Una ghiotta polemica sulla prima pagina dell’Unità ha svelato il nuovo probabile terreno di scontro tra la sinistra riformista alla Walter Veltroni e quella massimalista di verdi e post comunisti: i fannulloni si possono licenziare sempre, mai, o solo se sono dipendenti privati e non Statali?
La questione, a sinistra, è assai spinosa soprattutto perché a porla è stato Pietro Ichino, insigne giuslavorista, fresco Premio Tarantelli 2007 del Club dell’Economia proprio per aver lanciato l’idea e la soluzione: licenziamoli. Sicché Ichino non è un “bieco reazionario servo dei padroni”, bensì un uomo nato a sinistra, cresciuto nella Cgil e maturato nei milieu trasversali che hanno prodotto le migliori intelligenze del riformismo del lavoro ed alle quali, da Ezio Tarantelli a Massimo D’Antona fino a Marco Biagi, dobbiamo tutti inchinarci per ciò che fatto per il Paese, compreso morire sotto i colpi vigliacchi del terrorismo brigatista.
Furio Colombo invece, intellettualmente e soavemente transitato dalle ovattate sale dei vertici Fiat alle rumorose catene di montaggio dell’operaismo duro e puro, ha preso cappello e, tuonando giustamente contro vallettopoli ed i suoi eroi da strapazzo, ha additato sfrontate veline, ambigui impresari e fotografi tatuati e smutandati come i veri fannulloni da licenziare, questi sì, non i poveri lavoratori, qualunque cosa non dicano non facciano nel luogo di lavoro.Le polemiche sono il sale della politica e nel mesi estivi anche dei giornali. Ma abbiamo la sensazione che questa sia una questione tutt’altro che effimera, perché centra il tema della produttività del lavoro, della meritocrazia, della parità di trattamento dei lavoratori dipendenti dallo Stato e dalle aziende private; in una parola di tutto ciò che, se manca, - e manca - determina il declino dell’economia; se c’è – e non c’è - costituisce la precondizione per la crescita dell’economia, dell’occupazione, e dei salari.
In Italia sembra che gli anni trascorrano inutilmente. Dieci anni fa nel dibattito politico ed economico del Paese tirava un’aria assai simile a quella di oggi. L’economia usciva dalla crudele ma efficace cura del cambio forte dell’allora Ciampi Governatore, che costrinse le aziende italiane esportatrici a ristrutturarsi, pena la perdita dei mercati esteri. Gli industriali lo fecero e visto che la componente lavoro era rigida (ovvero non si poteva né spostare né licenziare nessuno, neanche i fannulloni) reagì sostituendo i lavoratori con i robot e le tecnologie, la produttività salì, l’occupazione crollò. Con la costosissima svalutazione del 1992 il cambio cedette drammaticamente, ma l’impresa ne uscì più forte. Nel Paese tuttavia la cultura prevalente interpretava la caduta dell’occupazione non come reazione alle rigidità del mercato del lavoro, bensì come l’incapacità del capitalismo post industriale di creare posti di lavoro, la profetica fine del capitale teorizzata da Carlo Marx. Qualche spericolato sociologo preconizzò perfino la fine del lavoro. Balle ovviamente, ma quella cultura allora partorì la suggestione della riduzione dell’orario di lavoro e della settimana di 35 ore. Si sosteneva, soprattutto Bertinotti e Rifondazione Comunista, che se il lavoro non era sufficiente per tutti, bastava suddividere quello che c’era e redistribuirlo fra i lavoratori per far si che si lavorasse meno e si lavorasse tutti; una rassegnata divisione della povertà, anziché una coraggiosa moltiplicazione della ricchezza.
Lo slogan ebbe successo, la proposta no. La settimana di 35 ore non è mai diventata legge, anche se non servì ad evitare la caduta del Governo Prodi, ma in compenso il guaio lo abbiamo pagato ugualmente. Da allora ad oggi, ci conferma l’Istat , sono stati creati 1.800.000 posti di lavoro, la disoccupazione è scesa ai minimi del decennio ma la produttività è crollata. Nel 1995 la produttività oraria del lavoro era in Italia del 4% superiore alla media europea, nel 2005 del 3% inferiore. In dieci anni abbiamo cioè aumentato i posti di lavoro ma perso 7 punti di produttività. Abbiamo, in sintesi, “lavorato meno ma lavorato tutti”, proprio che Rifondazione reclamava, ma senza che il Parlamento sovrano lo abbia mai deciso. Può un Paese vivere così? Mentre in Calabria, svela il giudice Salvi, si ricorre alla magistratura del lavoro per contenziosi, soprattutto previdenziali, diretti non a cercare giustizia ma ad alimentare ricorsi, interessi, opposizioni e, alla fine, sussidi surrettizi?
Oggi il paese si trova di fronte ad un’altra grande sfida. Non si tratta di dividere il lavoro ma di moltiplicare la crescita dell’economia con un guizzo geniale dell’intelligenza ed il tenace realismo della buona politica. Vent’anni fa il guizzo di Tarantelli fu di inventare il tasso di inflazione programmata e, per quella via, sconfiggere l’inflazione e preparare la politica dei redditi. Poi intervennero le leggi Treu e Biagi sul mercato del lavoro che furono la buona politica. Oggi si tratta di trovare guizzo e buona politica analoghi a quelli di allora. Occorre far diventare centrali, bipartisan e coagulanti gli sforzi per il recupero della produttività del lavoro, per il riconoscimento del diritto di chi lavora ad essere premiato e guadagnare di più e di chi si sfila o si nasconde di vedersi invece penalizzato, anche con il licenziamento se dipende da lui. Una virtuosa scala mobile della produttività? Aumenti contrattuali futuri legati tutti al merito ed ai risultati? La sfida è aperta ed il tempo di gioco è poco. Quel che è certo è che occorre produrre di più anche per ridistribuire più redditi. La generazione dei figli a mille euro al mese è figlia della generazione di padri inamovibili. Il patto generazionale, più che per le pensioni, serve per il merito nel lavoro. Chi, fra Prodi o Veltroni, nel partito democratico ha un’idea in merito?
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