giovedì 4 marzo 2010

Il Pdl non è un partito di plastica, è Berlusconi che è troppo democratico. Antonio Mambrino

Nella sua omelia laica apparsa (dopo il giallo della censura-non censura del direttore) sul Corriere della Sera Ernesto Galli Della Loggia pronuncia un giudizio definitivo sul fallimento storico del Popolo della Libertà, la creatura politica più originale di questo inizio millennio. Creatura che si è posta l’obiettivo di rendere finalmente compiuta e definitiva la faticosa transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica.

Certo, a scorrere le prime pagine dei quotidiani appare difficile dare torto a Galli. Dagli scandali della protezione civile, all’affaire Fastweb-Telecom, ai pasticci della presentazione delle liste elettorali per le prossime regionali, è tutto un fiorire di episodi in cui il pressappochismo ed il dilettantismo si coniugano con la disinvoltura, il malcostume e, se saranno confermate in sede processuale le accuse, con l’illegalità.

Ma a ragionare troppo per sintesi e per tesi generali, a procedere per induzione e non per deduzione, a voler sempre ricavare il generale dal particulare si rischiano clamorose cantonate. Perché se non c’è dubbio che tutti gli episodi citati sono non solo negativi in quanto tali ma anche sintomatici di uno stato di degrado della vita pubblica italiana, rimane tutto da dimostrare che la causa di tutto ciò sia stata la fondazione del PdL e che la terapia migliore sia quella di farlo fuori.

Dal nostro punto di vista è vero esattamente il contrario. La nascita di Forza Italia prima e del PdL poi è stata la risposta allo stato di crisi profonda in cui era precipitata la nostra democrazia con la crisi della Prima Repubblica. Una risposta che, nonostante tutte le imperfezioni e le criticità che abbiamo sotto gli occhi, è riuscita ad evitare che il fallimento politico dei partiti tradizionali si traducesse in una completa disgregazione del tessuto civile italiano (o meglio di quello che restava di tale tessuto) e desse il via ad uno stato di guerra per bande e gruppi di potere liberi di scorrazzare per il Paese una volta venuta meno l’indispensabile funzione di guida e di governo del sistema politico.

In questo senso sono del tutto ingenerose le critiche feroci alla stessa qualità politica della classe dirigente che il PdL è riuscito a promuovere. E’ chiaro inventarsi una classe dirigente dall’oggi al domani non è cosa semplice, si commettono inevitabili errori e comunque è necessario un certo tempo. Ma certo se proviamo a scorrere l’attuale composizione del Governo e, senza cadere nella trappola della nostalgia, proviamo a confrontarla con quella dei governi repubblicani degli ultimi decenni della prima repubblica, gli attuali ministri ci sembrano dei giganti della politica. Forse non molti ricordano che abbiamo avuto presidenti del consiglio e ministri del tesoro della statura di Giovanni Goria, ministri della pubblica istruzione come Franca Falcucci o ministri dei lavori pubblici come Luigi Nicolazzi. Nomi verso i quali non proviamo alcuna nostalgia e che ci rendono ben felici di avere oggi ministri come Tremonti, Brunetta, Gelmini. Così come sarebbe opportuno ricordare come, sempre nella Prima Repubblica, la durata media dei governi era inferiore ai dodici mesi e le crisi di governo, così come la formazione dei nuovi governi, erano dettate da oscure dinamiche di contrattazione fra i partiti del tutto slegate dalle dinamiche del corpo elettorale e dell’opinione pubblica.

Ma non è solo e non è tanto questione di nomi. E soprattutto questione di dinamiche istituzionali. Il risultato più importante della rivoluzione berlusconiana consiste nell’aver impiantato anche da noi l’alternanza di governo, che rappresenta il principale antidoto contro i rischi di appropriazione private delle istituzioni, autoreferenzialità della politica, crisi della democrazia. Una democrazia funziona nella misura in cui una classe di governo viene giudicata dagli elettori sulla base dei risultati raggiunti e corre il rischio (concreto e non meramente teorico) di essere sostituita con un’altra classe politica. Un meccanismo che, dopo cinquant’anni di immobilismo, abbiamo finalmente assaporato e che ci è piaciuto così tanto che dal 1994 nessuna coalizione di governo è mai riuscita vincere le elezioni. Una mobilità che riguarda i governi ma anche il Parlamento, se si pensa che ormai viaggiamo con tassi di ricambio dei parlamentari da una legislatura all’altra superiori al 50%, mentre in passato la rielezione dei parlamentari uscenti era la regola e i neo eletti l’eccezione.

E di questa nuova situazione ne ha enormemente beneficiato la capacità di governo che, per quanto ancora insufficiente, è sideralmente avanti rispetto a quella che abbiamo conosciuto nei decenni passati.

Tutto bene dunque? Naturalmente no! Ci sono molte cose che non vanno e che devono essere affrontate anche rapidamente. Ma per farlo davvero occorre non cadere nelle trappole dell’induzione logica e saper distinguere i veri problemi dai miti del “semplificazionismo” giornalistico

Il problema più spinoso sul tappeto ci sembra quello della costruzione del partito. Se è comprensibile che costruire un nuovo partito, soprattutto se derivante dalla fusione di due partiti diversi per storia e per struttura come FI e AN, sia impresa lunga e faticosa, credo sia incontestabile il fatto che oggi le difficoltà del centro destra siano essenzialmente difficoltà del partito. Le quote 70-30, la mancanza di un segretario politico, il coordinamento affidato a tre persone (ciascuna delle quali sembra navighi solo per conto proprio), la guida politica affidata ad organismi pletorici (un ufficio politico di 37 membri ed una direzione di 171 membri), rappresentano scelte forse obbligate in una fase di start up ma che oggi minano alla base la capacità politica del partito. Berlusconi ha peccato di eccesso di democraticità.

Nella speranza di smussare il confronto interno e di prevenire possibili conflitti alla concentrazione ha preferito la diffusione del potere interno. Ma il decisionismo e la governabilità sono questioni che riguardano i governi come i partiti. E non è un caso se in quest’anno il PdL non sia riuscito a lanciare una sola iniziativa politica e si sia limitato alla gestione burocratica dell’apparato.

Il secondo problema riguarda il rapporto con la periferia che, naturalmente, rappresenta il punto di maggiore criticità per un leader politico carismatico come Berlusconi che deriva tutta la propria forza da un rapporto diretto con l’opinione pubblica e non da un apparato radicato sul territorio. Ed anche su questo Berlusconi ha peccato di troppa democraticità. Ha lasciato libero sfogo al confronto in sede locale sulla falsa premessa che sviluppare il radicamento sul territorio fosse essenziale per il partito. Ma in tal modo ha solo finito per consolidare una rete di cacicchi locali che certamente lavorano per il radicamento sul territorio, ma per quello loro e non certo per quello del partito. E così alla fine, proprio grazie al radicamento sono riusciti a paralizzare il leader. Basti pensare alla dolorosa vicenda delle candidature per le regionali. Non uno dei candidati presidenti (o, come pomposamente amano definirsi, governatori) sembra il frutto di una diretta scelta di Berlusconi, così è accaduto nel Lazio, in Veneto, in Piemonte, in Puglia, in Campania e così via.

Vi è poi il punto più spinoso. La successione nella leadership. Berlusconi non ama parlarne. Forse per scaramanzia perché teme che anticipare la questione possa avvicinare il momento in cui dovrà passare la mano. Ma noi crediamo che l’unica cosa che porta male sia proprio la superstizione. E crediamo che se la successione alla leadership di un partito normale è già un grosso problema quella alla leadership di un partito carismatico lo sia molto di più. Ancora una volta, per eccesso di democrazia, Berlusconi ha scelto di trattare equamente tutti gli aspiranti sucessori evitando accuratamente di dare l’impressione di aver scelto il proprio delfino. Ma questa scelta non è pagante perché finisce per esasperare le tensioni interne con una guerra di posizione permanente fra quanti hanno (o semplicemente ritengono di avere) delle chance per la successione.

Un’ultima notazione su Gianfranco Fini il quale, per agevolare la situazione, ieri ha plasticamente dichiarato “questo PdL” non mi piace. L’obiezione che verrebbe spontaneo avanzare al Presidente della Camera è che in realtà i partiti non sono fatti per piacere ma per rispondere all’esigenza di aggregare e veicolare i valori, le idee e gli interessi di quanti vi si riconoscano. E che l’adesione ad un partito politico è sempre un fatto empirico ed approssimativo. Se per aderire ad un partito pretendessi di trovarne uno a mia immagine e somiglianza, probabilmente formerei un nuovo partito, con un solo iscritto: me stesso.

Ma l’obiezione vera è un’altra. Premesso che oltre che a Fini l’attuale PdL piace poco anche a noi, cosa ha fatto Fini per migliorarlo in questi due anni? Oltre alle estemporanee uscite su matrimoni gay, cittadinanza breve, difesa del parlamentarismo dalla protervia dell’Esecutivo ed altri simili amenità, luoghi comuni della cultura democraticista del Paese, quale contributo ritiene di aver fornito per agevolare ed accelerare la costruzione di un nuovo soggetto politico?

L’impressione è che Fini, in tacito accordo con Galli della Loggia, ritiene che il PdL abbia fallito e che quindi sia per lui preferibile curare la sua immagine ed il suo posizionamento in modo da non farsi coinvolgere dal fallimento e farsi trovare pronto quando si tratterà di costruire un nuovo partito. Il quale però, viste le premesse, a occhio e croce sarà sicuramente peggio di quello attuale. (l'Occidentale)

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