martedì 2 marzo 2010

Così si mette ko l'intellettuale di sinistra. Sergio Ricossa

Esce nei prossimi giorni una nuova edizione di Straborghese (Istituto Bruno Leoni, pagg. 182, curo 20) il pamphlet di Sergio Ricossa edito per la prima volta nel 1980, qui accompagnato da un'ampia prefazione di Alberto Mingardi. Trattasi di una appassionata difesa della borghesia, scritta con grande umorismo e sorretta da uno stile brillante (che ricorda talvolta Tom Wolfe). Il borghese ama la fatica e accetta l'incertezza; la sua morale si fonda «sulla responsabilità individuale, sulla colpa individuale, e sulla punizione individuale». Per questo imputa a se stesso il proprio fallimento, non sente l'invidia, «non vuole ricevere senza dare, dare senza ricevere. Egli scambia». Per gentile concessione dell'editore pubblichiamo uno stralcio del capitolo intitolato Quel che il borghese deve sapere sugli intellettuali di «sinistra».

Riconoscere un tipico intellettuale di «sinistra» non costa alcuna fatica, perché egli si proclama tale ai quattro venti e fa lega solo con chi si proclama tale. Ogni altro intellettuale è per lui un essere inferiore, anzi, non è un intellettuale affatto: è un «servo dei padroni» o peggio. Benché facciano mazzo fra loro, gli intellettuali di «sinistra» non mostrano di amarsi. Si premiano a vicenda, ma è un do ut des, solo uno scambio di decorazioni nobiliari: «Dammi la gran croce del merito sociale, e ti darò il collare dell'ordine della giustizia egualitaria». Questo poi non impedisce loro di insultarsi. Così pure i nobili si sfidavano continuamente a duello; però rifiutavano di battersi con un plebeo, lo ritenevano indecoroso, e similmente gli intellettuali di «sinistra» non scendono a singolar tenzone con un uomo bollato di «destra».

Essi sembrano amare praticamente nessuno se non il proprio io, alla Narciso (fors'anche un po' alla borghese?). Amano il popolo come astrazione, lo detestano probabilmente come insieme di persone vive, e cioè rumorose, sudate, invadenti, volgari. Il popolo vivo sembra sopportabile solo se lo si guarda dall'alto di un palco ben isolato ed elevato. Irreggimentare il popolo, metterlo in fila, comandarlo, tutelarlo anche, ma come si tutelano i minori, finalmente farsi applaudire dal popolo: ecco le seduzioni di chi sta a «sinistra». Seduzioni a cui è tanto più difficile resistere quanto più gl'intellettuali hanno origini lontane dal popolo. In tal caso, ci si può interessare al popolo come un socio della società perla protezione degli animali può interessarsi agli animali: con intensità e distacco. Il borghese generalmente non può: è ancora nel popolo o ne è appena «emerso» e non lo rinnega. Il populismo dell'intellettuale di «sinistra» non è segno di origine popolare, è segno del contrario.

Ben inteso, anche a «sinistra» c'è chi resiste a quelle seduzioni. Per quanto gl'intellettuali di «sinistra» si compiacciano di erigersi a circolo omogeneo ed esclusivo («unitario»), per quanto si sforzino di somigliare a quei teologi che Huygens paragonava ai porci in quanto «se tiri la coda a uno, gridano tutti», il borghese, a costo di scontentarli, deve distinguerli e separarli a uno a uno. Al solito, così facendo scoprirà, in mezzo a tanti collettivisti, qualche borghese autentico, che non sa di esserlo o lo sa anche troppo e lo nasconde. Fra chi inveisce contro la borghesia, scoprirà i sinceri e i truffaldini, i saputi e gl'ignoranti. Quel che mai il borghese deve concedere è che essi, gli intellettuali di «sinistra», abbiano più autorità morale o scientifica o di qualunque altro genere per discutere di giustizia, democrazia, elevazione degli umili, progresso sociale, libertà. Non ce l'hanno soprattutto quando pretendono di averla e peccano di orgoglio o ipocrisia.

Gli intellettuali di «sinistra», questo sì, hanno messo a punto un loro linguaggio speciale, oscuro e suggestivo, per sentenziare su quei temi. Il «sinistrese» ne è la riduzione a gergo corrotto e ridicolo. Ma nelle forme superiori, il linguaggio di «sinistra» è uno strumento pericolosamente, subdolamente efficace. Grazie a ciò, ci volle più di un secolo, ci vollero molti lutti, per accorgersi che quasi tutta l'economia di Marx è un mero gioco di parole: più che un castello di carte, un castello di schede da vocabolario. I più perspicaci lo notarono fin dal principio, e tuttavia manchiamo oggi ancora di un metodo completo per demistificare qualunque verbosità del genere. Abbiamo delle note sparse qua e là, per esempio nei Sistemi socialisti del borghese Vilfredo Pareto, il massimo economista italiano, dove si smascherano regole «sinistre». «Impiegare a favore della propria tesi solo termini associati a una idea di approvazione». Le associazioni di idee valgono più delle deduzioni logiche. «Le definizioni più oscure sono le migliori. Esse sembrano estremamente profonde, e molti credono di vedervi cose meravigliose, che non esistono se non nella loro immaginazione. È semplicemente un caso di autosuggestione e allucinazione». I termini astratti sono preferibili a quelli concreti: i primi ammettono la perfezione, i secondi no. Le contraddizioni sono lecite in nome della dialettica. Il modo migliore per non essere smentiti è affermare quanto non può essere sotto posto a verifica. L'insensato, ciò che manca di significato, è una delle cose più inoppugnabili dell'intellettualità.

Naturalmente, l'arte di imbrogliare con le parole è antichissima e onorata dall'umanità in generale. Invero, non c'è ragione per non ammirare i grandi artisti in qualunque campo, purché non si spaccino per grandi scienziati, grandi filosofi. I trucchi retorici dei sofisti dilettavano i greci purché fossero onesti e dichiarati o sottintesi, innocenti come quelli degli illusionisti o prestigiatori a teatro. Protagora chiedeva ai suoi allievi di pronunciare l'elogio di una cosa qualsiasi e immediatamente dopo la denigrazione della stessa: insegnava perciò a vaccinarsi contro la credulità, la seduzione verbale tanto simile alla seduzione musicale, ma assai più rischiosa. Oggi dobbiamo temere che l'arte si applichi a fini scorretti, e che non si osi denunciarla perché è una grande arte.

Pareto cita alcuni brani di Hegel come questo: «Lo Stato è realtà dell'Idea morale, lo spirito morale in quanto volontà sostanziale, apparente, chiara a se stessa, che si pensa e si sa, e che compie ciò ch'essa sa, nella misura in cui lo sa». Pareto è Pareto e non teme di dire: «Tutto ciò è incomprensibile e somiglia alle allucinazioni di un sogno». Ma innumerevoli altri non hanno questo coraggio, altri ancora trovano conveniente per sé imitare lo stile hegeliano, che nel frattempo è divenuto lo stile universale di chi vuole passar per colto al minimo costo. Non solo per suo mezzo si spaccia qualunque idea: di più, si fa «cultura» senza idee. Basta imparare a memoria l'apposita lingua intellettuale, e farla suonare, ciò che è alla portata di tutti, diversamente dalla genialità o anche solo dall'intelligenza. «Il cretino di sinistra ha una spiccata tendenza verso tutto ciò che è difficile. Crede che la difficoltà sia profondità» (Sciascia). Il non cretino di «sinistra» ama farlo credere, e ci guadagna. Come tutti i dogmatici, ama la cavillatio.

Il borghese, che voglia difendersi o meglio attaccare, farà bene a lasciare agli avversari l'arte del bla-bla-bla. Non è arte per lui. Nel carattere borghese c'è un gusto insopprimibile per la concretezza, che è poi quanto gli fa prendere sul serio l'individuo (la realtà) e non il collettivo (l'astrazione). Appunto, eserciti questo gusto e non prenda sul serio la logorrea degli intellettuali di «sinistra», non se ne lasci invischiare. Ne rida, la collezioni negli stupidari, quando ne incontra un campione ragguardevole. La studi col solo scopo di esprimersi nello stile opposto il più possibile. Miri alla chiarezza, e le sacrifichi i fronzoli; miri alla semplicità, a costo della semplificazione. Segua la lingua di Machiavelli, che della sua opera diceva: «Io non l'ho ornata né ripiena di clausule ample, e di parole ampullose e magnifiche, e di qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco, con li quali molti sogliono le loro cose descrivere e ornare; perché io ho voluto o che veruna cosa la onori, o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata». (il Giornale)

4 commenti:

Acchiappabufale ha detto...

IL CSM, IL BUE E L'ASINO

La prima commissione del Consiglio Superiore della Magistratura ha collezionato per sei mesi dichiarazioni di Silvio Berlusconi ed ora ha stilato una bozza con cui, secondo “la Repubblica”(1), chiede che finiscano “attacchi e tentativi di delegittimare la magistratura”. La bozza conclude “l'esame della pratica a tutela della magistratura aperta dopo le continue dichiarazioni del premier Silvio Berlusconi”. Una volta limato e corretto, il testo sarà portato all’esame del plenum e il comitato di presidenza del Csm deciderà sui tempi della discussione.
Nessuno si faccia ingannare da questa terminologia aulica, quasi che si stessero seguendo, con il massimo scrupolo e la massima serietà, le regole di un iter consacrato nei sacri testi. L’iniziativa è assurda per molti motivi ed anzi è tutta fuffa. La risoluzione non sarà più seria di quella di un condominio di Voghera che condannasse la repressione del dissenso in Iran. Con la differenza che nessuna norma vieta ad un condominio di esprimere la propria simpatia per i pinguini imperatore o la propria ostilità per l’aglio nelle salsicce, mentre il Csm ha dei compiti nettamente precisati dalla legge.
L’art.105 della Costituzione - cui i magistrati tengono tanto da portarsela sottobraccio in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario - stabilisce infatti che: “Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinati nei riguardi di magistrati”. C’è forse scritto che il Csm rappresenta la magistratura nei confronti dei poteri dello Stato? C’è forse scritto che sta ad esso difendere l’onorabilità dei magistrati nel loro complesso? C’è forse scritto che può occuparsi di tutto, in particolare della politica del governo o dei futuri progetti di riforma? Il Csm non è né il sindacato dei giudici, né l’organo di tutela della magistratura, né il portavoce dell’ordine giudiziario e quando si occupa di politica viola quella Costituzione che i magistrati amano esibire in pubblico.
In passato, per questo abuso dei suoi poteri e della pazienza dell’esecutivo, il Csm è stato severissimamente bacchettato dall’allora Presidente della Repubblica (e del Csm) Francesco Cossiga. Il Consiglio voleva introdurre nell’odg una censura al governo e Cossiga intimò la cancellazione dell’argomento, minacciando in caso contrario di far intervenire i carabinieri ed di far sgombrare il palazzo con la forza. Ed effettivamente i carabinieri si schierarono sin dalle sei del mattino dinanzi al Palazzo dei Marescialli. Se si crede che qui si stia esagerando, si leggano le parole dello stesso interessato (2).

Acchiappabufale ha detto...

Si noti che nessuno ha mai accusato l’estroso Presidente per questo intervento più che risoluto. Perché in realtà fu lui che impedì un malvezzo che in seguito è purtroppo divenuto abitudine.
Disponendosi a censurare Silvio Berlusconi, il Csm viola la Costituzione per un altro verso. L’art.68 dispone infatti che “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. Se così non fosse, Di Pietro, a forza di condanne per diffamazione, sarebbe in galera da anni. Dunque l’iniziativa è inane e vagamente ridicola.
Il terzo ed ultimo elemento è linguistico. Che diamine significa “delegittimazione”? Molti credono che se esiste una parola, esiste anche la cosa designata da quella parola e non sempre è così. Diversamente esisterebbero la chimera, l’unicorno, il flogisto o, per essere moderni, l’elettrosmog. La parola non si rinviene nel Devoto-Oli del 1979 e dunque l’umanità ha potuto farne a meno fino a trent’anni fa. Lo Zingarelli del 1995 definisce così il lemma: delegittimare, “privare di legittimità, sottrarre la legittimazione a esercitare una funzione o un potere”. E in che senso Berlusconi delegittimerebbe la magistratura? Le ha forse impedito di esercitare le sue funzioni o di usare dei suoi poteri? Egli si è limitato a criticarla e a dichiarare alcune sue azioni “illegittime”, nel senso di non conformi alle leggi. Se si vuole un esempio, si pensi all’odg che il Csm si appresta a varare per criticarlo.
Siamo al classico caso del bue che dà del cornuto all’asino. Il Csm viola la Costituzione e poi viene a parlare agli altri di delegittimazione. Se anche il Premier avesse detto dei magistrati le cose assurdamente offensive che Di Pietro ha detto di lui, non sarebbe stato più punibile di quanto lo sia Di Pietro. L’art.68 dichiara legittime tutte le opinioni espresse da un politico, mentre l’art.105 dichiara non conforme alla legge qualunque attività del Csm che non sia quella di occuparsi di nomine, trasferimenti e procedimenti disciplinari riguardanti i magistrati.
Infine se per “delegittimare” si intende – definizione nostra – “dichiarare che qualcuno non è degno di esercitare le funzioni e i poteri di cui la legge lo ha rivestito”, la prima cosa da fare, per evitare che qualcuno lo pensi, è comportarsi in maniera ineccepibile, cominciando col rispettare la Costituzione.

(1)http://www.repubblica.it/politica/2010/03/02/news/la_prima_comissione_del_csm_a_berlusconi_basta_attacchi_alla_magistratura-2479226/
(2) http://archiviostorico.corriere.it/2008/gennaio/21/Cossiga_Napolitano_Csm_non_avalli_co_9_080121135.shtml

Acchiappabufale ha detto...

Ci sono tutti i presupposti per una svolta autoritaria

- Da molto tempo dalle colonne di Libero, e prima ancora da quelle di altri quotidiani, stiamo richiamando l’attenzione della politica tutta sullo sfarinamento dello Stato inteso come regolatore di una civile convivenza e promotore autorevole di uno sviluppo economico e di un patto sociale redistributivo. E da troppo tempo la politica è muta ed attonita. Il Paese è allo sbando perché pezzi di Stato, come il governo e la magistratura, si scontrano ogni giorno tanto da costringere il Presidente della Repubblica ad intervenire ancora una volta sollecitando una riforma della giustizia che difenda ed esalti l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati ma ne codifichi anche le rispettive responsabilità.

Intanto pezzi importanti della nostra economia sembrano essere collegati alla criminalità comune, a quella organizzata e a presenze parlamentari, con profitti illeciti spaventosi.

PROTEZIONE CIVILE

La sgradevolissima vicenda della protezione civile, una istituzione amata dagli italiani e sostenuta dalla generosità dei meno ricchi e spesso dei più deboli che ingrossano le file del suo volontariato, costituisce un altro colpo mortale alla credibilità dello Stato. L’inquietante morte dell’On. Fragalà e gli strani processi per accertare fumose presunte responsabilità di alcuni carabinieri nel mentre non si vogliono vedere i veri responsabili della trattativa tra mafia e Stato all’indomani delle stragi del 1992 e del 1993 sono un altro esempio dello sfaldamento dei poteri dello Stato che in una improvvida lotta tra loro non si accorgono del nemico comune che spesso ha il volto di uomini fin troppo noti.

Noi quei nomi li conosciamo così come li conoscono in tanti, giornalisti e magistrati compresi, ma ognuno tace. Il tutto sotto gli occhi di un Parlamento che sembra aver perso quella voce autorevole e quella autonomia di giudizio che ne ha fatto, anche nei momenti bui della Repubblica, il vero sovrano democratico. E per carità di Patria evitiamo di parlare delle centinaia di liste politicamente anonime presentate per le elezioni regionali, o l’ingresso nelle liste di giovani fanciulle oltre che di mogli, figli, parenti e affini, segretarie-amanti di uomini già presenti nelle varie istituzioni. Un’offesa intollerabile alla credibilità e alla sacralità delle istituzioni parlamentari e regionali. Potremmo continuare ancora nell’elencare gli esempi di uno Stato in frantumi sempre più preda di interessi egoistici e di avidità senza freni. Al centro come in periferia. La verità purtroppo è sotto gli occhi di tutti.

Acchiappabufale ha detto...

Ma non è solo lo Stato in frantumi. Lo è prima ancora la politica. I due maggiori partiti, Pd e PdL, si sono dimostrati di essere solo due liste elettorali, pessimi esempi organizzativi (vedi il caso di Roma nel quale forse c’è anche dolo) senza alcuna cultura politica di riferimento tanto che il primo ha già subito una scissione e il secondo è sulla buona strada.



VOTI E SALOTTI

Non si fanno i partiti nei salotti o nei laboratori ma nemmeno da un predellino di una vettura in una piazza qualunque. Politica e partiti sono cose maledettamente serie e chi ne vuole fare una proprietà personale od oligarchica non ha senso dello Stato e non pensa al futuro del Paese. Non vogliamo fare prediche perché non abbiamo né titolo, né vocazione, ma chi ha responsabilità pubblica non può non riflettere sullo stato del Paese. E anche in fretta.

Le regole universali della politica mettono sulle spalle dei due maggiori partiti l’onere di una iniziativa capace di voltar pagina, ma la prima mossa non può che farla il partito di maggioranza relativa. L’involuzione democratica che ormai attanaglia quasi tutti i partiti è diventata insopportabile ma è devastante quando coglie il partito di maggioranza ed è fonte di tutto ciò che abbiamo sinora descritto. È tempo allora che le classi dirigenti si sveglino dal torpore di una cieca ubbidienza ai singoli capi e li spingano verso una vera rotta democratica smarrita. Un tempo lontano lo Stato ci fu ingiustamente patrigno ma mai inveimmo contro di esso. Figli di una cultura politica-democratica ci opponemmo sempre al dileggio dei poteri dello Stato così come a svolte leaderistiche e personali dei partiti ben conoscendo quanti disastri quelle svolte hanno procurato nella storia dell’uomo. Quella svolta oggi può essere alle porte. Ci pensino i leader politici prima che sia troppo tardi.

ilgeronimo@tiscali.it
Geronimo.

Il primo articolo è di Gianni Pardo