Nel paese dove il conflitto di interessi è una cosa seria, non esiste una legge che impedisca al proprietario di aziende, azioni, imperi industriali o mediatici, di candidarsi a cariche pubbliche e di governo. L’ipotesi di vendita forzosa non è presa in considerazione. Qualora un miliardario o un imprenditore, anche del mondo dell’informazione, venisse eletto a una carica pubblica non è obbligato né a vendere le sue proprietà né a metterle in un blind trust, cioè in un fondo cieco amministrato da terzi. Può farlo o non farlo, il giudizio poi spetta agli elettori. L’eletto non è nemmeno obbligato a presentare la dichiarazione dei redditi completa, come si fa in Italia da ben prima dell’avvento di Silvio Berlusconi. Prendete i diciotto candidati alla Casa Bianca 2008, dieci repubblicani e otto democratici. E’ notizia di ieri che nessuno di loro, tranne Barack Obama, renderà pubblici i dettagli dei propri interessi finanziari.
Nel 2000 e nel 2004 George W. Bush l’aveva fatto, rendendo noti i suoi “tax returns”, mentre il suo sfidante John Kerry aveva negato di svelare gli asset finanziari di sua moglie, la multimilionaria Teresa Heinz Kerry. Bill Clinton, nel 1992, non fece conoscere l’entità e la qualità dei suoi redditi. Rudy Giuliani è proprietario di una società con intrecci finanziari e interessi pubblici in mezzo mondo, John Edwards è un multimilionario che fino a pochi mesi fa ha lavorato per un hedge fund, Mitt Romney è un businessman e, probabilmente, il più ricco di tutti, anche se mai quanto il magnate dell’informazione finanziaria Mike Bloomberg, ora sindaco di New York e solido proprietario del suo impero. Secondo molti analisti, nessuno dei quali si scandalizza, Bloomberg potrebbe scendere in campo alle presidenziali 2008, proprio grazie al suo patrimonio che gli consentirebbe di utilizzare 500 milioni di dollari di tasca propria e di evitare il fastidioso e lungo processo di raccolta fondi a cui sono obbligati gli altri candidati. Una volta eletto sindaco di New York, Bloomberg ha chiesto al New York City Conflicts of Interest Board, un organo comunale nominato dallo stesso sindaco della città, di valutare se una piccola quota del suo patrimonio, circa 50 milioni di dollari su un totale, allora, di 4 miliardi, fosse in potenziale conflitto di interessi perché investito direttamente in società che fornivano servizi al Comune. Bloomberg avrebbe potuto mettere quei pochi titoli in un blind trust, ma non l’ha fatto, preferendo venderli e dare in beneficenza il ricavato. Da sindaco, Bloomberg non rende nota la sua dichiarazione dei redditi. Se lo facesse – ha detto – danneggerebbe il business delle sue società. La Bloomberg L.P. è un megagruppo che fornisce notizie e analisi finanziarie a banche e istituzioni, possiede un’agenzia di stampa, una radio e una tv. Il suo fondatore e proprietario, dimessosi dalla gestione operativa, è socio della banca d’affari Merrill Lynch, detiene quote di 85 società quotate e ha obbligazioni milionarie della città che governa. Tutto ciò è consentito e non è tema di battaglia politica.
Dalla metà degli anni Settanta è consuetudine, però, far conoscere al pubblico alcune informazioni minime. I candidati alla presidenza, e i membri del Congresso, compilano un modulo che descrive in modo parziale fonte e tipo dei propri guadagni, senza entrare nello specifico e senza rivelare l’esatto ammontare. Questi dati, in ogni caso, non vengono controllati e verificati dallo stato federale, lasciando quindi aperta la possibilità ai candidati di fornire notizie incomplete. Nel modulo ci sono nove categorie di entrate, così ampie e vaghe che le ultime due sono: “Più di un milione di dollari, ma meno di 5 milioni” e “oltre 5 milioni di dollari”.
Il conflitto di interessi vero e proprio, invece, è regolato da un Codice di “leggi etiche” di 90 pagine, disponibile presso l’United States Office of Government Ethics. A differenza delle ipotesi in discussione in Italia, le norme non si occupano dei conflitti potenziali, ma puntano a garantire la trasparenza decisionale e si limitano a sanzionare penalmente i comportamenti privati che effettivamente confliggono con gli interessi pubblici. “Va segnalato – si legge nel report del 31 ottobre 2003 del Congresso degli Stati Uniti che fa il punto delle leggi americane sul conflitto di interessi – che non esiste alcuna legge federale che richiede espressamente a un particolare funzionario federale, o a una categoria di funzionari, di mettere i propri asset in un fondo cieco per esercitare un lavoro pubblico all’interno del governo federale”. Ancora: “I funzionari federali e gli impiegati non sono obbligati a dismettere i loro beni per evitare il conflitto di interessi. Piuttosto… i metodi principali di regolamentazione dei conflitti di interessi, a norma delle leggi federali, sono l’esclusione e la trasparenza (disclosure)”. Le leggi americane, dunque, non impediscono a priori a nessuno, neanche a un simil Berlusconi locale, l’elezione o la nomina a cariche politiche o di governo. La legge americana, malamente invocata in Italia, prescrive esclusivamente “l’esclusione”, cioè la ricusazione, l’astensione dal partecipare a decisioni pubbliche che potrebbero favorire interessi privati, e poi la trasparenza, cioè rendere pubblici i propri interessi finanziari.
Ma c’è di più, molto di più. Seguite bene: l’obbligo di non partecipare alle decisioni pubbliche potenzialmente confliggenti con gli interessi privati vale soltanto per i funzionari di governo e per gli impiegati federali, ma non si applica né al presidente degli Stati Uniti né al vicepresidente né ai parlamentari di Camera e Senato né ai giudici federali (articolo 202, comma c del Codice degli Stati Uniti). Ancora prima che questa esplicita esenzione fosse iscritta nel Codice, era consuetudine consolidata escludere presidente e vicepresidente dalle norme sul conflitto d’interesse, per lo stesso motivo per cui non sono mai state applicate nei confronti dei parlamentari: “Una ricusazione obbligatoria potrebbe, in teoria, interferire con i doveri di presidente e vicepresidente richiesti dalla Costituzione”, si legge nel report del Congresso, perché in democrazia liberale è più importante l’interesse pubblico che gli eletti sono chiamati a perseguire, piuttosto che il potenziale conflitto con i loro interessi privati.
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