Si riapre oggi a Roma il negoziato sulla riforma della contrattazione. Ha come oggetto i luoghi e le modalità con cui si determinano i salari di 12 milioni e mezzo di italiani. Attorno al tavolo, posti a sedere per Confindustria, Cgil, Cisl e Uil. Guai se rinviassero ulteriormente la soluzione di un problema sempre più grave. Oggi quasi il 70% dei lavoratori dipendenti italiani ha un contratto scaduto. I loro contratti non si chiudono perché vengono siglati a livello nazionale ed è praticamente impossibile mettere tutti d’accordo. All’interno della stessa categoria coesistono realtà sempre più diverse. Alcune imprese sono riuscite in questi anni a ristrutturare e hanno raggiunto livelli di efficienza elevati; altre, da quando con l’euro non possiamo più ricorrere alle svalutazioni competitive della nostra moneta, riescono a malapena a sopravvivere tenendo il costo del lavoro più basso possibile.
Anche le esigenze produttive e di organizzazione del lavoro sono sempre più eterogenee: tra i metalmeccanici coesistono la Fiat e le imprese che producono software, le aziende della componentistica elettronica e quelle artigianali della lavorazione dei metalli, gli odontotecnici e gli orafi. Definire un livello retributivo che vada bene per tutti è praticamente impossibile. Si finisce per pagare troppo poco i lavoratori delle imprese più dinamiche o per far fallire le imprese meno competitive.
Né si incoraggiano lavoratori e datori di lavoro dal migliorare la produttività. Se i primi vengono pagati poco anche quando l’azienda diventa più efficiente, perché mai dovrebbero dannarsi l’anima per migliorare i risultati aziendali? Quanto ai datori di lavoro, i bassi salari definiti a livello nazionale li proteggono dalla concorrenza delle altre imprese, servono «al fine di normalizzare le condizioni concorrenziali delle aziende», come recita lo stesso accordo firmato nel luglio del 1993. Se la produttività del lavoro è calata in Italia, negli ultimi anni, una colpa considerevole ce l’ha proprio il nostro sistema di contrattazione non riformato.
La contrattazione centralizzata ha anche impedito a molte imprese del Sud di emergere alla luce del sole. Oggi nel Mezzogiorno il tasso di occupazione misurato dalle statistiche è il 70 per cento di quello del Centro-Nord, il tasso di disoccupazione è tre volte più alto che nel resto d’Italia. Per cercare di contenere i divari regionali, siamo costretti a immettere continuamente denaro pubblico, sprecando risorse che potrebbero essere spese meglio. Durante il passaggio al Senato della Finanziaria 2008 è stato reintrodotto un bonus di 333 euro al mese che verrà automaticamente concesso a chiunque, anche una banca o un monopolista privato, assuma un lavoratore a tempo indeterminato nel Mezzogiorno. Un analogo strumento introdotto nel 2001 era arrivato a costare fino a 3 miliardi di euro. L’incapacità di adattare salari e organizzazione del lavoro alle specifiche esigenze delle singole aziende ha anche impedito alle nostre imprese di gestire meglio l’invecchiamento della nostra forza lavoro. Ci vuole flessibilità salariale e negli orari di lavoro per permettere a chi è in là con gli anni di rendersi utile, trasmettendo le proprie conoscenze ai lavoratori più giovani. La contrattazione centralizzata, con scatti di anzianità automatici e nessun legame con la produttività, spinge i datori di lavoro a liberarsi il più presto possibile dei lavoratori più anziani. Li condanna ai margini del mercato del lavoro.
Certo, anche le regole di contrattazione definite nel 1993 permettono sulla carta una qualche forma di contrattazione decentrata. Ma siccome può solo aggiungere e non togliere ai contratti nazionali, la si svolge solo in quelle imprese, sempre più rare, in cui il sindacato è ben rappresentato. Le parti sociali devono invece oggi accettare il principio che si possa davvero contrattare a livello aziendale. Il che significa anche scendere al di sotto del livello fissato a livello nazionale, tenendosi comunque al di sopra di un salario minimo che avesse forza di legge. Se sindacato e Confindustria accettassero questo principio, ci sarebbe contrattazione in molte più aziende e i salari medi degli italiani, assieme alla loro produttività, tornerebbero ad aumentare.
Speriamo che oggi di questo e non di altro si discuta. Speriamo che si parli anche di come rivedere formule organizzative obsolete, fatte solo per escludere chi non è già rappresentato. Che senso ha oggi per un lavoratore iscriversi prima ad una categoria che a un sindacato? E che senso ha per Confindustria strutturarsi in associazioni territoriali se queste non servono, oltre che per organizzare convegni, per contrattare?
Il rischio è che invece oggi sindacati e Confindustria si troveranno uniti solo nel condannare chi, giustamente, al tavolo giustamente non è stato invitato. Non che non abbiano ragione di farlo. Il voto sul pacchetto welfare che si annuncia per giovedì alla Camera è una beffa per quei quattro milioni di lavoratori che a novembre hanno approvato il protocollo sul welfare firmato nel luglio scorso. Si è scientemente voluto aspettare l’esito del referendum per apportare le modifiche da tempo richieste dalla parte poi uscita sconfitta dalla consultazione. Questa parte politica, la vecchia sinistra, considera il sindacato come una cinghia di trasmissione del partito, una organizzazione che serve solo per far avallare ai lavoratori le proprie decisioni. Ma proprio perché il sindacato italiano non è come quello dei Paesi dell’ex blocco sovietico, proprio perché le parti sociali sono oggi giustamente unite nel condannare il voltafaccia dell’esecutivo, devono concentrarsi sulle materie che sono strettamente di loro competenza pensando a come far meglio ciò che solo loro possono fare: contrattare, contrattare, contrattare. (la Stampa)
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