Giuliano Ferrara ha ragione. I vaniloqui di Alberto Asor Rosa sul manifesto e le argomentazioni di Barbara Spinelli su Repubblica poggiano sulla medesima logica. La si può sintetizzare così: perché il gioco democratico sia realmente tale occorre che i giocatori se la vedano ad armi più o meno pari; la presenza in campo di Silvio Berlusconi dai mezzi di cui l’uomo dispone, nega in radice la precedente regoletta; il solo modo di ripristinare un corretto funzionamento della democrazia è pertanto costringere il baro ad abbandonare il tavolo. Sin qui, il barone rosso e il partito di Repubblica concordano. Per concretizzare il progettino, il primo non vedrebbe male un colpetto dell’Arma , il secondo si accontenta di un ribaltone. Non si negherà che tra le due ipotesi corra una certa differenza, ma sin quasi al traguardo il percorso è identico.
Gli assi nella manica con cui il Cavaliere trucca da quindici anni il gioco sarebbero a conti fatti due: i soldi e le televisioni. Quando si tratta di comprare e corrompere, ma anche quando tutto rientra nelle corrette regole, una disponibilità pressoché illimitata di quattrini qualche vantaggio in effetti lo garantisce eccome. Però conciliare l’ineleggibilità dei ricconi con la Costituzione, in particolare col suo cinquantunesimo articoletto, sarebbe arduo. L’oggettivo problema di garantire una certa equità nei mezzi a disposizione delle forze politiche dovrà essere affrontato ricorrendo a mezzi diversi e meno semplicistici. Impresa, in fondo, tutt’altro che impossibile.
Ma il portafogli gonfio è ancora il meno. Ciò che agli occhi di tanti giustifica l’uso di ogni mezzo contro il malfattore sono piuttosto le televisioni. Quello è un asso che vale per due. Permette di condizionare e indirizzare l’informazione ma anche, ed è ben peggio, di plasmare subdolamente il corpo elettorale imponendogli, serata dopo serata, grande fratello dopo isola dei famosi, sistemi di valori e ideologie profonde .
In realtà la presa sull’informazione del grande manipolatore, più che alla proprietà di Mediaset, è dovuta all’abitudine, diffusa a sinistra né più né meno che a destra, di considerare la Rai il cortile di casa di chi governa. Ma anche glissando sul particolare, davvero c’è ancora qualcuno convinto che le vittorie elettorali di Silvio Berlusconi siano dovute alla televisione? Nel ’94 il mostro ereditò al nord oceani di voti già appannaggio della Lega, che se li era conquistati con pochissimi soldi e nessunissima tv. I telegiornali del 2000 e del 2001 certo non pendevano per Silvio: erano colonizzati quanto quelli odierni, ma dall’armata opposta. Non riuscirono neppure a frenare le disfatte elettorali di quel biennio.
Parecchi pensano di risolvere l’equazione con il condizionamento culturale che le ipnotiche tv del nostro eserciterebbero sin dagli anni ’80. Però i format demoniaci, come Il grande fratello and company, sono diffusi in mezzo mondo e non hanno provocato alle democrazie locali nemmeno un raffreddore. Possibile allora che nessuno si chieda se il reprobo non abbia solo cavalcato un’onda culturale, della quale si è avvantaggiato e che ha poi amplificato, ma senza crearla e rappresentandone piuttosto un sintomo, pur se tra i più gravi?
Anche considerando l’ipotesi di un rincretinimento collettivo di proporzioni mai registrate in precedenza, resta impossibile che una parte tanto vasta e sostanziosa della sinistra italiana, quella moderata e quella radicale, la giustizialista e la garantista, sia davvero convinta di simili sciocchezze, disposta in nome delle stesse persino a civettare con le forze armate. Alle origini dei vaneggiamenti in questione deve pertanto esserci una pulsione più profonda e meno confessabile.
E’ possibile che quella pulsione scaturisca dalle origini stesse della Repubblica. L’Italia è una repubblica fondata sull’esclusione di una parte. E’ figlia di un “arco costituzionale” cementato dall’essere altra cosa rispetto a chi ne era estraneo. Nell’identificazione della Repubblica i fascisti svolgevano, in negativo, un ruolo determinante: l’idea che esistesse un’area politica del paese inconciliabile con la sua maggioranza non era peregrina bensì costitutiva.
Funzionò perché la parte esclusa e inconciliabile con i valori egemoni era limitatissima. I fascisti erano pochi. Già all’inizio degli anni ’80 quel cemento aveva però perso buona parte della sua efficacia, tanto che una prima repubblica sopravvissuta (per poco) a se stessa provò a sostituirlo, inutilmente, con le “forze che avevano vinto il terrorismo”.
Cosa si fa quando la parte esclusa e inconciliabile con i “nostri” valori oscilla intorno al 50 invece che al 5%? Quando un Berlusconi incontra il consenso di moltissimi italiani senza bisogno di lavargli il cervello e La Russa fa il ministro della Difesa senza che nessuno se ne scandalizzi? E’ a questa domanda (giusta) che le teste fini della sinistra da salotto e il più sguaiato antifascismo di strada danno la stessa risposta errata. Si rifugiano nella nostalgia. Ricorrono a un antifascismo ridotto a sottocultura identitaria oppure suggeriscono improbabili alleanze contro natura e le battezzano Cln. Invocano qualche salvifico intervento capace di riportare indietro le lancette del tempo, come se fosse possibile mettere tra parentesi gli ultimi vent’anni.
E’ questa fantasia nostalgica, priva di ogni senso della realtà, che anima gli sproloqui golpisti del barone rosso, le ricorrenti follie sulla costituzione di un “nuovo Cln”, i tentativi sciagurati di resuscitare l’antifascismo militante. Ma è una causa persa e che porta solo a perdere. Berlusconi non è una parentesi. La Russa non tornerà nelle fogne neppure con i Carabinieri. I leghisti in quelle fogne non ci sono mai neppure passati. E’ una partita diversa quella che si sta giocando, e per vincerla bisogna smettere di sperare che l’Italia possa tornare a essere quella che era trent’anni fa. Neppure per decreto. (glialtrionline)
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