domenica 21 ottobre 2012

Concorrenza fiscale. Davide Giacalone

Non accettando consigli da chi ha società alle Cayman si commettono due gravi errori. Il primo è di disonestà, perché si lascia intendere che con loro non s’intende avere a che fare, mentre è documentato il contrario. Vorrei non si dimenticasse l’epica stagione dei “capitani coraggiosi”, scalatori sponsorizzati da palazzo Chigi, dove imperava Massimo D’Alema, radicati in Lussemburgo e partecipati da società Cayman. Questo primo errore è stato abbondantemente rimarcato. Passiamo al secondo, le cui implicazioni sono maggiori, per il futuro: la concorrenza fiscale non è un mostro, e nemmeno il maligno, è la realtà del mercato globalizzato. Non solo sarebbe bene ascoltare, ma meglio ancora farsene un’idea chiara, perché da quella derivano significative conseguenze.

Anche se a Pier Luigi Bersani la cosa sembra nuova, inaspettata e deplorevole, la concorrenza fiscale è aperta e forte anche dentro l’area europea. La stessa identica Europa cui lui dice di dedicare tanti sogni, cui vuole (giustamente) restare legato, è un mercato di concorrenza fiscale. Non solo c’è il favore lussemburghese per le società finanziarie, non solo c’è quello austriaco (e non solo) per le attività produttive, ma ci sono veri e propri paradisi fiscali, comunque riconosciuti: dalle Antille olandesi alla portoghese Madeira. Sono cose notissime e, non a caso, le grosse società finanziarie, le banche, e anche i piccoli più dinamici fanno largo ricorso a queste opportunità. Bersani sarà pure stupefatto, ma a quel mercato fanno ricorso anche imprese direttamente partecipate dallo Stato italiano.

Perché esiste la concorrenza fiscale? Perché si tende a trattare con favore le imprese e gli investimenti che si spostano da un Paese all’altro, offrendo loro la convenienza di prendere una cittadinanza (societaria) anziché un’altra. Perché è conveniente fare degli sconti fiscali? Perché così si attira gettito altrimenti fuori dalla portata nazionale. Demonizzare tutto questo, supporre di poterlo cancellare con una dichiarazione indignata non è velleitario, è direttamente stupido. Neanche sarebbe conveniente, perché grazie a quella concorrenza ci sono settori produttivi e finanziari che possono recuperare una competitività altrimenti perduta. Il vero quesito, allora, è il seguente: perché dall’Italia si scappa, mentre nessuno viene da noi a radicarsi per convenienza? Risposta: perché il nostro fisco è esoso, dato che lo Stato spende in ragione di quanto incassa e desidera spendere sempre di più. Inoltre non garantiamo la giustizia. Chi viene da noi, allora? Quelli che considerano conveniente portare via ricchezza o percepire aiuti pubblici, fatti di certificati verdi troppo pagati, sovvenzioni per la creazione di posti di lavoro e così via. Quindi, riassumendo: altri attirano capitali tassandoli meno di noi, ma comunque più che se restassero all’estero; noi attiriamo investimenti pagandoli. Facile capire perché c’impoveriamo.

Il sogno dei bersaniani di tutto il mondo è eliminare la concorrenza, in modo che il governante possa agire a suo piacimento, senza il disturbo di un vicino (o anche lontano) che alletta i suoi cittadini e li invita in casa propria. Il sogno più razionale è quello di avere uno Stato meno esoso, capace di tutelare un ecosistema favorevole alla nascita e crescita delle imprese produttive, senza allevarle per poi divorarle fiscalmente, quindi capace di tutelare il proprio gettito.

Per queste ragioni suggerisco a Bersani, come a tutti quelli che credono il fisco sia uno strumento di redenzione morale, di farsi invitare a cena da chi si occupa di finanza, compresa quella “evasiva”. Può darsi che il pasto non sia gradevolissimo, ma la lezione assai utile. Ove abbia bisogno di conferme e riscontri, poi, chiami pure liberamente i capitani coraggiosi, che erano corsari esterovestiti.

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