stato di diritto, farebbero bene a concentrarsi su testi come questo, anziché sulle barricate inconcludenti, che restituiscono risultati controproducenti.
Se le intercettazioni servissero per indagare, se aiutassero a portare ad una prova, senza pretendere di esserlo, si assicurerebbe sia la sicurezza collettiva che il rispetto delle singole persone. Troppo semplice, forse, per far breccia nel tafferuglio. Ad un certo punto, però, si dovrà uscirne. Magari prima della distruzione politica, posto che il resto d’Italia è già esausto.
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