martedì 11 dicembre 2007

Il mero proprietario Giuliani non taglia i rapporti con le sue aziende. Christian Rocca

Nota per i professionisti della lotta al conflitto di interessi: l’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani, oggi candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, in caso di elezione alla Casa Bianca non taglierà i legami con la sua azienda di consulenze internazionali nel campo della sicurezza e nemmeno renderà noti tutti i nomi dei clienti a cui fornisce consulenze non nel settore della produzione di noccioline, ma della sicurezza nazionale.
Giuliani è stato ospite domenica di Meet the Press, la più importante trasmissione politica condotta su Nbc da Tim Russert. L’intervista è stata di quelle toste, con il giornalista che per un’ora intera ha contestato al favorito dei repubblicani parecchie cose pubbliche e private della sua vita e con Giuliani sempre sulla difensiva, ma pronto a rispondere a tono.

C’è stato però un passaggio, intorno a metà dell’intervista, che al di là dei racconti che se ne fanno in Italia spiega molto bene come funziona la questione del conflitto di interessi in America, cioè nel paese al mondo dove c’è più attenzione al tema della trasparenza e della correttezza. Come è noto in America non esiste una legge sul conflitto di interessi e Rudy Giuliani in diretta televisiva ha detto senza alcun problema che continuerà a mantenere le sue quote nell’azienda che ha fondato subito dopo aver lasciato la carica di sindaco di New York. Il potenziale conflitto di interessi, in questo caso, non è soltanto economico (le consulenze ad aziende e governi stranieri hanno consentito a Giuliani Partners di fatturare intorno ai cento milioni di dollari), ma arriva a coinvolgere la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
Tra le poche cose note, si sa infatti che l’azienda di Giuliani fornisce consulenze al governo del Qatar. L’emirato del Qatar è un alleato degli Stati Uniti ma, hanno ricordato prima il Wall Street Journal e domenica Tim Russert, alcuni suoi esponenti governativi sono accusati di aver aiutato uno degli ideatori dell’11 settembre, Khalid Sheikh Mohammad, a scappare mentre era ricercato dagli Stati Uniti. Il Qatar, inoltre, finanzia la televisione Al Jazeera, esprime grande soddisfazione per la vittoria di Hezbollah in Israele e così via. Giuliani ha difeso il lavoro della sua azienda, spiegando che l’America ha bisogno di farsi nuovi amici in medio oriente e che, al di là della retorica, l’emirato è un solido alleato impegnato nella lotta comune ad al Qaida e al punto da ospitare nel suo territorio un’ampia base militare americana.
Il giornalista di Meet the Press ha ricordato i legami tra il ministro degli Interni qatarino e al Qaida, citando addirittura un ex agente della Cia convinto che il fondo governativo che paga le fatture alla Giuliani Partners sia lo stesso che finanziò la fuga dell’ideatore degli attacchi dell’11 settembre. Non solo. Giuliani è titolare anche di una società di consulenze legali che fino a poco tempo fa difendeva la Citgo, un’azienda del Texas direttamente legata al presidente venezuelano Hugo Chávez. Un costruttore di Las Vegas con cui Giuliani ha lavorato ha avuto una partnership con un miliardario di Hong Kong vicino al dittatore comunista della Corea del Nord, Kim Jong-Il. Giuliani ha una risposta per ciascuna di queste accuse, che giudica false e ingiuste, ma l’elenco dei rapporti a rischio per il potenziale conflitto di interessi si arricchisce giorno dopo giorno con nuove rivelazioni dei giornali. Sicché Tim Russert gli ha chiesto perché non fornisce agli americani l’elenco di tutti i suoi clienti in modo da rassicurare il pubblico e fermare una volta per tutte lo stillicidio di sospetti.
Giuliani ha risposto che non lo può fare, perché in alcuni casi sono stati firmati accordi di segretezza che la sua società non potrà violare. Il giornalista di Meet the Press gli ha ricordato, però, che continua a ricevere soldi dalla sua società. E Giuliani ha replicato con il piglio tipico del mero proprietario: “Non sono coinvolto nella gestione quotidiana della mia azienda. Sono solo un proprietario della società”.
Russert ha provato a spiegare che se Giuliani continuasse a ricevere soldi dalla sua azienda, non farebbe altro che invogliare chiunque abbia interesse a influenzare la sua presidenza a richiedere la consulenze della Giuliani Partners: “Perché non taglia ogni rapporto finanziario con la sua società?”. Giuliani ha risposto così: “Sono il proprietario… Non farò più di quanto sia assolutamente richiesto”. E la legge, appunto, non lo richiede, nemmeno se in gioco c’è addirittura la sicurezza nazionale del paese.
Russert ha provato ad attaccare su un altro punto: “Quando si è candidato a sindaco, lei ha reso pubbliche le sue dichiarazioni dei redditi. Farà lo stesso anche adesso?”. Giuliani: “Al momento giusto prenderò in considerazione la cosa”. Russert: “Qual è il momento giusto?”. Giuliani: “Il momento giusto non è questo. Quando arriverà vedrò quali saranno le cose appropriate da svelare, sulla base di ciò che faranno gli altri. Ovviamente farò tutto ciò che richiede la legge e se sarà il caso anche qualcosa di più”.
Giuliani ha detto “sulla base di ciò che faranno gli altri”. Uno dei suoi concorrenti potrebbe essere l’attuale sindaco di New York, Mike Bloomberg, che, secondo molti osservatori politici, potrebbe usare parte del suo ingente patrimonio, sborsare mezzo miliardo di dollari per evitare il lungo e fastidioso processo di raccolta fondi a cui sono obbligati tutti gli altri. Da sindaco, Bloomberg non rende nota la sua dichiarazione dei redditi, perché se lo facesse – ha detto – danneggerebbe il business delle sue società. E quando ha chiesto all’organo comunale nominato da lui stesso di valutare se una piccola quota del suo patrimonio, circa 50 milioni di dollari su un totale, allora, di 4 miliardi, fosse in potenziale conflitto di interessi, non li ha messi in un blind trust, ma li ha venduti dando in beneficenza il ricavato. (il Foglio)

Fini va alla deriva, zavorrato dalla "socialità" ereditata dalla Rsi. Carlo Panella

E' interessante studiare con freddezza la deriva che Gianfranco Fini ha intrapreso da quando ha scoperto di non potere più applicare l'unica strategia che conosce. Per 14 anni, dal 1993 a ieri, Fini, infatti, si è abituato a fare o dire ''più uno'' o ''meno uno'', rispetto a quanto diceva Berlusconi. Il massimo dello sforzo lo ha fatto quando ha tentato di sviluppare la politica del cuculo e di soffiare con la lista dell'Asinello la leadership a Berlusconi stesso (con esiti disastrosi). Per il resto... nulla. Non uno straccio di strategia, non uno straccio di idea nuova, tanto che il progetto coraggioso di Alleanza Nazionale (che era di Tatarella, non di Fini) è morto sul nascere e oggi An è saldamente nelle mani del gruppo dirigente del Secolo d'Italia, senza nessun apporto esterno.
Questa situazione anomala della leadership della destra italiana era sottotraccia, ed è esplosa con violenza non appena Fini si è scoperto in mare aperto, da solo. Quando Berlusconi -e proprio da San Babila!!!- ha spiegato che non ne voleva più sapere delle coalizioni obbligate, il leader di An ha scoperto -finalmente- di non avere uno straccio di strategia, di essere sbandato di quà e di là, anche verso l'estrema sinistra (ricordate il sì alla fecondazione assistita? ricordate il voto agli immigrati?) e di non sapere cosa fare.
Passati i giorni, nonostante la solidarietà attiva di Casini (che almeno ha una sua strategia di Cosa Bianca) Fini non è riuscito a dotarsi di una strategia e si è messo a insultare. Da qui l'accusa a Berlusconi di essere ''alla comica finale'', i toni stizzosi, la fine della sua immagine di politico fredddo e posato.
Un disastro. Pericolosissimo per lui e per il suo partito. Ha perso i nervi, e si vede. Questo, in politica, costa tantissimo.
Pure, Fini ha una strada lastricata davanti a sé: deve entrare nel Ppe e fare esattamente quello che ha fatto Aznar. Ma per farlo, deve sbarazzarsi delle incrostazioni ''sociali'' di diretta derivazione Rsi, che ancora appesantiscono lui stesso, il suo partito e soprattutto il suo nuovo, indispensabile alleato interno: Gianni Alemanno.
Durante l'intero governo Berlusconi ultimo, Alemanno ha fatto e imposto politiche ''alla Bertinotti'', è stato un ultraconservatore sul paino sindacale, (vedi il disastro Alitalia), ha detto di tutto -e a sproposito- contro gli Ogm, e ha sviluppato idee di ''socialità'' direttamente discese dalla ''rivoluzione fascista''.
Un bailamme antistorico.
Fini, questo nodo non sa e non vuole scioglierlo dentro il suo partito e quindi va alla deriva.
Un problema serio per tutto il centrodestra.

Plodi. Jena

"Plecedenti ed indelogabili impegni intelnazionali non mi consentilanno di essele a Loma nei giolni in cui si tellà l’incontlo dei Plemi Nobel, cui è plevista la paltecipazione del Dalai Lama". Cosa non falebbe Plodi per tlanquillizzale la Cina. (la Stampa)

lunedì 10 dicembre 2007

I furbetti delle riforme. Luca Ricolfi

Parlare di legge elettorale non mi piace: non sono uno specialista dell’argomento e inoltre penso sia un tema troppo tecnico, troppo difficile, una di quelle questioni su cui la maggioranza delle persone normali non ha né intende avere convinzioni assolute e incrollabili. Però da un po’ di tempo sento anch’io il bisogno di dire qualcosa. Da un po’ di tempo, quasi tutto quel che leggo sulla riforma della legge elettorale mi fa venire il nervoso, o una certa «flin-a», per usare un’intraducibile espressione piemontese. È l’inquietudine che ti viene quando hai l’impressione di essere preso in giro, ma non capisci bene come e perché.

Riflettendoci, però, credo di sapere che cosa mi dà tanto fastidio. Quel che non mi piace sono i due messaggi che, in modo più o meno palese, vengono indirizzati all’opinione pubblica attraverso l’astruso dibattito sulle riforme elettorali e istituzionali.

Il primo messaggio dice più o meno così: cari italiani, questo Paese è ingovernabile perché la legge elettorale non funziona, quindi cambiamo la legge elettorale e vedrete che le cose andranno a posto. E qui mi prendo la prima arrabbiatura. Eh no, cari politici, se l’Italia è ingovernata, se da anni tutti i grandi problemi attendono vanamente qualcuno che li affronti sul serio, la responsabilità è innanzitutto vostra.

Una nuova legge elettorale può solo rendervi il mestiere leggermente più facile (o leggermente più difficile, se sbagliate legge), ma non trasformerà mai un mediocre ceto politico in una vera classe dirigente. Se litigate continuamente fra di voi, se rimandate ogni volta le scelte difficili, se non ci spiegate mai che cosa vorreste fare e chi ve lo impedisce, è innanzitutto colpa vostra. Il problema centrale dell’Italia non è la legge elettorale, ma siete voi. Non riuscivate a governare con il proporzionale. Non ci siete riusciti con il mattarellum, non ci state riuscendo con il porcellum. Non ci riuscirete neanche con il vassallum, né con qualsiasi altra diavoleria vi sarete inventata nel frattempo. Insomma, il «dibattito» sulla legge elettorale sta diventando l’alibi che permette a questi politici di non guardarsi allo specchio: dando la colpa alle regole, implicitamente assolvono se stessi. È questa la risposta della «casta» al libro di Stella e Rizzo?

Ma veniamo al secondo messaggio che, sempre più spesso, martella l’opinione pubblica. Esso non arriva dal ceto politico nel suo insieme, ma dai difensori a oltranza del sistema maggioritario. Il messaggio dice: coloro che vogliono tornare al sistema proporzionale, e in particolare Berlusconi e Veltroni, stanno tradendo la volontà di milioni di cittadini che - con il voto nei vari referendum sulla legge elettorale - si erano espressi a favore del sistema maggioritario. Anche questo è un messaggio obliquo e insincero. Se lasciamo per un momento da parte gli intellettuali e i circoli illuminati, che sanno sempre con implacabile sicurezza qual è il bene dell’Italia, ma parliamo invece della gente normale, la realtà è che sono in pochissimi ad avere idee precise e motivate sui sistemi elettorali. È molto ingenuo credere che fra il 1991 e il ’93, ai tempi dei referendum Segni, gli italiani avessero compiuto una scelta meditata e irrevocabile a favore di una tecnica elettorale piuttosto che di un’altra. Allora come oggi la gente non ne poteva più del ceto politico, e allora come oggi l’unico mezzo che le veniva offerto per (provare a) liberarsene era un cambiamento della legge elettorale. Se l’Italia della prima Repubblica fosse stata governata con il maggioritario, forse avremmo puntato sul proporzionale. Così come oggi, visti i risultati del maggioritario, siamo tentati di fare macchina indietro e di tornare a qualche forma di sistema proporzionale. È inutile nasconderlo: il ritorno di simpatia per il proporzionale puro, senza premio di maggioranza, è prima di tutto l’effetto di un quindicennio di speranze deluse, la presa d’atto della fine di una stagione. È da vent’anni che gli italiani vogliono liberarsi di questa classe politica, ma poiché sono persone educate e pacifiche non trovano mezzi migliori che firmare referendum e sperare in un cambiamento delle regole.

Anch’io ho firmato il referendum di Guzzetta e Segni, anch’io penso che la legge elettorale attuale - il cosiddetto porcellum - non sia una buona legge, anch’io credo che l’Italia funzionerebbe meglio se cambiassimo in modo oculato regole elettorali e istituzionali. Ma se sento parlare di proporzionale non mi scandalizzo e tanto meno mi sento tradito. In tanti abbiamo creduto nel maggioritario illudendoci di voltar pagina e di guadagnarne un ceto politico migliore. Oggi, di nuovo, ci piacerebbe voltar pagina, ma almeno dovremmo aver imparato che nessuna legge elettorale - proporzionale o maggioritaria che sia - renderà migliore il ceto politico che ci ritroviamo. (Corriere della Sera)

domenica 9 dicembre 2007

Alla sbarra la burocrazia: ma nel solito processo all'italiana. Luigi De Marchi

Nei giorni scorsi, su imbeccata del Presidente di Confindustria, Luca di Montezemolo, la cosiddetta grande stampa d’informazione ha osato denunciare con un po’ più di coraggio lo scandalo dello sperpero di denaro pubblico prodotto dalla nostra burocrazia pletorica e inefficiente: quello scandalo che, per parte mia, vado denunciando ormai da vent’anni in un isolamento tutt’altro che splendido. Ma, come vedremo, quella di Montezemolo è già una denuncia minimale che si guarda bene dal trarre tutte le conclusioni politiche doverose.
Vediamo dunque, anzitutto, la cronaca degli eventi. Parlando agli studenti della Luiss, Montezemolo ha denunciato la vergogna dell’assenteismo (da lui definito “l’emblema del cattivo funzionamento della pubblica amministrazione”) precisando che, in base ai dati raccolti dal suo Ufficio Studi, “i dipendenti pubblici sono fuori ufficio, a prescindere dalle ferie, in media un giorno lavorativo su cinque”: il che significa che, sempre in media, i nostri cari burocrati si aggiungono un mesetto di ferie a quello di cui già godono per contratto alla faccia dei dipendenti del privato che, in genere, hanno solo due o tre settimane di ferie l’anno. In queste medie si possono poi notare picchi di abuso semplicemente disgustosi: come quello del Comune di Bolzano che, smentendo il luogo comune secondo cui al Nord i burocrati sono migliori e confermando la mia tesi secondo cui la burocrazia è dovunque uguale per i suoi stessi meccanismi di selezione a rovescio, avalla ben 74 giorni l’anno di assenteismo tra i propri dipendenti (pari a circa un terzo delle giornate lavorative annue).

Fin qui la denuncia di Montezemolo che, peraltro, si limitava a sfiorare il problema.Vediamo perché. Anzitutto perché l’assenteismo è solo la punta emergente dello scandaloso iceberg della burocrazia. Infatti, la presenza in ufficio d’un burocrate non dimostra affatto che egli lavori e tanto meno che faccia un lavoro utile. Come scrivevo già vent’anni fa, spesso (per esempio nelle centinaia di enti assurdi da decenni inutilmente segnalati), quella del burocrate è “presenza inutile in un luogo inutile”.

Il vero e peggiore scandalo, che non riguarda solo l’Italia ma, sia pure in misura minore, l’Europa in genere, non sta dunque nell’assenteismo (che, secondo Montezemolo, comporterebbe uno sperpero di 14 miliardi euro) ma nel numero assurdo di burocrati inflitti a ciascuna comunità sia dall’intrinseca tendenza a proliferare di ogni casta burocratica (in quanto avulsa dal controllo che il mercato e l’utenza impongono al numero e alla produttività dei dipendenti d’ogni azienda privata), sia dalla tendenza dei dirigenti pubblici e dei politici (in quanto avulsi dall’obbligo, tipico d’ogni imprenditore privato, di pagare di tasca propria il personale) ad utilizzare le assunzioni e le promozioni come merce di scambio per la propria carriera o la raccolta dei voti tra i vari elettorati. Come ho già segnalato in altra occasione, la percentuale degli esuberi (come vengono graziosamente chiamati i dipendenti inutili ma regolarmente pagati) è stata valutata da un recente inchiesta di “Repubblica” a circa il 50-65% del totale. Se poi si tiene presente che, stando alle dichiarazioni dell’allora primo ministro Lamberto Dini, tre quarti della spesa pubblica italiana sono assorbiti dalle retribuzioni e dalle pensioni dei dipendenti pubblici, possiamo dedurne che questa spropositata quota di spesa (circa 560 miliardi di Euro nel 2007) è per metà (280 miliardi) o per 2/3 (372 miliardi) rubata dalle tasche dei lavoratori del privato e sperperata inutilmente. Questo è il vero scandalo fiscale dell’Italia (e di molti altri paesi): non certo quello dell’evasione fiscale degli autonomi (che contribuiscono comunque massicciamente, col loro lavoro, al Prodotto Interno Lordo). E in questa situazione, il conclamato obbligo morale di pagare le tasse diventa quasi un’apologia di reato.

Non vorrei che questi miei interventi venissero scambiati per una indiscriminata condanna dei pubblici dipendenti. Al contrario, credo che ci siano molti addetti validi e meritevoli nelle amministrazioni pubbliche. Ma anche loro hanno comunque una grave responsabilità: quella cioè di essere stati complici per decenni del parassitismo di molti loro colleghi. L’esempio più lampante viene dalla scuola, la nostra istituzione ove lo sperpero di denaro pubblico è più evidente e scandalosa. Come tutti sappiamo, abbiamo un numero d’insegnanti doppio (rispetto alla popolazione scolastica) di quello degli altri paesi europei, ma fino a poco tempo fa nessun insegnante, neanche tra quelli scrupolosi e impegnati, aveva osato denunciare lo scandaloso parassitismo degli “esuberi”. Proprio l’altro ieri, però, una professoressa genovese, Costanza Mattini, ha osato l’inosabile, in un’intervista al “Giornale” di Milano.

“Come possiamo punire i fannulloni ?”, le ha domandato l’intervistatrice. E Costanza Matteini ha risposto chiaro e tondo: “Licenziandoli”. “Già – ribatte la giornalista – ma non è facile beccarli”. E la prof senza peli sulla lingua: “No, guardi, chi sono i lavativi lo sanno tutti”. “E allora non basta denunciarli ?”, domanda la giornalista. “No – risponde la prof – lo scoglio vero è proprio questo. Chi si assume la responsabilità giudiziaria di denunciare gli assenteisti ? E con quali strumenti ? Il rischio, per qualunque dirigente scolastico, è di beccarsi una controdenuncia per mobbing. E allora anche gli insegnanti scrupolosi finiscono per andare avanti così, tacendo la truffa dei lavativi e spesso lavorando al loro posto”.

Da questo processo sia pur minimale aperto sulla stampa contro il parassitismo dei burocrati mi sembrano emergere due dati estremamente importanti e gravi: 1) in primo luogo, la conferma lampante alla mia Teoria liberale della Lotta di Classe che, in barba alla barba di Carlo Marx, denuncia da vent’anni nella casta burocratica e nei suoi padrini politici, i partiti statalisti la vera classe sfruttatrice, che pretende di vivere nella sicurezza e nel privilegio del posto fisso, e spesso anche nell’ozio, con denaro rapinato per via fiscale alle vera classe sfruttata, i lavoratori dipendenti e indipendenti del privato, che vivono nell’insicurezza, nel rischio e nella fatica tipiche di ogni attività soggetta alle leggi del mercato; 2) in secondo luogo, la vergogna d’una classe politica di destra e di sinistra e d’un sindacato di regime che, mentre continuano a stigmatizzare e a colpire gli autonomi colpevoli di qualche evasione fiscale, nulla, letteralmente nulla fanno per fermare la ben più scandalosa e costosa rapina fiscale dei sudati guadagni dei lavoratori del privato perpetrata da decenni per finanziare le sterminate burocrazie del settore pubblico. Certo, nei giorni scorsi la burocrazia è stata portata alla sbarra: ma il processo è stato avviato con accuse minimaliste e, come sempre, sembra già archiviato nei giro di pochi giorni. (il Blog del Solista)

L'evasione di Coppola. Davide Giacalone

E’ evaso, Danilo Coppola, o è andato a cercarsi il suo giudice innaturale? E’ scappato alla prigionia per alimentare l’esibizionismo, come taluno ha anche scritto, per intimidire la procura che lo indaga, o ha capito che era giunta l’ora di avere un giudice, è l’ha immaginato sotto le vesti di telecamera? Questo improbabile finanziere ed improbabile immobiliarista risulta poco difendibile, anche sotto il profilo estetico. Ma proprio perché poco difendibile il suo caso è importante. Troppo facile gridare all’ingiustizia quando si tratta d’innocenti conclamati.
Egli si trova in stato d’arresto da dieci mesi, di cui quattro passati in isolamento. Non si trovava agli arresti domiciliari in una villa, ma in una clinica. E’ stato colpito da patologie cardiache gravi, del resto preesistenti, ed ha rischiato seriamente di lasciarci la pelle. Il detenuto Coppola, come tantissimi altri, è un presunto innocente, nel senso che nessuno lo ha mai condannato dato che nessuno lo ha mai processato. Si trova in carcere per ragioni cautelari, come spessissimo avviene senza che la procura sia chiamata a documentare seriamente quali siano. Dopo tanti mesi, e trattandosi di reati finanziari, legati ad una presunta bancarotta, c’è da domandarsi: le carte che provano il reato ci sono o no? Se ci sono si vada al processo, se non ci sono si tolgano le mani dal cittadino Coppola.
Inoltre egli accusa la procura di averlo messo in condizione di perdere ogni suo avere, a suo dire legittimamente acquisito, perché dal carcere non può certo far nulla per salvare dal saccheggio quel che gli appartiene. Non so se sia vero, ma so che ci sono altri personaggi di spicco che sembrano aver trovato nella propria posizione societaria una specie di salvacondotto, e dato che la disparità di trattamento è sempre un’ingiustizia, anche sotto questo profilo merita d’essere ascoltato.
Se colpevole, che sconti la pena. Ma se non si è in grado di sostenerne e provarne subito la colpevolezza, che dalla galera esca. E se nulla di tutto questo accade, non ci si meravigli che poi cerchi nelle telecamere quel simulacro di giustizia che dalle parti dei tribunali davvero non si trova.Saranno in molti a leggermi pensando: ma vale la pena spendersi per un Coppola? A questi sfugge che se la giustizia non riesce ad essere tale con un Coppola, è segno che proprio non esiste.

venerdì 7 dicembre 2007

La dignità del politico. il Foglio

Considerazioni sulla ostinazione di Prodi, fatte sine ira ac studio.

In un certo senso, Romano Prodi merita i riconoscimenti che gli sono arrivati da molte parti, anche dal più eminente dei suoi avversari. E’ tenace. Non molla. E’ testa quadra, come si dice a Reggio Emilia, dalle sue parti. Sa irrigidirsi e contrattaccare dalla fortezza del suo entourage, mobilitando in missioni spericolate, a colpi di “scarso senso dello stato”, il suo leale collaboratore Enrico Micheli, sottosegretario, lanciato a testa bassa contro il presidente della Camera. Insomma, per essere un presidente del Consiglio sotto assedio permanente, crollato nel buio profondo di sondaggi sfavorevoli, fischiato ripetutamente nelle piazze, difeso di malavoglia e con toni malmostosi da coloro che dovrebbero fungere da suoi araldi, e per essere ormai un uomo di stato che gode di una reputazione minima quanto alla capacità di leadership, anche e soprattutto nel centrosinistra e nel Partito democratico, Prodi non se la cava male, in difesa. Ha anche deciso di essere minaccioso nel sistema di potere, e a parte le gaffe in cui è incorso quando si è fidato di Tommaso Padoa-Schioppa come nel caso Petroni-Rai, ha segnato dei punti di sapore intimidatorio nel confronto con quella parte dell’establishment che non lo ama e non lo ha mai amato, per ottime e per cattive ragioni insieme. Chapeau, come si dice.
L’impressione però è che stia esagerando. C’è il problema della dignità del politico, non una questione personale ma un rispetto dell’arte politica e del suo senso, di cui Prodi e i suoi collaboratori dovrebbero tenere conto. Il Partito democratico sfugge al suo controllo esattamente allo stesso modo in cui sfuggivano al suo controllo i partiti di centrosinistra che lo sostituirono nel 1998. Rifondazione lo ha dichiarato fallito con voce chiara e forte. Non si sono aperti spiragli di consenso nell’opposizione. L’intelligenza, cioè gli economisti e i livelli più alti della pubblica amministrazione e della giustizia amministrativa, diffidano di lui. Non c’è tema, tranne paradossalmente il fisco su cui, purtroppo con fare molesto, Visco però ha segnato dei punti molto redditizi per lo stato, sul quale questo governo possa rivendicare né salvaguardie e conservazioni intelligenti né cambiamenti significativi. Lo stallo è assoluto. La macchina parlamentare inchiodata al pallottoliere. L’orlo della crisi è una condizione quotidiana. Intanto si prepara con largo consenso un nuovo sistema politico fondato su una nuova legge elettorale e sul colloquio normalizzante tra Veltroni, Berlusconi e tutti gli altri, con l’effetto di distruggere sia l’Unione sia la Casa delle libertà. In questo contesto, senza una strategia di ripiegamento intelligente e di ricambio, facendosi difendere in modo assolutamente insincero dai suoi ministri e da Veltroni, quando lo fanno, Prodi si consegna a una posizione che, nonostante la parte buona e tosta della sua ostinazione, perde dignità giorno per giorno.

giovedì 6 dicembre 2007

I salari piangono. Francesco Giavazzi

«Il caro-petrolio spinge le bollette. Gli aumenti di luce e gas potrebbero tradursi in una stangata per le famiglie: 11 euro l’anno in più per la luce, oltre 30 per il gas». Leggendo i giornali di questi giorni ho fatto un conto. Lo scorso anno Alitalia ha perso 380 milioni; nei primi 6 mesi del 2007 altri 211. A fine dicembre l’incomprensibile noncuranza del governo — che da oltre un anno di mese in mese rimanda il problema — avrà accollato ai contribuenti altri 400 milioni di perdite. Sono circa 30 euro per famiglia, più dell’aumento delle bollette della luce, poco meno del rincaro del gas. Lo scorso anno i prezzi (uso come indicatore il deflatore dei consumi e i dati della Commissione europea) sono cresciuti del 2,7%, ma i salari non hanno tenuto il passo e il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti è sceso dello 0,2%.

I salari italiani non soltanto sono bassi relativamente a Francia e Germania — come ha notato il Governatore della Banca d’Italia — ma stanno anche perdendo terreno. La riduzione della quota del reddito nazionale che va ai salari non è un fatto solo italiano: è accaduto lo stesso in tutta Europa. Lo spostamento nella distribuzione del reddito avvenuto negli ultimi 25 anni è straordinario: nel 1981 ai salari andava il 71% del reddito nazionale, oggi 9 punti di meno (cito ancora i dati della Commissione europea). In novembre l’inflazione nella zona dell’euro è salita al 3%.

Molti ritengono che rimarrà vicino a questo livello per buona parte del prossimo anno: colpa del petrolio e del gas, ma anche della forte crescita di alcuni Paesi emergenti, India, Cina, Brasile, che spingono in su il prezzo di tutte le materie prime. Alcuni prevedono anche che la lunga tregua dei salari presto finirà e che i sindacati cercheranno di riguadagnare un po’ del terreno perduto. Nonostante queste previsioni, la legge finanziaria è stata costruita con un’ipotesi molto più indulgente: un aumento del deflatore dei consumi non superiore al 2%.

Che cosa accadrà se l’inflazione sarà più elevata? Lo spiegano Tito Boeri e Pietro Garibaldi sul sito lavoce. info. L’inflazione fa salire il gettito fiscale perché le imposte colpiscono i redditi nominali: nel 2008 un’inflazione del 3%, anziché il 2% che prevede il governo, aumenterebbe le entrate tributarie di 4-5 miliardi di euro, e di altrettanto ridurrebbe il potere d’acquisto delle famiglie. Questa cifra forse non è casuale. Infatti la legge finanziaria peggiora i conti pubblici, rispetto a ciò che sarebbe accaduto in sua assenza, di 4,5 miliardi: 5 in più di spese correnti, 2,5 in meno di investimenti e 2 in meno di entrate per il taglio dell’Ici. Il risultato è che nel 2008 il deficit salirà dall’ 1,8 al 2,1% del Pil. Forse il ministro dell’Economia in cuor suo spera che un po’ d’inflazione in più gli regalerà un aumento della pressione fiscale e gli consentirà di eliminare quel maggior disavanzo. Se così fosse si sbaglierebbe: in un momento in cui l’euro forte frena le esportazioni, solo i consumi delle famiglie possono sostenere la domanda. (Corriere della Sera)

sabato 1 dicembre 2007

Da oggi non vado più in ufficio. Deborah Bergamini


Dal sito http://www.deborahbergamini.it/

Da oggi non vado più in ufficio, dopo cinque anni di lavoro per la Rai. Solo per la Rai. Ciò che mi si è scatenato addosso in questi giorni è basato sul nulla. Sintesi di brogliacci interpretati e decontestualizzati da alcuni giornali. E’ bastato questo per ritrovarmi al centro di un frettoloso linciaggio mediatico. Perchè ho aperto un blog, mi hanno chiesto. I commenti che leggete in questo blog sono solo una parte della marea di quelli che sono stati postati in questi giorni. Molti sono di solidarietà. Moltissimi di insulti. Per me è stato molto istruttivo leggerli. Credo, oggi, che molto del livore che si è scatenato sia anche il frutto di un modo malato di fare informazione. E’ il caso di fermarsi a riflettere. Tutti quanti.
Ai tanti che mi domandano conto degli attacchi che mi sono stati rivolti, posso solo dire di andare a vedere i dati di ascolto della Rai negli ultimi cinque anni e le registrazioni di cosa è andato veramente in onda nei giorni della morte di Papa Giovanni Paolo II e delle elezioni amministrative del 2005. Ma quale collusione? Ma quali “inciuci”? La cosa che mi dispiace di più è che si sia detto che non ho voluto “collaborare” con l’Azienda sull’intera vicenda. E’ vero proprio il contrario. Ho solo chiesto di entrare nel merito non sulla base di articoli di giornale ma degli atti ufficiali che starebbero all’origine di quegli articoli. Infatti ho chiesto alla Procura di Milano di poter acquisire questi documenti. Li porterò a Viale Mazzini, non solo per fare chiarezza sulla mia posizione, ma anche per difendere la Rai dai teoremi inventati. Deborah
P.S. Lo devo confessare, sento un po’ la nostalgia del mio blog di Cartimandua. Forse anche io sono stata frettolosa.
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Diplomazia negli affari. Davide Giacalone

Non credo d’essere affetto da sarkomania, ma seguo il presidente francese da molto tempo, lo leggo con attenzione e in lui riconosco, come prima in Blair, per restare in Europa, quel che dovrebbe essere un politico ed uno statista nell’era che s’è lasciata alle spalle l’ideologia.
Nei pregi e nei difetti, nelle grandezze e nelle piccinerie, si tratta di protagonisti che hanno saputo ritessere la trama della politica, e degli interessi nazionali, in anni in cui la lettura ideologica, o anche solo “di parte”, non consente più di comprendere quel che accade. Istruttivo quello che Sarkozy è andato a dire ai cinesi, nel corso del suo recente viaggio.
Non è andato a calcare una passerella, salvo parlare in modo rituale del rispetto dei diritti umani e riservatamente degli affari. Forse ha fatto l’opposto, ma anche pubblicamente ha lanciato un monito pesante e significativo: otto secoli fa, ha detto ai suoi ospiti, eravate una grande potenza economica, la più grande, poi vi siete chiusi al mondo e vi siete immiseriti; oggi state crescendo, provate a chiudervi e scivolerete indietro. Mica male!
E leggete due passaggi del suo discorso. “Ho scelto di venire in Cina insieme ad imprese specializzate nelle tecnologie del risparmio energetico, nel riciclaggio, nelle energie e nei materiali rinnovabili. Sono numerose piccole e medie imprese, perché è nell’interesse della Cina e della Francia che queste aziende possano esercitare il loro know-how in Cina, fondare delle filiali ed esportare i loro prodotti”. Come dire: non veniamo a farvi la predica dei protocolli di Kyoto, sappiamo benissimo che consumerete energie e materie prime, a partire dai materiali ferrosi. Collaboriamo, fate entrare le imprese francesi che ho portato con me, e le cose andranno per il meglio.
Ma non basta, perché poi offre ai cinesi d’andare ad investire in Francia: “Da sei mesi a questa parte abbiamo fatto delle riforme profonde per migliorare la competitività della nostra economia. Sono perfettamente cosciente che siamo solo all’inizio, quindi continuiamo. Abbiamo abbassato le tasse sul lavoro per incoraggiare l’occupazione. Abbiamo riformato l’università per metterla in grado di decidere liberamente la propria strategia e allacciare partenariati con le imprese. Abbiamo portato al 30 per cento il credito d’imposta sulla ricerca: nessuna economia fa di più, lo dico agli imprenditori cinesi e francesi, oggi lo Stato francese vi rimborsa il 30 per cento delle spese sostenute per la ricerca e lo sviluppo. (…) Riformeremo il diritto del lavoro, la cui rigidità è un freno alle assunzioni e agli investimenti. Investiremo 5 miliardi di euro in 5 anni nelle nostre università e aumenteremo del 25 per cento gli sforzi per la ricerca. (…)
La Francia è pronta ad accogliere gli investitori cinesi non appena, naturalmente, la normativa sugli investimenti esteri sarà la stessa in ciascuno dei nostri due Paesi”. Capito? Noi entriamo da voi, voi la piantate di discriminare il capitale estero, ci aprite il vostro mercato e, nel frattempo, noi rendiamo più competitivo il nostro e voi potrete far fruttare da noi i soldi che guadagnerete anche grazie a noi.
Questo è far politica! Senza complessi d’inferiorità e senza cedere in nulla sul proprio ruolo statale. Se penso alla miseria delle merci contraffatte ed importate tramite il porto di Napoli, se penso che quello che noi offriamo è il vantaggio competitivo dell’economia nera, ovvero la possibilità di far passare sul nostro territorio commerci che facciano marameo al fisco, se penso che nessun capo di governo italico gira il mondo promuovendo gli interessi delle nostre aziende, per giunta portandosi dietro le piccole e le medie, da una parte mi viene la malinconia, dall’altra mi viene anche da dire: avete voluto ammazzare la politica? si è appaltata la morale a tribunali che non funzionano? ci sono organizzazioni imprenditoriali che quasi quasi soffiano sul fuoco del qualunquismo? ecco, ora tenetevi i cocci, ve li siete meritati.

Il problema sono i bassi stipendi. Tito Boeri

Ieri l’Istat ha reso pubbliche le sue stime sull’andamento dei prezzi al consumo nel mese di novembre. I dati provvisori indicano che c’è stata una brusca accelerazione nella dinamica dei prezzi. Trainati dall’incremento dei prezzi dell’energia, sono aumentati soprattutto i prezzi dei trasporti (quasi un punto in più del mese precedente). Sono passate poche ore e puntuale è arrivata la richiesta da parte dei tre sindacati, Cgil, Cisl e Uil, di interventi del governo per ridurre le accise sulla benzina, onde evitare un «effetto domino» di rincorsa ai rincari. Mentre il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, ha tracciato foschi scenari di stagnazione e inflazione per l’economia italiana. In realtà non possono essere certo gli incentivi fiscali a risolvere i problemi originati dal caro petrolio ed è proprio la bassa crescita della nostra economia a scongiurare il rischio di un protratto e sostenuto aumento dei prezzi in Italia.
Si tratta di un fenomeno molto probabilmente destinato a rivelarsi transitorio, anche perché alimentato dalla domanda mondiale, dalla forte crescita di Cina e India, e da fenomeni speculativi anziché da una riduzione strutturale della produzione di energia. A un prezzo del petrolio destinato comunque a rimanere più alto che in passato bisognerebbe semmai reagire accelerando il passo delle liberalizzazioni nel settore energetico e dei trasporti in Italia e facendo investimenti su energie alternative con orizzonti lunghi. Proprio come in Cina, un paese in cui la produzione è oggi ad altissima intensità di petrolio, si sta investendo in produzioni di energia pulita che entreranno a regime non prima di vent’anni. Riducendo le accise sulla benzina si finirebbe, invece, unicamente per sussidiare i consumi di carburante, allontanando ulteriormente la risoluzione del problema. Le nostre città sono oggi fortemente congestionate. Siamo passati da 5 auto a quasi 60 auto per ogni 100 abitanti in quarant'anni. Quattro spostamenti in città su cinque sono in auto. C'è quasi solo la gomma in Italia. Ogni nostro cittadino percorre ogni anno 15.000 Km in macchina, il 22 per cento in più della media europea, il 44 per cento in più che in Germania. Paradossale se gli italiani, ieri costretti a lunghe code e salti mortali dallo sciopero dei trasporti pubblici, che a Roma ha seguito a ruota il blocco dei taxi, si vedessero domani consegnare da un governo alla ricerca di consenso immediato una ricetta sicura per far aumentare ulteriormente l'utilizzo dei mezzi di trasporto privati. Sarebbe bene anche evitare di allarmare ulteriormente gli italiani, che già oggi attribuiscono all’inflazione ogni male possibile. L’Italia oggi soffre principalmente di bassa crescita. È questo il nostro problema principale, non l’inflazione. Gli italiani attribuiscono ai prezzi troppo alti problemi che in realtà sono legati all’andamento deludente dei loro redditi, ai bassi salari. Bene, allora, spostare l’attenzione di tutti verso la necessità di aumentare la produttività e il lavoro. Siamo sempre più un popolo di pensionati e le quiescenze oggi cambiano solo in base all’andamento dei prezzi al consumo.
Se invece di indicizzare le pensioni ai prezzi al consumo, le legassimo all’andamento del monte salari, avremmo una fetta consistente della nostra popolazione disposta a sostenere riforme che facciano aumentare l’occupazione e la produttività, dunque i salari, al tempo stesso. Ridurremmo anche il problema delle cosiddette «pensioni d’annata» che variano in modo significativo tra generazione e generazione di pensionati. Questo dovrebbero chiedere oggi sindacato e Confindustria, invece di terrorizzare gli italiani e spingere un governo già miope a fare politiche ancor più a corto raggio. E forse qualcuno dovrebbe ricordarsi di dire grazie all’Euro. Senza di lui, gli effetti del caro petrolio sui nostri prezzi sarebbero di almeno un terzo più rilevanti. (la Stampa)

giovedì 29 novembre 2007

Basta con i golpe nei trasporti! Carlo Panella

Io domani devo andare da Torino a Roma. Non sarà possibile, treni in scipero, aerei in sciopero, autolinee urbane in sciopero, caselli autostradali in sciopero. Ma se anche riuscirò ad arrivare a Roma con l'unico mezzo possibile -l'aereo dopo le 15- rimarrò bloccato a Fiumicino per lo sciopero dei treni locali a cui si somma quello dei tassinari.
Milioni, decine di milioni di italiani avranno il mio stesso problema; milioni di loro dovranno pagare anche detrazioni di stipendio per i ritardi sul posto di lavoro nei turni pomeridiani. Questo non è uno sciopero, è un golpe.
Uno dei tanti giorni in cui i sindacati fanno golpe leggeri per imporre la loro volontà danneggiando non la controparte, che non ne soffre minimamente, ma milioni di innocenti cittadini.
Questo non è uno sciopero, è un atto di violenza collettiva, un sopruso.
Chi lo appoggia commette un reato, combatte la democrazia.
E' incredibile che partiti come Fi (o PPl, come si chiamerà) non facciano della libertà di muoversi dei cittadini la loro bandiera, andando contro, frontalmente, ai tanti golpe leggeri dei sindacati.

Clementina la pazza. Davide Giacalone

Non sono un tifoso di Clementina Forleo, non mi batterei per la sua santità e rimango convinto che non è adatto a fare il magistrato chi non sfugge alla calamita delle telecamere. Non mi piace la giustizia usata per far politica, mi ripugna lo sputtanamento mediatico degli indagati (oramai estesosi anche ai passanti per caso), considero miserrimi quanti confondono gli atti giudiziari con i verdetti e sicario senza onore il giornalismo velinaro. La sinistra pratica questi vizzi, fascistoidi, da molti anni. Poi, quand’è sotto accusa, riscopre le virtù del garantismo. Non facciamo prendere per i fondelli e diciamola tutta.
La Forleo non doveva scrivere che Fassino e D’Alema erano ben consapevoli di favorire Consorte nella scalata bancaria? è prova del suo squilibrio la lite con poliziotti che avrebbero maltrattato un extracomunitario? Può darsi che quei due preferiscano passare per scemi manipolati, segno di come si seleziona la classe di governo, ma i conti non tornano. Quando il pm Di Pietro ed il gip Ghitti si scambiavano pizzini per suggerirsi chi, come e quando accusare, in violazione di quasi tutte le nostre leggi, ci fu azione disciplinare? No, anzi, elessero Ghitti al csm, così poteva giudicare gli altri magistrati. Quando dalla procura di Milano spedirono la Guardia di Finanza per sequestrare, alla Camera, i bilanci dei partiti, pubblicati su tutti i giornali, ci fu reazione proporzionata? No, anzi l’allora presidente, Napolitano, destinatario di lettere scritte da suicidi inascoltati, chiuse presto l’“incidente”. Quante cose ci tocca dimenticare, del nostro Presidente, talché neanche il compleanno potremo festeggiargli. E poi, fateci caso: se un magistrato femmina s’occupa di malaffari riconducibili alla piovra berlusconiana, trattasi di donna coraggiosa, riservata e dal ciglio asciutto, se capita rivolga lo sguardo a sinistra, eccole là, esibizioniste, isteriche e piagnone. Sarà una vendetta contro le corbellerie dette su donne e shopping.
E’ ingiusto, oggi, anche solo per indagare, immaginare che certuni siano stati consapevoli. Ma era giusto, ieri, condurre processi a sentenza sulla base del bestiale “non poteva non sapere”. Tutto questo è rivoltante, da condannarsi con ogni forza. E’ la barbarie arrogante di un Paese che ha ammazzato la giustizia.

Il Cav. mette a tutti le calze a rete. il Foglio

Più che di “contrordine” bisognerebbe parlare di “controdisordine”.

Il Cav. giocoso mette a tutti le calze a rete. Rete, parola moderna e forse capezzoniana, è la nuova formula confederale per tenere insieme i diversi e uniti nella dialettica crociana dei distinti. Il disordine è il brodo di coltura del vero liberalismo, probabilmente; sicuramente lo è del berlusconismo, e ab origine. Dunque il “contrordine” di ieri, che allagherà tediosamente e omologherà tutti i giornali nel giudizio, è in realtà un “controdisordine”. Lo scioglimento di Forza Italia è come quello dei ghiacciai di montagna, che sono caratterizzati come universalmente noto dal fenomeno dell’oscillazione. A Berlusconi la situazione esistenziale, l’unica cosa che conti per lui e in fondo anche per noi, ha sempre richiesto energia e intuito e flessibilità, più che severi e duraturi protocolli strategici. Agile nel salire sul predellino, è agilissimo nello scendere. Ma le cose importanti restano nell’aria. E tra le cose importanti c’è questo nuovo e bel clima di licenziosità che si afferma nella ex Gabbia delle libertà, ciascuno ormai padrone in casa propria, con il patron dei patron che per non essere espropriato dagli aitanti rivali abolisce la guerra di successione con tutto il regno, e apre un negoziato con l’avversario, inaugurando un nuovo schema che è insidioso per entrambi ma anche, potenzialmente, fecondo per ambedue.
Il Cav. ha sempre chiesto di essere rispettato, e vorrei vedere, ma non ha mai prescritto di essere preso sul serioso, di essere decodificato come si farebbe con uno statistone di quelli incollati alla caricatura del perfetto uomo pubblico. Che cosa resta, dunque, del predellino? Resta che non aveva voglia di essere processato, semmai di fare le bucce agli altri con il conforto di un buon sostegno popolare diretto. Resta che, come ha notato con finezza il suo esegeta Baget Bozzo, ove mai non dovesse tornare a Palazzo Chigi su un’onda elettorale positiva, con la scelta proporzionalista si garantirebbe lo spazio per continuare a contare in proprio e a esercitare un’influenza regale sulla politica repubblicana. Resta che bombardando il quartier generale, ma come sempre senza vittime, questo Mao nonviolento si è assicurato che tutti abbiano ben capito che non molla. Resta soprattutto che è stata avviata con glamour una via del parlarsi di tutti con tutti al termine della quale, nell’esperienza storica dell’intera vita repubblicana, in genere c’è una bella crisi di governo.

mercoledì 28 novembre 2007

I tedeschi adorano il solare, ma vanno a petrolio, carbone, nucleare. il Foglio

Al direttore - Celentano ce l’ha cantata: niente nucleare. L’abbiamo spento nel 1987 e ci stiamo godendo i benefici. L’ha detto anche Pecoraro Scanio: il sole è gratis. Peccato che l’energia solare non lo sia (altrimenti, perché incentivarla?). Già che ci siamo, perché non spegnere anche le centrali a olio combustibile, a carbone, a gas e tenerci solo l’idroelettrico, il solare e l’eolico? Se utilizzeremo solo le fonti rinnovabili, dovremo adattarci: poca luce, poco riscaldamento, niente televisore, niente frigorifero, niente lavatrice, niente ascensore, niente computer, niente auto, aerei, treni eccetera. Un bel salto indietro a quando eravamo felici senza far fatica e senza il surriscaldamento dell’ambiente (a proposito le stazioni sciistiche delle Alpi sono aperte). La situazione non sarebbe buona né per la sorella di Celentano né per noi.
Carlo Pellegatta, via Web

P. S. La Germania viene citata come esempio per aver introdotto su larga scala il solare e l’eolico: i consumi tedeschi sono coperti al 78 per cento da petrolio, carbone e nucleare.

Risposta del Direttore
Celentano è in buona compagnia. Tutta la questione energetica è trattata come un capitolo del pensiero magico dal fior fiore delle classi dirigenti mondiali. Questo in pubblico, davanti alla folla in ardente attesa di sortilegi. Poi per via spiccia e riservata infuria la guerra energetica, e probabilmente il nucleare sarebbe la soluzione anche nel senso della stabilità e di una ragionevole immissione di pace possibile nel mondo.

La montagna ha partorito il topolino.

http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/degrado_centri_storici/direttivamibac.pdf

martedì 27 novembre 2007

Come faranno quelli di Repubblica ora che Walter dialoga col Cav.? Gabriella Mecucci

Buffa sorte quella di Walter Veltroni. E’ sicuramente il leader della sinistra più vicino, per formazione e interessi culturali, a Silvio Berlusconi. Sono, infatti, entrambi due personalità straordinariamente esperte e capaci nell’arte di comunicare. Eppure, o forse proprio per questo, è il politico con una più lunga e tenace militanza antiberlusconiana. E proprio per questo particolarmente amato dal gruppo Espresso-Repubblica. Fu Walter a protestare sin dagli inizi contro il modo di fare televisione di Berlusconi, fu lui – ad esempio – ad organizzare una campagna molto aggressiva contro gli spot piazzati all’interno dei film. Vi ricordare il celeberrimo “non s’interrompe un’emozione”?

E poi fu sempre Walter a contrastare Massimo D’Alema accusato di essere il padre di tutti gli inciuci con il Cavaliere di Arcore, e toccò sempre a lui, fra il ’93 e il ’94, lanciare dalle colonne dell’Unità l’accusa di essere un fascista contro il Silvio “sceso in politica”. Erano i tempi in cui il “golden boy” di Botteghe Oscure e il fondatore di “Repubblica” si ricoprivano vicendevolmente di complimenti e in coro si scagliavano contro il “pericolo per la democrazia” proveniente dalle nebbie di Arcore.

Poi Walter è diventato sindaco di Roma e lo scontro si è un po’ attenuato, ma ogni volta che si è presentata l’occasione, il primo cittadino della capitale ha ribadito che lui era massimamente alternativo a Silvio. Ma, a dimostrazione che in politica non bisogno “mai dire mai”, adesso Veltroni è diventato il capo della gauche dialogante ed ha deciso di incontrare Berlusconi per accordarsi sulle Riforme. Appena ha mollato di qualche centimetro il suo storico antiberlusconismo, il neo segretario del Pd ha incontrato sulla sua strada un malmostoso Romano Prodi che non ha alcuna simpatia per il nuovo corso veltroniano (basti leggere le dichiarazioni rilasciate domenica dalla sua più appassionata seguace: Rosy Bindi), e soprattutto ha visto scatenarsi contro di lui le ire di “Repubblica” che, per bloccarlo, ha tirato fuori le telefonate fra Rai, Mediaset e altro. Il quotidiano di largo Fochetti conduce l’attacco sapendo di avere il proprio migliore alleato a Palazzo Chigi. Walter per la prima volta non è considerato come il migliore dei “propri figli” nemmeno da “barba papà” Scalfari. Da ieri poi sono cominciati gli incontri con i leader dell’opposizione e venerdì toccherà allo storico “nemico” Silvio Berlusconi: una sorta di coltellata per il gruppo “Repubblica”. D’Alema appoggia l’operazione veltroniana, ma gode delle difficoltà di Walter. Adesso tocca a lui essere attaccato come “inciucista”. Chi la fa l’aspetti. (l'Occidentale)

Il merito e il salario. Pietro Ichino

Il presidente di Confindustria, Montezemolo, ha rilanciato con forza, in questi giorni, la parola d’ordine della meritocrazia; e il segretario della Cisl, Bonanni, gli ha risposto positivamente: «Il nostro obiettivo è lavorare meglio e di più, per produrre e guadagnare di più». Su questo tema, invece, la Cgil resta abbottonata. Questa sua riluttanza non risponde a ragioni tattiche contingenti: ha radici profonde nella cultura della sinistra. E niente affatto disprezzabili.

A sinistra l’idea dominante è che la produttività non sia un attributo del lavoratore, bensì dell’organizzazione aziendale in cui egli è inserito. «Prendi un ingegnere bravissimo e mettilo a spaccare le pietre: otterrai probabilmente un lavoratore molto meno produttivo di uno spaccapietre analfabeta». Se, poi, nessuno domanda pietre, entrambi stanno fermi e la produttività di entrambi è zero. Nel dibattito di tutto lo scorso anno sui nullafacenti del settore pubblico, questo è stato immancabilmente il concetto che veniva contrapposto all’idea di commisurare le retribuzioni anche ai meriti individuali: «Il risultato penosamente basso di molti uffici — si è detto da sinistra — ma anche il difetto di impegno di molti impiegati dipendono dal pessimo livello di organizzazione e strumentazione ».

C’è del vero in questo argomento; ma a sinistra si cade spesso nell’errore di fermarsi qui. È l’errore che il grande Jacovitti rappresentò con l’indimenticabile vignetta dove una mucca dall’aria torpida e pigra diceva: «Sono una mucca per colpa della società». La realtà è che la produttività del lavoro dipende da entrambe le variabili: sia dall’organizzazione, e talvolta da circostanze esterne incontrollabili, sia dalla competenza e dall’impegno del singolo addetto. E conta anche il suo impegno nel cercare l’azienda dove il proprio lavoro può essere meglio valorizzato.

Commisurare interamente la retribuzione al risultato significa, certo, scaricare sul lavoratore tutto il rischio di un esito negativo che può non dipendere da suo demerito. Ma garantire una retribuzione del tutto stabile e indifferente al risultato significa cadere nell’eccesso opposto: così viene meno l’incentivo alla fatica del far bene il proprio lavoro e del muoversi alla ricerca del lavoro più utile, per gli altri e per se stessi. Questa stabilità e indifferenza della retribuzione è la regola oggi di fatto imperante in tutto il settore pubblico, ma troppo largamente applicata anche in quello privato, per effetto di contratti collettivi che lasciano uno spazio del tutto insufficiente al premio legato al risultato.

E questo è uno dei motivi —insieme, certo, a tanti altri difetti strutturali e imprenditoriali — della bassa produttività media del lavoro nel nostro Paese. Per uno stipendio magari basso, che però matura qualsiasi cosa accada, ci sono sempre i lavoratori che si impegnano a fondo, se non altro per rispetto verso se stessi, e si ribellano alle situazioni di improduttività; ma ce ne sono sempre anche altri che se la prendono comoda, fino al limite del non far nulla. Un’iniezione di meritocrazia nei contratti collettivi e individuali fa certamente bene anche a questi ultimi. (Corriere della Sera)

La gabbia dei contratti. Tito Boeri

Si riapre oggi a Roma il negoziato sulla riforma della contrattazione. Ha come oggetto i luoghi e le modalità con cui si determinano i salari di 12 milioni e mezzo di italiani. Attorno al tavolo, posti a sedere per Confindustria, Cgil, Cisl e Uil. Guai se rinviassero ulteriormente la soluzione di un problema sempre più grave. Oggi quasi il 70% dei lavoratori dipendenti italiani ha un contratto scaduto. I loro contratti non si chiudono perché vengono siglati a livello nazionale ed è praticamente impossibile mettere tutti d’accordo. All’interno della stessa categoria coesistono realtà sempre più diverse. Alcune imprese sono riuscite in questi anni a ristrutturare e hanno raggiunto livelli di efficienza elevati; altre, da quando con l’euro non possiamo più ricorrere alle svalutazioni competitive della nostra moneta, riescono a malapena a sopravvivere tenendo il costo del lavoro più basso possibile.

Anche le esigenze produttive e di organizzazione del lavoro sono sempre più eterogenee: tra i metalmeccanici coesistono la Fiat e le imprese che producono software, le aziende della componentistica elettronica e quelle artigianali della lavorazione dei metalli, gli odontotecnici e gli orafi. Definire un livello retributivo che vada bene per tutti è praticamente impossibile. Si finisce per pagare troppo poco i lavoratori delle imprese più dinamiche o per far fallire le imprese meno competitive.

Né si incoraggiano lavoratori e datori di lavoro dal migliorare la produttività. Se i primi vengono pagati poco anche quando l’azienda diventa più efficiente, perché mai dovrebbero dannarsi l’anima per migliorare i risultati aziendali? Quanto ai datori di lavoro, i bassi salari definiti a livello nazionale li proteggono dalla concorrenza delle altre imprese, servono «al fine di normalizzare le condizioni concorrenziali delle aziende», come recita lo stesso accordo firmato nel luglio del 1993. Se la produttività del lavoro è calata in Italia, negli ultimi anni, una colpa considerevole ce l’ha proprio il nostro sistema di contrattazione non riformato.

La contrattazione centralizzata ha anche impedito a molte imprese del Sud di emergere alla luce del sole. Oggi nel Mezzogiorno il tasso di occupazione misurato dalle statistiche è il 70 per cento di quello del Centro-Nord, il tasso di disoccupazione è tre volte più alto che nel resto d’Italia. Per cercare di contenere i divari regionali, siamo costretti a immettere continuamente denaro pubblico, sprecando risorse che potrebbero essere spese meglio. Durante il passaggio al Senato della Finanziaria 2008 è stato reintrodotto un bonus di 333 euro al mese che verrà automaticamente concesso a chiunque, anche una banca o un monopolista privato, assuma un lavoratore a tempo indeterminato nel Mezzogiorno. Un analogo strumento introdotto nel 2001 era arrivato a costare fino a 3 miliardi di euro. L’incapacità di adattare salari e organizzazione del lavoro alle specifiche esigenze delle singole aziende ha anche impedito alle nostre imprese di gestire meglio l’invecchiamento della nostra forza lavoro. Ci vuole flessibilità salariale e negli orari di lavoro per permettere a chi è in là con gli anni di rendersi utile, trasmettendo le proprie conoscenze ai lavoratori più giovani. La contrattazione centralizzata, con scatti di anzianità automatici e nessun legame con la produttività, spinge i datori di lavoro a liberarsi il più presto possibile dei lavoratori più anziani. Li condanna ai margini del mercato del lavoro.

Certo, anche le regole di contrattazione definite nel 1993 permettono sulla carta una qualche forma di contrattazione decentrata. Ma siccome può solo aggiungere e non togliere ai contratti nazionali, la si svolge solo in quelle imprese, sempre più rare, in cui il sindacato è ben rappresentato. Le parti sociali devono invece oggi accettare il principio che si possa davvero contrattare a livello aziendale. Il che significa anche scendere al di sotto del livello fissato a livello nazionale, tenendosi comunque al di sopra di un salario minimo che avesse forza di legge. Se sindacato e Confindustria accettassero questo principio, ci sarebbe contrattazione in molte più aziende e i salari medi degli italiani, assieme alla loro produttività, tornerebbero ad aumentare.

Speriamo che oggi di questo e non di altro si discuta. Speriamo che si parli anche di come rivedere formule organizzative obsolete, fatte solo per escludere chi non è già rappresentato. Che senso ha oggi per un lavoratore iscriversi prima ad una categoria che a un sindacato? E che senso ha per Confindustria strutturarsi in associazioni territoriali se queste non servono, oltre che per organizzare convegni, per contrattare?

Il rischio è che invece oggi sindacati e Confindustria si troveranno uniti solo nel condannare chi, giustamente, al tavolo giustamente non è stato invitato. Non che non abbiano ragione di farlo. Il voto sul pacchetto welfare che si annuncia per giovedì alla Camera è una beffa per quei quattro milioni di lavoratori che a novembre hanno approvato il protocollo sul welfare firmato nel luglio scorso. Si è scientemente voluto aspettare l’esito del referendum per apportare le modifiche da tempo richieste dalla parte poi uscita sconfitta dalla consultazione. Questa parte politica, la vecchia sinistra, considera il sindacato come una cinghia di trasmissione del partito, una organizzazione che serve solo per far avallare ai lavoratori le proprie decisioni. Ma proprio perché il sindacato italiano non è come quello dei Paesi dell’ex blocco sovietico, proprio perché le parti sociali sono oggi giustamente unite nel condannare il voltafaccia dell’esecutivo, devono concentrarsi sulle materie che sono strettamente di loro competenza pensando a come far meglio ciò che solo loro possono fare: contrattare, contrattare, contrattare. (la Stampa)

Prodotto scaduto. Mario Cervi

S’è sgretolato, parecchi anni or sono, il comunismo reale. Ne è fuori la Cina, dove furoreggia un affarismo autoritario e non di rado persecutorio. Ne è fuori quasi totalmente il Terzo Mondo, affascinato a lungo dalle sirene d’un marxismo in salsa africana. Rimane Cuba, legata alla sopravvivenza fisica di Fidel Castro, e oggetto di amorevoli cure dei politologi: angosciati dalla prospettiva di non poter più controllare in concreto, a breve scadenza, le caratteristiche essenziali, e infallibilmente manicomiali, d’un regime comunista. Ma perfino nella stampa plumbea dell’Avana si nota qualche afflato d’indipendenza.
Dopo lo sfascio del comunismo reale - la dizione ufficiale era anzi quella di socialismo reale - sta cadendo in pezzi anche il comunismo ideale. Con l’eccezione forse di Oliviero Diliberto che non riesce a liberarsi dai miti - nemmeno da quello d’essere un genio - e nonostante la superstite presenza di due partiti che hanno il comunismo nell’etichetta, in Italia la frana è visibile e palpabile. La «cosa rossa», rassemblement delle chiacchiere, affaccia il proposito di rinunciare al simbolo di falce e martello. Forse si è capito, perfino nelle stanze d’avorio dove i rivoluzionari al caviale elaborano i loro progetti, che i contadini sono una esigua minoranza in un Paese moderno, e che gli operai non sono più una classe maggioritaria. Inutile allora evocare un proletariato estinto e slanci di masse imborghesite, meglio arrendersi a battaglie più consone allo stile dei combattenti: non per la conquista del Palazzo d’inverno ma per la poltrona in ogni stagione. D’inverno con settimana bianca incorporata.
Riteniamo che anche la crisi del Manifesto possa essere iscritta in questa atmosfera di smobilitazione del comunismo, un tutti a casa serpeggiante, e non abbastanza mascherato dai proclami del «tutti all’attacco». Il Manifesto ha avuto più momenti di difficoltà economica. Il suo male attuale è tuttavia più profondo, investe l’essenza ideologica d’un giornale che si era coraggiosamente opposto al conformismo filosovietico del Pci - e dunque dell’Unità - ma che teneva alta la bandiera d’un futuro in cui il vero comunismo, non quello adulterato e dispotico dell’Urss, trionfasse portando ai popoli godimenti mai prima assaporati.
In questa fede, o se preferite in questa utopia, il Manifesto si è crogiolato. Adesso il padre nobile Valentino Parlato riconosce che la crisi non è solo di soldi, è anche politica: e allora insieme ad appelli per un sostegno finanziario - ci auguriamo di cuore che il Manifesto superi queste difficoltà, ogni voce giornalistica è preziosa - vi sono anche annunci «di un prodotto editoriale diverso nella forma e nel linguaggio». Un prodotto che si pretende non rinnegherà il passato, ma che pare rinuncerà alla qualifica di «quotidiano comunista». Progetto ambizioso, fin troppo: a meno che il Manifesto, insieme a un nuovo linguaggio, trovi anche nuovi contenuti. Quelli comunisti sono scaduti da un pezzo. (il Giornale)