Questa i professori se la potevano risparmiare. Costruire un provvedimento in modo da potere dire che si stanno diminuendo le tasse, nel mentre si fa crescere la pressione fiscale, è una di quelle cose che non si perdonano ai governi politici, neanche in campagna elettorale. Anzi, in quel caso li si accusa di demagogia. Figuriamoci se si può perdonarlo a un governo tecnico, che un giorno sì e l’altro pure annuncia di non volere entrare nella competizione elettorale.
Gli attuali scaglioni Irpef prevedono che si paghi il 23% per i redditi fino a 15.000 euro l’anno, e il 27 per quelli fino a 28.000. Pur essendo l’Italia una delle più ricche economie del mondo, entro quel limite si concentrano la quasi totalità dei redditi (circa l’85%, se si comincia a contare da zero), il che già dimostra l’effetto corruttivo di una fiscalità che penalizza la ricchezza. Diminuendo di un punto quelle due aliquote si realizza un risparmio, per il contribuente, e un minore gettito, per il fisco, nell’intorno dei 2 miliardi. Aumentando di un punto l’Iva, come il governo a contemporaneamente deciso (dopo avere alimentato la speranza che se ne potesse fare a meno), si ottiene un maggiore gettito, quindi un aggravio per i cittadini, che va da 3 a 3,5 miliardi, a seconda di come andranno i consumi. E siccome rimettere qualche soldo nelle tasche di chi ha redditi bassi significa dirigerli non certo verso il risparmio, ma verso la spesa, il risultato di questo provvedimento è il seguente: si diminuisce l’aliquota e si aumenta la pressione fiscale. Il reddito disponibile, per le famiglie, non cresce, ma diminuisce. Sicché, ragionevolmente, chi ha messo a punto un simile meccanismo aveva in mente di conquistare un titolo sui giornali, non di ridare fiato all’economia. Tanto era questo l’intento che nel governo hanno litigato proprio sulla precedenza nel dare l’annuncio (Mario Monti s’è risentito, dicono, con Gianfranco Polillo, che lo avrebbe bruciato sul tempo).
Ma perché lamentarsi, non si tratta pur sempre della tanto reclamata riduzione della pressione fiscale? Intanto no, non è così. Ma la cosa più rilevante è che nel rinunciare non tanto al gettito (che, ripeto, aumenta), quanto ad una sua specifica qualificazione, il governo non s’è indirizzato laddove è necessario per ridare fiato alla crescita, lasciando immutati sia l’Irap che il cuneo fiscale. L’Irap è un’imposta applicata al lavoro, con effetti terribilmente recessivi. Il cuneo fiscale agisce anch’esso in senso recessivo, perché tiene sopra la media europea il costo del lavoro, lasciando i salari sotto la media. Senza mettere mano a questi due chiodi, conficcati nelle carni dell’Italia produttiva, non si riprende la via dello sviluppo e non si guadagna in competitività. I professori lo sanno, come lo sa chiunque abbia posto mente a questi problemi. Ma hanno preferito agire come un qualsiasi governo che va accattonando consensi, anche imbrogliando la gente con un uso spregiudicato della comunicazione.
Puntare alle aliquote, mascherarsi dietro l’alleggerimento del peso sulle spalle dei poveri (cioè tutti, a voler credere alle dichiarazioni dei redditi), non solo è tecnicamente falso, ma risponde ad un’idea falsamente deamicisiana e concretamente pauperistica del Paese. La speranza era che un governo tecnico fosse affrancato, per sua stessa natura, da tali bassezze. Purtroppo delusa.
Resta il fatto che il professor Monti è preferibile ad un mondo politico incapace di fare politica, tremulo nel denunciare il raggiro, privo di idee e colmo di lestofanti. Un mondo che a destra ancora pensa che basti cambiare nome per non essere riconosciuti e a sinistra che si possano regolare i conti sempre in prossimità delle elezioni, anziché subito dopo averle perse. Un mondo che ancora pensa di cambiare la legge elettorale dando un premio di maggioranza alle coalizioni, come se diciotto anni di false coalizioni, rissose e ingovernabili, non fossero sufficienti a dimostrare che quell’impostazione non funziona. Ma è un fatto, Che Monti sia il meno peggio, moralmente deprimente ed economicamente recessivo.
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